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LA BELLEZZA

mercoledì 27 marzo 2024

ELIZABETH FINCH

 

Julian Barnes, "Elizabeth Finch", Einaudi.

“Da ciò che ho fatto e da ciò che ho detto

nessuno cerchi di capire chi sono stato”[1].      

Ha ragione, il poeta, ma è inevitabile che – se ci si trova di fronte a una persona intrigante - si indaghi: la curiosità fa parte dell’essere umano.

E Julian Barnes ha creato un personaggio femminile che ha una forza dirompente e attiva i recettori della curiosità, per così dire.

Elizabeth Finch fa l’insegnante, ed è insegnante. È una donna estranea alla sua epoca in molti modi. Nobile d’animo, autonoma di pensiero. Intelligente, arguta, brillante. Il narratore – di lui parlerò tra poco - ci dice che “non era in alcun modo una figura pubblica” e “a googlelarla non si scopre granché”[2].

In un’epoca in cui l’onnipresenza e l’onniscienza non sono più prerogative della sola divinità, ecco che emerge EF, proveniente da quell’ “epoca che precedeva il portatile dentro la classe e i social media fuori e in cui le notizie arrivavano dai giornali e il sapere dai libri”[3]. Sbucata fuori dal passato non aiuta semplicemente i suoi studenti, li sprona a formarsi pensieri autonomi e a discuterne. Propone alternative e idee che sovvertono il punto di vista canonico oppure lo accentuano.

“Pareva esistere a lato del tempo, se non al di sopra”[4].

Mai sprezzante di fronte ai contributi intellettuali e di pensiero dei suoi studenti, seppur tali contenuti potessero essere miseri. In grado di trasformare la “paccottiglia” delle idee studentesche in concetti degni d’interesse.

Rettifica senza mai sminuire, guidando – intanto – lontano dall’ovvio. Incoraggia, stimola.

Suggerisce libri da leggere, ma più che altro invoglia a leggere, sprona all’approfondimento.

EF fa di tutto perché i suoi studenti continuino a elaborare le idee che lei mette a loro disposizione. Cerca di renderli autosufficienti, anche se sa che esserlo non significa necessariamente essere indipendenti.

Serafica, ironica, divertente, mai snob né paternalistica.

Disponibile, ma inafferrabile. Cortese, ma ferma. Ha il dono di far  sentire più intelligente anche l’interlocutore più insicuro.

 “E la consapevolezza di avere soltanto settantacinque minuti con lei rendeva più incisiva non solo la scelta dell’argomento, ma anche, in un certo senso – anzi, decisamente -, la mia intelligenza. Ero più acuto in sua presenza. Sapevo più cose, ero più convincente; e morivo dal desiderio di compiacerla”[5].

Coltiva interessi intellettuali senza tempo.

A tutto sembra opporre una calma indifferenza, sopporta il dolore stoicamente e non chiede aiuto a nessuno.

È dotata di una memoria prodigiosa ed è amante dell’essenziale. Per lei, divertente e rigoroso non sono in conflitto, formano – invece - un connubio.

“Non c’era nessuna misteriosità in lei. Era sempre lucidissima. Diceva soltanto cose vere, che rendeva più vere attraverso la scelta precisa delle parole. Ma se non voleva dirti qualcosa, ti informava chiaramente che non l’avrebbe fatto. Non conosceva vie di mezzo, sottili allusioni, né comode omissioni. […] Mentiva, ma lo faceva sapendo che tu avresti capito, perciò la sua menzogna diventava una verità”[6].

E forse è proprio questo suo essere così chiara e limpida che la rende tanto misteriosa, sia agli occhi dei suoi studenti (in particolare di Neil, il narratore), sia a quelli del lettore.

J.B. ha creato un personaggio da imitare ma inimitabile. Volutamente. EF è unica nel suo genere, perché concentra in sé tutte le caratteristiche migliori ma, essendo inespugnabile dal punto di vista privato, si rende assolutamente inimitabile. J.B., infatti, può dare dei suggerimenti su come comportarsi a livello sociale ma non a livello personale. Non ha una ricetta per l’amore (d’altronde, nessuno ce l’ha) o per gli affetti, ma ha una ricetta per il buon insegnante. EF incarna ciò che un buon maestro dovrebbe fare, non ciò che dovrebbe essere e questo rende EF una donna in carne e ossa e contemporaneamente un’entità effimera e irraggiungibile. Lei è da prendere ad esempio, ma non tanto come persona, quanto nel modo di fare e di pensare.

EF è un mezzo. E l’altro personaggio, Neil, è un altro mezzo, il medium attraverso il quale J.B. può far passare le idee di EF.

