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LA BELLEZZA

sabato 28 maggio 2022

Amélie Nothomb, PRIMO SANGUE

Amélie Nothomb, PRIMO SANGUE, Edizioni Voland. Traduzione di Federica Di Lella.

 

“Primo sangue” è il centesimo libro di Amélie Nothomb. Sì, avete capito bene, il libro numero 100. “Ma ovunque c’è scritto che è il trentesimo”, obietterete voi, “come mai questa incongruenza?” La risposta è che non si tratta di una incongruenza. “In che senso?” domanderete, allora. Nel senso che “Primo sangue” è il trentesimo libro pubblicato su 100 libri effettivamente scritti. [Ad oggi, in realtà, 105.] Dovete sapere, infatti, che la “madre” di questi “figli di carta”, Amélie Nothomb, è una donna estremamente prolifica dal punto di vista letterario: ogni giorno, da molti anni, scrive dalle 4 alle 8 del mattino. Soltanto una volta ha fatto un’eccezione a questa routine ed è stata per lei un’esperienza orribile, da non ripetere. “Primo sangue” è un omaggio di Amélie a suo padre, il diplomatico Patrick Nothomb, morto durante il lockdown imposto a causa del Covid. Patrick, un uomo, un padre, sopravvissuto a innumerevoli sciagure e disgrazie; e Amélie, una donna, una figlia  addolorata per una perdita tanto inaspettata, e incredula perché il fatto di non aver potuto partecipare al funerale le ha reso la notizia dell’accaduto ancor più inverosimile. È dunque il trauma della perdita a scatenare nella scrittrice il desiderio di far rivivere il proprio padre; è il trauma a spingerla e a consentirle di “dare la voce” al padre, tanto è vero che – leggendo “Primo sangue” – il lettore ha l’impressione di sentir parlare Patrick Nothomb. Chi lo ha conosciuto personalmente ha potuto constatarne la “presenza” nelle pagine del romanzo, proprio come se lo avesse scritto lui o, meglio, come se lo avesse raccontato lui stesso, con le proprie parole, con la propria voce. Allo stesso modo, chi non lo ha mai conosciuto, ma ha letto il libro di Amélie, ha l’impressione di aver sentito parlare Patrick. È stato commovente poter ascoltare la scrittrice che, al Salone Internazionale del Libro di Torino di quest’anno, in ben due occasioni ha raccontato cosa ha significato per lei suo padre e cosa ha voluto dire affermando di avergli “dato la voce”. Patrick Nothomb ha avuto un’infanzia durissima, fatta di fame, di freddo, di privazioni e di violenza, ma il suo carattere, forgiato in un ottimismo e in un entusiasmo eccessivi, anzi, esasperati (ed esasperanti per Amélie e i suoi fratelli André e Juliette - che spesso, da piccoli, venivano portati in gita nei lebbrosari o erano costretti a vivere vergognandosi per il solo fatto di aver qualcosa da mangiare mentre intorno a loro regnavano la povertà e la fame), gli ha permesso di conferire un’aura di bellezza anche alle brutture della sua vita. Il libro, però, non ha un assetto cronologico standard, poiché si apre in medias res, in un episodio della vita di Patrick che ha fatto di quest’ultimo un eroe, nel vero senso della parola. È una scena, la prima, che richiama in maniera molto vivida un’esperienza che anche lo scrittore russo Dostoevskij ha vissuto sulla propria pelle: chi legge, infatti, si trova catapultato nello scenario di una fucilazione. C’è un plotone di esecuzione, ci sono dodici fucilieri, c’è la vita che dilata i propri tempi di fronte alla prospettiva della morte. Il condannato è Patrick. Come risulta chiaro dalle prime parole del mio articolo, Patrick si salverà, ma il lettore lo intuirà solamente nell’ultima pagina del romanzo, quando la fine si riunirà al principio, chiudendo il cerchio della giovinezza del protagonista. Amélie ci lascia, infatti, di fronte al plotone d’esecuzione per tutta la durata del suo libro, dando la netta impressione che la vita stia scorrendo davanti agli occhi del padre. [Il romanzo è scritto in prima persona.] D’altronde lo si sente dire spesso: quando ti trovi in prossimità della morte, tutta la vita ti passa davanti in pochi istanti, come in un film. Sarà vero? Beh, che sia vero oppure no, questo detto risulta essere particolarmente efficace come espediente narrativo. Ma che cosa passa davanti agli occhi di Patrick Nothomb mentre attende di essere fucilato? Il corpo centrale del libro racconta proprio questo: 28 anni di vita, dall’infanzia al primo incarico diplomatico, passando per il matrimonio con  Danièle, la nascita dei primi due figli (André e Juliette) e una fobia quasi invalidante chiamata “emofobia”, ovvero la tendenza a svenire alla vista del sangue.

“Ma come ha fatto, Amélie, a scrivere del padre, con la “voce” del padre, se lui non parlava quasi mai?” Ve lo state chiedendo, vero? Se è così, sappiate che la domanda è legittima e la risposta è: dalla moglie (cioè la madre di Amélie) e dagli zii del padre, coetanei dello stesso Patrick. [Sì, è bizzarro, avete ragione ma tant'è.]

