Con l’avvento della tecnologia
abbiamo assistito alla creazione di un panorama mediatico chiamato
informatizzazione. Nel corso degli anni, però – al contrario di ciò che si potrebbe pensare - è cambiata non tanto la tecnologia in sé
quanto lo scopo per cui si tenta di farla progredire a ritmi incessanti e in
tempi brevissimi. La tecnologia è passata, infatti, dall’essere stata adottata
e riadattata per semplificarci la vita all’essere sfruttata – più che messa al
servizio – per permetterci di soddisfare bisogni tipici dell’era moderna quali,
ad esempio, la curiosità e la ricerca di consensi e attenzione. In realtà il
fenomeno della curiosità c’è sempre stato, ma si è evoluto anch’esso assieme
all’uomo, partendo da quel tipo di
curiosità tesa all’elevazione della coscienza e della conoscenza di sé e del
“tutto” fino ad arrivare ad un genere di curiosità dai tratti palesemente
morbosi. A tale scopo facciamo un uso spropositato dei più famosi Social
Networks. All’inizio anche Facebook era nato per avvicinare e ri-avvicinare le
persone, mentre ora questo strumento tanto solidale un tempo - ma pur sempre
potente - è stato piegato alle bassezze della quotidianità. E così Facebook ha
assunto molteplici valenze diventando la vetrina in cui esporre la nostra identità
o ciò che crediamo sia la nostra identità. Il punto cruciale è proprio questo:
chi è rappresentato realmente in ogni profilo pubblicato sui Social? Se
ponessimo tale domanda al celeberrimo Luigi Pirandello, avremmo come risposta:
“Uno, nessuno e centomila”; Pirandello sarebbe portato a considerare la bacheca
di ogni singolo utente iscritto a Facebook, o a qualsiasi altro Social, come
una maschera. Ognuno di noi è, infatti, la personificazione di qualcun altro;
ognuno di noi recita un ruolo a seconda delle circostanze, delle esigenze,
delle persone con cui vuole o deve interagire, o a seconda dell’effetto che
vuole sortire. Quando andiamo a lavoro indossiamo la maschera dell’impiegato
modello, quando siamo a casa mettiamo quella della casalinga perfetta, per
uscire con gli amici ne mettiamo un’altra ancora, e così via. Allo stesso modo,
per compilare il nostro profilo, pubblichiamo cose che forniscono un’immagine
di come vorremmo essere o, nei casi più gravi, di come gli altri vorrebbero che
fossimo. In ogni caso, quel profilo non racconta alcunché di noi né di come
siamo fatti veramente. Siamo addirittura convinti che ciò che enunciamo nei
post sia ciò che pensiamo davvero, ma non ci accorgiamo di scrivere solo quello
che pensiamo otterrà un maggiore indice di gradimento. Tutta la nostra vita
ruota attorno al numero di like. Pochi pollici in su e ci sentiamo perduti,
smarriti messi in disparte. Scattano, dunque, subdoli meccanismi di difesa
degni di un Vitangelo Moscarda dei giorni nostri. Attacchiamo gli altri per
innalzare noi stessi e ci eleviamo abbassando il piedistallo, già fragile, su
cui gli altri poggiano. E’ semplice far vacillare delle credenze dal basamento
instabile, e dal bullismo fisico a quello morale il passo è breve. E’ questione
di attimi smontare delle identità quando queste ultime non hanno radici solide,
non sono saldamente ancorate a qualcosa. Ad ogni profilo creato corrisponde la
distruzione della vera personalità di quell’individuo. Ogni foto in posa ritrae
una di quelle famose maschere pirandelliane citate sopra; da quella che dice:
“Io c’ero!”, passando per quella che urla: “Io ho fatto questo!”, fino ad
arrivare a quella fatta tanto per avere qualcosa da pubblicare. Far parlare di
sé o dire la propria su qualsiasi argomento – tanto meglio se si sa poco su di
esso – inonda l’universo telematico di false informazioni, instilla credenze
fuorvianti, pianta i semi dell'insicurezza patologica e accresce la
massificazione, l’appiattimento e l’omologazione delle menti. L’involuzione è
già iniziata e se ne notano gli effetti: teste chine su uno schermo, occhi
inebetiti e calore umano soppresso e soppiantato dal costante scambio di file
multimediali come unica forma di comunicazione. Gli stati d’animo si esprimono
attraverso gli smile, gli emoticon, ci si nasconde dietro pseudonimi, si
elevano tablet a barriere per il terrore di “contagiarsi” con le emozioni, di
“sporcarsi” con troppa umanità. Se vogliamo sapere cosa sta facendo il vicino
di casa o di scrivania, basta consultare “l’Oracolo di Cellulandia” e ogni
mistero sarà svelato, ma guai a bussare a una porta o ad alzare lo sguardo!
Così, oltre ad aver indossato delle maschere, abbiamo anche relegato in un
angolo le relazioni interpersonali.
Fieri di come vanno le cose e
inebriati dal potere che i media ci danno, non ci siamo ancora posti una
domanda fondamentale: “E se i media sparissero domani?”.
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