EF è una chimera e più si cerca di descriverla meno la si definisce, ma si chiarificano il carattere e i tratti di chi sta cercando di definirla.

Su EF si può solo fantasticare. È quel genere di persona che più si cerca di concretizzare più si idealizza.

“E non fate l’errore di pensare che mi senta sola. Sono un tipo solitario, che è tutt’altra faccenda. Essere soli è una forza; sentirsi soli una debolezza”[7].

La narrazione, come ho già accennato, è dal punto di vista di Neil, uno dei suoi studenti, che mentre ci racconta di EF lascia trasparire un po’ di sé, utilizzando – per entrambi, come collante – un “pretesto” storico: la narrazione della figura di Giuliano l’Apostata.

J.B., attraverso la narrazione di Neil, ci fornisce una descrizione di EF talmente dettagliata da renderla paradossalmente leggendaria. E più si scava nel suo passato e nella sua vita più il terreno frana su se stesso, lasciandoci con ancora più domande. J.B. stimola la nostra curiosità svelandoci apparentemente tanto, ma realmente poco o niente.

J.B. ci porta a fare dei ragionamenti, dei collegamenti molto logici ma anche a pensare fuori dagli schemi, incarnandosi nella figura leggendaria del personaggio da lui creato. E ne esalta le caratteristiche leggendarie contrapponendolo alla figura del narratore, Neil, così “umano” e “tangibile”.

Ci vorrebbe una EF nella vita di ognuno: coinvolgente ma distaccata, rassicurante seppur “scardinatrice” di certezze, forte ma mai invadente. Una su cui poter contare per camminare con le proprie gambe; una da interpellare quando si ha bisogno di pensare; una fonte d’ispirazione ma non un idolo; un contrasto con la frenesia e la superficialità del mondo moderno, il quale dà l’illusione di conoscere tutto e tutti senza tuttavia fornire la certezza di nulla.

Possiamo tentare di capire e di comprendere, possiamo imparare, possiamo immaginare e possiamo inventare, possiamo ipotizzare e, nei casi più estremi, teorizzare, ma non potremo mai sapere o – peggio - pretendere di sapere.

“Impossibile, per i discenti, non perdersi in congetture sulla sua inespugnabile vita privata e non restare colpiti dalle sue idee”[8].

Crediamo di conoscere le persone, ma in realtà non sappiamo nulla di loro e neppure di noi.

“Travisare la propria storia è parte dell’essere una persona”[9].

E, in un certo senso, la prima parte del libro (che riguarda più direttamente EF) sembra “scollegata” dalla seconda. Ma, appunto, si tratta soltanto di apparenza, perché, in realtà, le tante sfaccettature di Giuliano l’Apostata e le tante interpretazioni sulla sua figura storica sono un altro modo per sottolineare il fatto che non possiamo conoscere niente e nessuno con assoluta certezza. Nemmeno quelle cose che ci sembrano assolutamente chiare e inequivocabili; nemmeno quelle persone che ci paiono più trasparenti. Vedendola così, anche se non amate particolarmente la Storia, apprezzerete comunque il libro nel suo complesso, in quanto amalgama di Storia nelle storie e di storie nella Storia. Uno scioglilingua che va letto prestando particolare attenzione alle maiuscole e alle minuscole…

Una persona avrà ritratti diversi a seconda di chi la dipinge. EF non fa eccezione.

“Perché, vedete, questo la rendeva solo più MIA”[10].

E nemmeno la Storia rimane fuori da questo assioma, perché dipende sempre da chi la racconta.

“La memoria è dopotutto un’attività dell’immaginazione”[11].

Anche gli storici, in fondo, possono essere considerati grandi romanzieri…

Neil scrive di sé per scrivere di EF e studia Giuliano l’Apostata per capire di sé e di lei. E per ricordarla/immaginarla.

“Quasi senza volerlo, continuai a leggere di Giuliano l’Apostata; in un certo senso non riuscivo a lasciarlo andare proprio come non riuscivo a lasciar andare EF”[12].

Perché lei gli ha lasciato una sorta di eredità letteraria. Volontariamente? Forse sì, ma il mistero è tanto più bello quanto più è fitto (e/o s’infittisce).

“Succedeva spesso: lei diceva una cosa, tu non la capivi, però te la ricordavi, e anni dopo quadrava”[13].

Forse, in un certo senso, EF e Neil sono opposti complementari che suggellano il loro incontro attraverso un argomento che li accomuna: Giuliano l’Apostata. Forse.