Prima di proseguire, vorrei chiarire una cosa: sto scrivendo questo articolo di getto, senza l’ausilio di una scaletta, però adesso mi corre l’obbligo – più che altro per chiarezza espositiva – di argomentare in maniera più approfondita le informazioni a cui fino ad ora ho strizzato l’occhio. Partirei dalla tendenza parsimoniosa di Patrick nell’uso delle parole. Patrick era un diplomatico con una sorta di “schizofrenia del linguaggio” - passatemi questa brutta definizione – per la quale era portato a intrattenere lunghe e complesse conversazioni all’interno del contesto lavorativo, mentre centellinava le parole quando si trovava all’interno del contesto famigliare/privato. La sua non era semplice riservatezza; Patrick Nothomb parlava poco, pesava e soppesava le parole perché credeva nella loro responsabilità, nella loro potenza. A questo si aggiungeva anche, forse, il timore di non saper fare il padre, perché – va detto – lui stesso non ne aveva avuto uno. [Il padre di Patrick, un militare, morì a 25 anni, tentando di sminare un terreno quando lui aveva soltanto otto mesi.] Mancandogli, dunque, un riferimento paterno diretto, le sue fondamenta di padre dovevano sembrargli troppo poco solide per ricoprire in modo adeguato un ruolo tanto importante. Ma è difficile (e complicato) sapere che cosa gli passasse davvero per la testa…

La figlia Amélie ha in parte ereditato questa parsimonia linguistica, che si manifesta nell’attenzione verso le parole da usare e nella scelta oculata di queste ultime. È pur vero che il fatto di aver vissuto per un po’ in Giappone, le ha fatto acquisire maggiormente la consapevolezza della lingua francese. Ad Anna Lombardi, che l’ha intervistata all’Arena Robinson del Salone, racconta di sognare in francese ma con l’inserimento sporadico di alcune parole giapponesi. Fa l’esempio della parola Tokonoma che è il termine giapponese per identificare e definire un particolarissimo spazio della casa in cui si conservano i beni più preziosi che si possiedono. Il Giappone, per i membri della famiglia Nothomb, non è soltanto un luogo in cui hanno trascorso una parte della vita, è anche e soprattutto uno stile di vita. La filosofia di vita di Patrick e di sua moglie Danièle è più simile a quella Orientale che a quella Occidentale. Ciò che invece lega Amélie al Giappone è una particolare esperienza lavorativa: la scrittrice belga ha infatti rivestito per alcuni mesi il ruolo di guardiana dei WC maschili. È stata un’esperienza degradante e umiliante, tuttavia propedeutica al consolidamento della volontà e della capacità di mettersi in gioco di Amélie che, senza di essa, non avrebbe forse mai avuto il coraggio di lanciarsi nel mondo della scrittura. E, a proposito di scrittura, non posso esimermi dal riportare ciò che Amélie ha raccontato durante l’incontro avvenuto in Sala Azzurra.

Nella Sala Azzurra del Salone del Libro di Torino. A sx: Stefano Petrocchi; in centro: Amélie Nothomb; a dx: Daria Galateria. Foto: Manuela Barbagallo.

 Dialogando con la moderatrice Daria Galateria, ha dichiarato infatti di aver avuto, fin dall’inizio della sua carriera, l’appoggio del padre. Patrick ha letto tutti i suoi romanzi: non appena ne veniva pubblicato uno nuovo, Amélie lo sottoponeva al giudizio meticoloso del genitore che, dopo aver trascorso la notte a leggere, al mattino esprimeva i propri pensieri, le proprie considerazioni e il proprio giudizio alla figlia. Restando in tema di scrittura come filo di collegamento padre-figlia, c’è ancora un episodio che vale la pena di riportare da quell’incontro in Sala Azzurra che ho nominato qui sopra. Amélie ha scoperto per caso che il padre aveva rilasciato un’intervista in cui dichiarava che avrebbe tanto voluto che sua figlia scrivesse un libro su di lui. Così è stato, in effetti, perciò anche se la morte li ha separati, la scrittura li ha riuniti.

All'Arena Robinson del Salone del Libro di Torino. A sx: Amélie Nothomb; in centro: Daniela Di Sora (Voland); a dx: Anna Lombardi. Foto: Manuela Barbagallo.

Veniamo ora al titolo del romanzo. “Premier sang” ha più di una valenza: rappresenta, innanzitutto, il punto debole di Patrick, l’emofobia e il momento in cui sviene per la prima volta alla vista del sangue. Punto debole che Patrick riesce – grazie alla propria astuzia diplomatica e/o linguistica – a trasformare in punto di forza durante il suo primo incarico lavorativo. Ostaggio dei ribelli in Congo, dovette assistere all’omicidio di molte persone [1500 era il numero totale di ostaggi; 1400 quelli che Patrick, grazie alla sua forza di volontà e alle sue facoltà di negoziazione, riuscì a salvare diventando a tutti gli effetti un eroe]. Ogni volta che i ribelli uccidevano qualcuno, lui era costretto a distogliere lo sguardo, destando sospetti negli aguzzini che – se fossero venuti a conoscenza della sua debolezza – avrebbero immediatamente smesso di ammirarlo e rispettarlo per poi ucciderlo. Ad ogni domanda dei ribelli sui motivi del suo comportamento bizzarro lui rispondeva che distoglieva lo sguardo per rispetto dell’anima dei defunti. Che cosa, però, ha fatto di Patrick Nothomb un eroe? Come è riuscito a salvare quelle 1400 persone? La risposta è: con la forza della parola. Ogni giorno – dall’alba a notte fonda – trattava coi ribelli e li rabboniva perché non mettessero in atto le loro minacce di morte. Dovette, per ben 4 mesi, fare appello a tutto se stesso per non crollare sotto il peso delle responsabilità, della paura e della stanchezza che lo schiacciavano, lo opprimevano e lo soffocavano. Persino un attimo prima dell’esecuzione ciò che riuscì a salvargli la vita fu proprio la parola. Ma non vi racconterò questo, che è l’episodio conclusivo del romanzo, perché possiate scoprire quale espediente lo ha risparmiato.

Premier sang, però, è anche un modo per dire “primo cento”. Ci ho messo un po’ a capire cosa volesse intendere l’autrice con “primo cento”, ma poi ho realizzato che effettivamente questo romanzo è il centesimo e – per via della velocità di scrittura di Amélie – probabilmente rappresenta uno spartiacque, una linea di demarcazione che divide i primi cento romanzi dai prossimi cento.

“Primo sangue”, inoltre, ricorda l’espressione usata negli antichi duelli in cui, proprio allo spuntare del primo sangue, i contendenti interrompevano il combattimento.

Arrivati a questo punto, forse, vi starete chiedendo se Primo sangue contiene solo episodi tragici e/o tristi. Beh, posso affermare - con il sorriso sulle labbra per ciò che mi riporta alla mente questa domanda - che “l’autobiografia biografica” [come amo definire questo libro] di cui Amélie è l’autrice e il padre Patrick è il protagonista contiene anche spezzoni di vita teneri e altri addirittura divertenti che, ovviamente, non vi svelerò.

Posso dire altro di questa scrittrice meravigliosa e brillante? Ci sarebbero tante, tantissime cose da dire su di lei, ma mi limiterò a riportarvi quelle che lei stessa ha raccontato al Salone. [Per avvalorare la tesi che, per scrivere bene bisogna prima di tutto leggere tanto] Amélie si dichiara un’attenta e appassionata lettrice, tanto è vero che – sapendo di dover venire a Torino – si è preparata leggendo Natalia Ginzburg. E, quando le hanno domandato il titolo del libro che l’ha spinta in direzione della scrittura, ha risposto che - a segnarla profondamente - è stato “Lettere a un giovane poeta” di Rainer Maria Rilke.


Amélie Nothomb all'Arena Robinson del Salone del Libro di Torino. Foto: Manuela Barbagallo.



Ho amato tutti i libri di Amélie che ho letto fino ad ora e “Primo sangue” non ha costituito un’eccezione, perciò speravo con tutto il cuore che vincesse il Premio Strega Europeo per il quale era candidata proprio con questo libro. La Casa Editrice Voland, che da anni ormai pubblica i suoi romanzi qui in Italia, aveva già portato a casa una vittoria l’anno scorso grazie a Georgi Gospodinov e al suo splendido “Cronorifugio” [di cui potete trovare la recensione sul mio profilo Instagram]. Ed è stata una bellissima sorpresa poter festeggiare la “doppietta” perché quest’anno Amélie Nothomb – e, con lei, la Voland – ha vinto ex aequo insieme a Michail Shishkin e il suo “Punto di fuga” (21lettere).

L'autografo e la dedica di Amélie Nothomb.
Daniela Di Sora, Direttrice della Casa Editrice Voland, ha certamente avuto occhio quando ha assunto il carico di pubblicare Amélie Nothomb in Italia. Per poterlo fare, dovette accettare di pubblicare ben quattro titoli in un colpo solo, perché come abbiamo già appurato Amélie scrive moltissimo e al momento di stipulare il contratto con la Voland aveva già prodotto quattro libri. Fu una sfida ardua, in quanto la Casa Editrice italiana era agli albori, ma io – e, con me, tutti/e coloro che amano i romanzi di Amélie – le sono/siamo immensamente grata/i per aver portato il grande talento letterario e la grande sensibilità di questa artista nel nostro Paese.

 

venerdì 27 maggio 2022

Marcello Simoni, LA DAMA DELLE LAGUNE

 

 

A sx: Marcello Simoni; a dx: Mario Baudino. In alto: la copertina del nuovo romanzo di M. Simoni. La foto è di Manuela Barbagallo.

 

Marcello Simoni, “La dama delle lagune” (La nave di Teseo).

Con Mario Baudino, al Caffè Letterario, Padiglione Oval del Salone Internazionale del Libro di Torino.

Sabato 21/05/22

N. B. : Quella che segue non è propriamente la trascrizione della conferenza, bensì un “compendio” dei concetti fondamentali in essa trattati. Buona lettura!

A sx: Marcello Simoni; a dx: Mario Baudino. Foto di Manuela Barbagallo.