“Elizabeth Finch” è un romanzo ricco di temi storici, esistenziali, sociali, culturali, religiosi, emozionali, sentimentali e filosofici.

È un romanzo meta-letterario, metafisico, meta-storico e meta-religioso dove il prefisso “meta” comprende un “al di là” molto ampio.

C’è molto materiale sul “relativismo” della Storia (la Storia viene scritta dai vincitori e altre cose di questo tipo), ma anche sul “relativismo” religioso: “La convinzione che la religione in cui siamo nati, o alla quale abbiamo scelto di aderire, sia guarda caso l’unica setta depositaria della verità fra centinaia di credenze pagane e apostate”[14].

È un po’ saggio Storico, un po’ romanzo biografico, ma anche un po’ testo filosofico.

Insomma, “Elizabeth Finch” è un libro molto stratificato, acuto e ficcante; ed è particolare, davvero particolare…

Vi lascio con due citazioni interessanti su cui riflettere, pur sapendo che questo libro sprigiona pensieri e riflessioni da ognuna delle sue 176 pagine.

“Il compito del presente è di correggere la nostra visione del passato, un compito che si fa più urgente quando il passato non può essere corretto”[15].

“Non potendo discutere con lei di nessuna di queste cose, tornai alle parole cruciali che aprono il MANUALE di Epitteto: «Le cose sono di due maniere; alcune in potere nostro, altre no». Quelle in nostro potere «sono di natura libere, non possono essere impedite né attraversate»; mentre quelle non in nostro potere sono «deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui». Si può essere liberi e felici soltanto se si riconosce questa differenza essenziale tra ciò che possiamo e ciò che non possiamo cambiare”[16].

 

 



[1] Versi di una poesia di Konstantinos Kavafis, tratti da pag. 123 di “Elizabeth Finch”.

[2] Pag. 11

[3] Pag. 13

[4] Pag. 33

[5] Pp. 40-41

[6] Pp. 67-68

[7] Pag. 69

[8] Dalla seconda di copertina.

[9] Pag. 173

[10] Pag. 173

[11] Pag. 174

[12] Pag. 149

[13] Pag. 39

[14] Pag. 36

[15] Pag. 52

[16] Pp. 140-141

 

Han Kang, L'ORA DI GRECO

 

Han Kang, "L'ora di greco", Adelphi.

“E alla fine, un inverno, era arrivata QUELLA COSA. Aveva appena compiuto sedici anni quando, di colpo, il linguaggio che l’aveva imprigionata e torturata come un vestito intessuto di migliaia di spilli era sparito. Il suo udito funzionava ancora, ma un silenzio simile a uno strato spesso e compatto di aria le aveva ostruito lo spazio tra la chiocciola dell’orecchio e il cervello. Avviluppato in quel vuoto sordo, il ricordo di come usare le labbra e la lingua per pronunciare le parole, o la mano per stringere una matita, si era fatto inaccessibile. Non  pensava più in parole, comprendeva senza parole. Il suo corpo era assediato dentro e fuori da un silenzio che risucchiava lo scorrere del tempo, un silenzio ovattato come prima di imparare a parlare – anzi, come prima di venire al mondo”.

Un libro in cui le parole trovano compiutezza nel silenzio.

Un libro frammentario basato sul tentativo di fondere elementi opposti come il mutismo e la cecità.

Un libro in cui lo straniamento e l’incomunicabilità cercano un punto di contatto. Lo troveranno?

Assurdi indimostrabili che collidono.

Immagini sfocate e spezzettate come i sogni quando si tenta di ricordarli, al mattino.

Un libro in cui ciò che non si vede e ciò che non si sente diventano più importanti di ciò che si vede e si sente.

Un libro in cui il silenzio prende corpo, un corpo pesante, una massa opprimente.

Un libro in cui la cecità diventa il silenzio degli occhi poiché il silenzio immediato e fulmineo di lei e la cecità lenta e progressiva di lui sono opposti e/ma complementari. O – forse – sono la stessa cosa. Il risultato, comunque sia, è l’incontro di due solitudini e il loro tentativo di comunicare attraverso un nuovo (o forse antico?) comune linguaggio che non vede e non parla, ma è in grado di “sentire”, di percepire.

Il suono e il silenzio, il giorno e la notte, il sonno e la veglia, la luce e il buio tornano a essere un unico elemento senza tempo, un elemento che precede la Creazione, una dimensione sospesa tra un tic e un tac…

“Non uscirò dal sogno aprendo gli occhi,

sarà il mondo a spegnersi al mio risveglio”.

 

Han Kang, “L’ora di greco”, Adelphi.