 

M. B. : Perché hai scelto proprio il medioevo per ambientare il tuo ultimo romanzo?

M. S. : Perché il Medioevo è qualcosa di più di un’epoca storica, è diventato un luogo comune, è diventato una parola che va a definire uno stato mentale, la condizione di un’epoca e persino la dimensione attuale – quella che stiamo vivendo in questo momento – o addirittura la dimensione fiabesca. Star Wars (Guerre Stellari), ad esempio – che, per inciso è una delle serie che preferisco – viene etichettata come una serie di fantascienza, ma in realtà è una serie fantasy che ricostruisce dei moduli dell’immaginario popolare collettivo che riguardano il Medioevo. Il cavaliere Jedi è un cavaliere Templare; Dart Fener è il Cavaliere Nero, il Templare rinnegato che possiamo trovare per esempio in Ivanhoe. C’è una contrapposizione tra Impero e piccoli stati che sembra si muovano nel caos e nel disordine di un’epoca, di un periodo che va ricostruendosi. Perciò ci sono molti elementi che a prima vista ci riportano subito nel Medioevo. Questa dimensione fiabesca è divertente da scrivere e anche da leggere perché riaccende il nostro immaginario e – con esso - una sorta di database enorme che noi tutti possediamo e al quale possiamo facilmente accedere. Se io, per esempio, descrivo un omicidio all’interno di un monastero, metto in scena elementi che voi conoscete. C’è il monastero, il nartece, la navata, il pavimento mosaicato, il pulpito… Poi entra un monaco avvolto in una tonaca nera e voi tutti siete in grado di vedere queste cose anche se non siete mai stati nel Medioevo. Perciò, scrivendo romanzi ambientati in quest’epoca, posso fare leva  su un immaginario che già possedete e posso integrarlo  con delle cose che non conoscete ma che vi basta pochissimo per conoscere. Posso, ad esempio, inserire un candelabro elaborato in un determinato modo, posso esporre in una cripta un manoscritto particolare, con delle miniature che magari appartengono a un miniaturista proveniente dalla Spagna del IX secolo. Perciò basta poco per trasformare questa dimensione potenzialmente fiabesca in una dimensione storica.

Marcello Simoni. Foto di Manuela Barbagallo.

Game of Thrones (Il Trono di Spade) è un’altra serie bellissima e – prima ancora, è una bellissima serie di romanzi – però è una serie fantasy. Forse c’è più fantasy all’interno di Game of Thrones che all’interno di Star Wars perché il Medioevo di G. of T. è un Medioevo immaginario, fittizio, è una realtà a metà strada  tra il Medioevo e il Rinascimento, in una terra che non c’è, dove in realtà le persone ragionano in maniera moderna. Se i personaggi di S. W. ragionano quasi come degli uomini del Medioevo, i personaggi di G. of T. ragionano come degli uomini contemporanei. Questo è il gioco più difficile e la parte più divertente dei miei romanzi: non si tratta solo di ambientare dei delitti 1000-1200 anni fa, all’epoca di Carlo Magno; non si tratta solo di descrivere i monasteri, le armature, le barche dell’epoca… La parte più difficile ma anche più divertente è far capire come pensavano queste persone. E come fai a capire come pensava un uomo vissuto 1200 o 1300 anni fa? La loro idea di Dio, per esempio, era diversa da quella che abbiamo noi oggi: quando l’uomo medievale pensa a Dio, pensa a Carlo Magno, all’Imperatore, a uno che fa il bene e il male in nome di un bene superiore; quando noi, oggi, pensiamo a Dio, pensiamo a un Signore tanto buono, con la barba bianca, che vuole bene a tutti e che non ci farebbe mai del male. Questi romanzi, pur essendo gialli, pur essendo storie di delitti, pur essendo degli intrighi, delle costruzioni di trame avventurose, sono anche delle indagini del modo di pensare, della psicologia degli uomini di un’età passata. E le storie di delitti, i noir, sono gli strumenti narrativi adatti a farlo. Il giallo è ancora definibile come romanzo di genere? In realtà il giallo, il thriller è una storia  che va a svilupparsi in parte intorno a quello che succede al personaggio, ma in parte va a indagare su quello che succede dentro i personaggi, nel loro modo di pensare, nella loro psicologia, nel loro modo  di vedere le cose, nel loro modo di rapportarsi con gli altri, di interpretare la realtà in cui vivono. Naturalmente, se qualcuno – oggi - diventa un criminale, è perché interagisce nel modo sbagliato con la realtà che lo circonda. Nel Medioevo, se uno commette dei delitti dovrò spiegare in quale modo lo fa e in quale modo la realtà che lo circonda (diversa da quella di oggi) interagisce col suo modo di vedere le cose. Come faccio a costruire questo modo di pensare? Cerco di capire quello che leggevano le persone dell’epoca, i libri che venivano copiati, cerco di capire il significato delle illustrazioni degli arazzi, degli affreschi, delle miniature, dei mosaici. Spesso sembrano immagini lontane dalla perfezione del Rinascimento, ma in realtà hanno un valore simbolico molto più grande (di quello del Rinascimento). E poi, un altro dei miei “moventi”- come narratore – è quello di  dimostrare quanto in realtà il Medioevo sia stato un’epoca di grande progresso. Il Medioevo dura circa 1000 anni: è un arco di tempo lunghissimo in cui ci sono stati tanti Medioevi diversi, tanti momenti diversi non soltanto dal punto di vista della scansione cronologica, ma anche da quella spaziale. E, se per 1000 anni fossimo stati nell’oscurità vivendo di peste, di eresia, di decadenza, di confusione - come spesso si dice abbia vissuto l’uomo medievale - non saremmo mai arrivati al Rinascimento, non saremmo mai arrivati al 1500, ci saremmo estinti tutti. Che cosa è stato, veramente, il Medioevo? È stato ANCHE un momento di oscurità e di disordine (disordine che -  per inciso – stiamo vivendo anche oggi, epoca che di certo non può essere definita un progresso rispetto a quello che accadeva 1000 anni fa. Direi che l’uomo, in alcune cose, non è cambiato proprio, perché  una certa forma di oscurantismo non appartiene all’epoca storica, bensì al modo in cui l’uomo vuole prevaricare l’uomo. Questa cosa fa parte non di un’epoca storica, ma della natura stessa dell’essere umano). Ma il Medioevo è stato anche  il momento in cui sono state fondate le Università, sono nati i Comuni, c’è stata una riscoperta, un progresso per quello che riguarda la Scienza, la Matematica, l’Algebra, la Medicina, lo studio approfondito della Letteratura (pensiamo al Dolce Stil Novo), la Simbologia. C’è stata la nascita di quella che potremmo definire l’Europa dal punto di vista geopolitico così come poi era destinata a diventare oggi. E poi c’è stato il Rinascimento. Che cos’è il Rinascimento? È un’epoca in cui, appunto, si rinasce, si riscopre l’Arte Classica, ci si avvicina di più al modello iconografico, al canone estetico dell’Arte dell’Antica Grecia, si riscopre Aristotele… Ma Aristotele lo si conosceva già nel Medioevo; si riscopre Virgilio, ma Virgilio lo conoscevano già nel Medioevo. Pensiamo a Dante, uomo medievale, che si fa guidare nell’Inferno da Virgilio, e che quindi conosce già i Classici.

Ci sono molte abbazie (quella di Montecassino, quella di Bobbio, quella di Pomposa) che non possedevano soltanto la Bibbia, avevano anche testi come quelli di Cicerone. Ci sono abbazie che fanno tradurre testi di Aristotele dall’arabo, addirittura…

Conoscevano già Vitruvio, dunque conoscevano già la proporzione, perciò quando vi dicono che il Rinascimento è il momento principe che finalmente va ad illuminare tutto il buio del Medioevo, vi stanno raccontando una bugia; una bugia che viene perpetrata da decenni nelle scuole italiane. Il Rinascimento è la fase ultima e più matura del Medioevo. È una fase in cui si parla di Astrologia, è un momento – dicono – in cui nasce la prospettiva, ma pensiamo a Giotto, pittore medievale… Il Rinascimento è una fase più matura e anche un po’ noiosa, se vogliamo dirlo, rispetto a quello che succede nel Medioevo. Perciò  in parte, quando parlo del Medioevo e di uomini medievali, cerco di far rivivere tutto questo.

Stavo giusto parlando, in un’intervista radiofonica, della differenza tra la bellezza dell’Arte rinascimentale e la bruttura dell’Arte medievale. In realtà, l’Arte medievale non è brutta, semplicemente a un certo punto, intorno all’anno 1000, ma già da prima, gli uomini capiscono che l’Arte non deve soltanto essere bella, deve trasmettere qualcosa di più, deve trasmettere quello che è il Simbolo. Il Simbolo così come lo concepiamo oggi, così come ce ne parla Dan Brown nei suoi romanzi, nasce e si sviluppa nella sua accezione durante il Medioevo. Ce ne dà prova Dante Alighieri nella Divina Commedia, che è un gioco di Simboli. Perciò l’immagine, per caricarsi di questi Simboli, deve diventare quasi surreale. Ecco perché abbiamo l’accentuarsi del chiaroscuro, ecco perché le figure umane iniziano ad acquisire degli occhi più grandi, dove si vedono le iridi che vengono scavate con il trapano proprio per dare questo senso di chiaroscuro; ecco perché si dà più importanza al movimento che non alla proporzione umana. Man mano che si procede verso il Rinascimento, che si “riscopre” la proporzione dei corpi, si darà sempre più valore alla proporzione, sempre più valore alla prospettiva, ma sempre meno valore al Simbolo. Tutto il gioco di significati (Astrologia, Teologia, rapporto tra macrocosmo e microcosmo) che c’era nella mentalità degli uomini medievali, un po’ per volta si impoverisce nel Rinascimento, fino a sparire definitivamente nel 1600-1700 che, guarda caso, sono i secoli in cui si bruciano più streghe… Il Medioevo spesso viene associato alla stregoneria, in realtà l’unica paura che c’era nel Medioevo era quella verso l’eretico, verso i Saraceni. La parola “strega” non esisteva neanche. Perciò, ecco, una delle mie piccole missioni come narratore è anche cercare di rimettere un pochino in ordine queste cose giocando, appunto, sui delitti e cercando di riempire gli spazi vuoti di un’epoca (perché più scavi in profondità e meno elementi su cui costruire hai) per dare un’idea più verosimile possibile ma anche più divertente possibile per questo periodo.

M. B. : Quanto è stato importante, per te, “Il nome della Rrosa”?

M. S. : Il mio rapporto con “Il nome della rosa”… Ricordo che vidi prima il film: me lo fecero vedere alle Medie e ricordo le risate, i fischi, i brusii in classe nel momento in cui Adso “incontra” la ragazza. Penso di essermi ricordato soltanto quella parte del film, per molto tempo. Intanto, però, dal punto di vista filmico, mi ero già fatto una discreta cultura con Sandokan, il Corsaro Nero, che erano già diventati dei grandi amori letterari. Ricordo i vecchi film in bianco e nero dei moschettieri che mi portarono a scoprire Dumas, mi portarono a scoprire i libri di Salgari, Verne, “Le mille e una notte”. Ho recuperato in questi giorni un vecchio film ispirato a “Le mille e una notte” intitolato Il ladro di Baghdad, dove si vede il Genio che esce dalla lampada; in quel film si fa riferimento al fatto che il Genio era stato messo lì da Salomone, perciò già c’era un imprinting di quello che era il meraviglioso dell’Oriente, del Medioevo che poi ritorna nei miei romanzi. Mi ero già fatto questo “tappeto” di romanzi che adoravo e solo dopo venne “Il nome della rosa”. La prima volta l’ho letto con molta fatica… Se io oggi scrivessi un romanzo come quello, nessuno lo leggerebbe. Umberto Eco scrive in un periodo pre-Wikipedia, pre-Internet dove la gente, per trovare le cose, doveva cercare nell’enciclopedia cartacea. Oggi viviamo in un Paese in cui un ragazzino su due ha difficoltà a capire quello che legge, perciò io so che devo fare i conti anche con questo. Io adoro la Storia, sono un autore popolare, sono innamorato del bello scrivere…

M. B. : Tu sei un autore che SA essere popolare…

M. S. : Ti dico di più: io mi diverto ad essere popolare e molti mi dicono che i miei romanzi piacciono perché sembro uno scrittore americano. È vero, io faccio fatica a leggere autori italiani. Uno degli autori che preferisco è James Patterson. Patterson è un autore molto prolifico che ha capito benissimo che la prima cosa importante in un romanzo è incuriosire la gente. Incuriosirla e non annoiarla. Far succedere subito un colpo di scena che ti leghi alla storia e che ti imponga di andare avanti per vedere come va a finire. Il narratore è prima di tutto un intrattenitore. L’aveva già capito Dante Alighieri. Dante  scrive un capolavoro, un’opera che dà sfoggio della sua sapienza, della sua passione, della sua preparazione astronomica, teologica, storica, ma Dante – scrivendo la Commedia – scrive una storia popolare per l’uomo del 1200-1300. Sceglie di scrivere una storia di un viaggio nell’Oltretomba (come quello di Ulisse). Chi non leggerebbe la storia di un uomo che viaggia nell’Oltretomba? Dante sapeva benissimo che doveva prima di tutto incuriosire, spaventare… E inizia la Commedia portando se stesso nell’Inferno, mettendo in scena delle situazioni che sono degne di Stephen King o di Clive Barker. Perciò è importantissimo colpire la fantasia, la curiosità del lettore e - per farlo - serve un linguaggio comodo, come un abito che ti viene cucito addosso, perché oggi abbiamo a che fare con lettori pigri.

Ho letto “Il nome della rosa” a 15 anni e naturalmente è stato una fase importante della mia vita di lettore (di lettore, perché quando l’ho letto non sapevo ancora che sarei diventato uno scrittore). Ho capito allora che è possibile ambientare un giallo alla Agatha Christie nel 1300. E ho anche capito che è bene che un libro parli di altri libri. Quando Umberto Eco parla di Guglielmo da Baskerville, in realtà sta parlando di Sherlock Holmes. C’è tanto di “Uno studio in rosso” di A. C. Doyle ne “Il nome della rosa”.

M. B. : E, d’altra parte, Baskerville richiama “Il mastino dei Baskerville”…

M. S. : Esattamente. L’unica differenza che c’è tra Sherlock Holmes e Guglielmo da Baskerville è che il primo usa la regola della deduzione, mentre il secondo usa Aristotele come metodo di indagine. E poi, al posto di Watson c’è Adso.

Un libro, quindi, può parlare di altri libri ed ecco che anch’io, quando scrivo i miei romanzi, applico questo metodo.

Mi fa sempre molto sorridere ciò che scrivono sulle fascette dei miei libri: “Simoni è come Umberto Eco, ma più divertente”. In realtà Eco è stato molte cose, come Carlo Magno. Quando Carlo Magno è morto nessuno è riuscito a tenere insieme il suo Impero perché era tante cose. Io penso di avere imparato da lui ma anche da Conan Doyle la precisione, l’amore per la parola, ma al di là di questo non vado. Io sono un narratore che vuole divertire, prima di tutto, e naturalmente il Medioevo dal punto di vista di un narratore come me è un enorme parco giochi dove puoi far succedere di tutto.

M. B. : In questo romanzo, però, non viene assassinato nessun monaco…

M. S. : In effetti penso sia l’unico dei miei romanzi in cui non viene assassinato un monaco…Volevo uscire dalla monotonia. In compenso, nel prossimo ci sono degli omicidi… che non potete neanche immaginare!

In uno dei miei romanzi ho scritto di una persona schiacciata dentro un torchio tipografico… Per immaginare e inscenare quel delitto avevo riempito il mio studio di disegni di torchi tipografici.

M. B. : Stavo proprio per chiedertelo: prima fai le prove?

M. S. : A volte sì… Simulo mosse dei duelli con le mie spade da samurai, per esempio. A volte infatti, si leggono in giro delle cose che sono umanamente impossibili e non solo nei combattimenti, ma anche negli approcci amorosi!

Poi disegno tantissimo perché voglio visualizzare le scene, voglio capire se le cose sono verosimili e che impatto visivo possono avere nell’immaginazione del lettore. Lo scopo è appurare, verificare. Anche perché io ho una base di archeologo, perciò sono legato anche a quella che viene chiamata “archeologia sperimentale”; voglio sempre verificare ciò che scrivo.

M. B. : In tema di cose impossibili, torniamo a “La dama delle lagune”: qui c’è quella che sembra la maledizione di Tutankhamon, infatti abbiamo un cadavere molto antico che produce degli strani effetti… È davvero possibile restare uccisi dalle esalazioni di una sepoltura antica?

M. S. : Quando fu aperta la tomba del Faraone e alcune persone morirono si parlò di maledizione. Probabilmente, invece, quelle persone erano entrate in contatto con dei germi, dei batteri che erano rimasti isolati, in asfissia per molto tempo. Nel caso del mio romanzo si tratta di un sarcofago che è rimasto per centinaia di anni isolato in un genere di terreno molto particolare che si trova solo nella zona di Comacchio (che è poi il territorio dove abito io). Comacchio è molto particolare dal punto di vista archeologico (questa cosa è stata scoperta negli anni ’60-’70 a seguito del ritrovamento del sito archeologico delle tombe della città etrusca). Sotto lo strato di sabbia, infatti, c’è uno strato di argilla grigio-azzurra che isola completamente e manda in asfissia qualsiasi oggetto archeologico. Non a caso è possibile trovare anche oggetti di legno (ci sono resti di palafitte che  derivano addirittura da prima del tempo di Spina). È stata trovata una nave romana quasi intatta che appena è venuta a contatto con l’aria ha iniziato a disgregarsi. Perché? Perché i batteri che erano rimasti “in letargo”, addormentati nel legno dall’età romana si sono risvegliati al contatto con l’aria. Il cadavere di cui parlo nel mio libro era stato deposto su un cuscino di fiori particolari, perciò tutto quello che rappresenta l’ambiente biologico che era stato rinchiuso nella cassa, una volta liberato, può aver intaccato le persone direttamente impegnate nell’apertura della cassa.

Non ho potuto provarlo personalmente, così ho voluto lasciare il dubbio. Mi sono preso una licenza molto simile a quella che mi ero preso in un altro dei miei romanzi (“La monaca senza volto”) che parla di una storia ambientata per metà nella Milano del ‘600 e per metà in Egitto. A un certo punto c’è un personaggio che trova un sarcofago in una grotta, infila una mano all’interno del sarcofago e le sue dita restano pietrificate. È vero? Non è vero? Chi lo sa… Ci sono diversi esempi di conservazione di cadaveri che provengono dal 1500, 1600, 1700 dove sembra che alcuni corpi di animali siano stati letteralmente pietrificati secondo un processo di calcinazione che noi oggi non riusciamo a ricostruire. Perciò, di tanto in tanto, mi piace pungolare un po’ il lettore perché il lettore è anche in cerca del meraviglioso, dell’immaginario, vuole essere stupito. Poi, alla fine del romanzo io tendo a spiegare che cosa è storicamente attendibile e che cosa, invece, riguarda gli argomenti sui quali mi sono preso qualche licenza o sui quali non è ancora stata fornita una spiegazione scientifica attendibile. Anche Glenn Cooper, appassionato di Storia e di Archeologia, fa cose di questo genere.

M. B. : C’è quindi anche della fanta-archeologia…

M. S. : Beh, non dobbiamo dimenticare che il mio è un romanzo storico che però è stato scritto ai giorni nostri…

M. B. : In pratica, racconti dal punto di vista di oggi una storia di ieri…

DOMANDA DAL PUBBLICO: come mai hai scelto proprio questo periodo (il IX secolo) per ambientare il tuo nuovo romanzo?

M. S. : Ho scritto molti romanzi ambientati nel Medioevo, in particolare nel 1200, ma per questo romanzo ero alla ricerca di un’epoca davvero remota, prima del 1000, ai tempi di Carlo Magno. È veramente una parte del Medioevo che potremmo definire “oscura”, ma non per una questione di barbarie, bensì per una questione di penuria delle fonti storiche. Sappiamo un sacco di cose su Carlo Magno, su Eginardo, sui fatti più rilevanti della Storia, ma poco o nulla sappiamo sulla Storia relativa alla zona di Comacchio e dintorni. Questa povertà per lo storico è, invece, una miniera d’oro per  il narratore. L’unica notizia certa che avevo è che Comacchio viene attaccata da navi bizantine perciò io ho visto in questo vuoto archivistico un arazzo che aspettava soltanto di essere ricamato.

M. B. : Quindi la Comacchio che racconti è inventata: sappiamo solo che c’era…

M. S. : Sì, perché di Comacchio noi cominciamo ad avere qualcosa di certo a partire dal 1500. Prima – dicono gli storici – era “una vagabonda figura sulle cartine geografiche”. Abbiamo alcuni dati topografici: sappiamo delle lagune così come erano un tempo, abbiamo alcune notizie da Isidoro di Siviglia che parla delle imbarcazioni usate dai comacchiesi e sappiamo che c’erano dei monasteri (o di San Colombano o di San Benedetto, due ordini che in quel periodo andavano per la maggiore). Sappiamo che Comacchio si trova a metà tra Venezia e Ravenna, dunque era a metà tra l’Impero bizantino e il Regno longobardo che poi diventerà il Sacro Romano Impero di Carlo Magno. Ecco, su Comacchio sappiamo queste e poche altre cose.

M. B. : Però tu ci descrivi benissimo le imbarcazioni, la vita quotidiana dei comacchiesi, il modo in cui guidano, fin dove possono spingersi… Come hai fatto?

M. S. : Quando si è trattato di descrivere la laguna e il modo in cui queste persone si muovevano su di essa mi è venuto in soccorso Isidoro di Siviglia nato e vissuto in Spagna, che non aveva mai visto nulla di Comacchio. Isidoro, però, era uno dei primi enciclopedisti dell’epoca e ha scritto un libro bellissimo intitolato “Etymologiae” in cui spiega il significato delle cose a partire dal loro nome. Tra le cose che descrive in quel libro ci sono anche le imbarcazioni: il carabo, la cumba…  Sono nomi bellissimi che io ho voluto far entrare nel mio romanzo perché erano sonorità antiche. Il carabus, ad esempio, deriva dal nome del guscio del granchio. Molte di queste navi sono scavate nei tronchi degli alberi oppure sono degli scheletri di vimini rivestiti da pelli non conciate, perché potessero galleggiare. Una barca simile la troviamo Ne “L’Isola del tesoro” di Stevenson, tanto per tornare ai collegamenti tra libri.

M. B. : Noi leggiamo un bel libro di avventure, ma ogni pagina è frutto di una ricerca approfondita…

M. S. : Ogni pagina, ogni parola va pesata; sappiate che ho valutato anche le espressioni più banali, per capire se potevano appartenere ed entrare in quel contesto o se, al contrario, andavano scartate perché troppo moderne o perché suonavano come anacronismi. Che cos’è un anacronismo? Un anacronismo, ad esempio, è quando trovi una chiave inglese sotto una piramide. Il romanzo storico deve essere fedele e coerente e soprattutto avere una rispettabilità filologica in modo che il lettore si diverta senza che l’illusione temporale si spezzi. Dalla prima all’ultima pagina il lettore deve avere l’impressione di trovarsi veramente nel Medioevo.

LA MIA DOMANDA: come nasce e si sviluppa una storia nella tua testa, prima di essere scritta, e poi nel momento in cui viene stesa su carta? Cioè: come/da dove nasce l’ispirazione per i tuoi romanzi?

M. S. : Questa è una domanda da addetta ai lavori: tu scrivi?

IO: Sì.

M. S. : Allora, le prime idee che ho di un romanzo prima di scriverlo assomigliano esattamente a quando ci svegliamo la mattina e iniziamo a rincorrere i flashback di un sogno. Ho veramente delle scene, come se avessi fatto un sogno che non ricordo esattamente però, più cerco di addentrarmi in queste immagini più inizio a vedere chiara la storia. I particolari sono diversi: può essere la scena di un omicidio, può essere una frase, un ambiente, un’emozione… Inizio a lavorare su questo senza però forzare troppo le cose. Io, molto spesso, quando scrivo un romanzo non ho la sinossi, perché mi sono reso conto che la sinossi, se può aiutare nelle prime pagine, quando ti trovi al centro del romanzo diventa un ostacolo; perché, alla fine, i personaggi e le ambientazioni mi spingeranno sempre a fare qualcosa che non avevo previsto e io non voglio rinunciare a questa cosa che è naturale. Non dobbiamo forzare le cose perché ogni racconto nasce spontaneo nel nostro cervello: se le forzassimo, prenderemmo la strada sbagliata.

UN’ALTRA DOMANDA DAL PUBBLICO: pensi che i tuoi libri, così accattivanti e accessibili, potrebbero funzionare anche come libri propedeutici alla lettura di testi più poderosi e difficili come “Il nome della rosa” o “Il pendolo di Foucault”?

M. S. : Assolutamente sì, perché la lettura di certi libri porta inevitabilmente a leggerne e a conoscerne altri; così, insieme al lettore cresce anche il livello di difficoltà delle letture. È tutta una questione di allenamento: i romanzi sono strumenti che spingono le persone a pensare e, mai come oggi, c’è bisogno di imparare, anzi, di re-imparare a pensare.