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LA BELLEZZA

martedì 30 aprile 2019

INVITO A UNA DECAPITAZIONE, V. Nabokov, Adelphi.


In un mondo in cui tutti sono traslucidi ed evanescenti, Cincinnatus C. è opaco.
“Io non sono uno qualunque – io sono l’unico vivo tra voi…” P. 58
 A causa di questa sua caratteristica viene condannato a morte per decapitazione e rinchiuso in una fortezza in cui sembra essere l’unico prigioniero. La data dell’esecuzione gli è ignota e la mancanza di questa informazione produce – sia nel protagonista sia nel lettore – un’angoscia quasi tangibile. Nabokov gioca al teatro dell’assurdo con grande maestria, sfidando implicitamente il lettore a distinguere la realtà dalla finzione, all’interno del racconto stesso.  Il surrealismo che cade nell’assurdo può ricordare i quadri di Dalì, di Magritte e, addirittura, quelli di De Chirico.
“Nel frattempo continuavano ad arrivare mobili, utensili domestici, perfino singoli pezzi di parete. C’era un armadio con relativo specchio dotato di un proprio personale riflesso (vale a dire: l’angolo di una camera da letto matrimoniale con una striscia di sole sul pavimento, un guanto caduto a terra e, più lontano, una porta aperta)”. P. 102
 È un espediente letterario davvero ben congegnato per trattare temi di importanza cruciale nella vita di tutti noi. Il tema del “doppio” è la colonna portante di tutto il romanzo perché, prendendo in esame il personaggio di Cincinnatus, l’autore ha modo di svelare la doppia natura insita in ogni essere umano. Altri temi fondamentali sono sicuramente quello della morte, quelli dello spazio e del tempo, nonché quello della contrapposizione tra singolo individuo e collettività e quello della libertà personale.
“Quando ero un bambino […] altri bambini venivano preparati insieme a me alla sicura non-esistenza dei manichini adulti in cui tutti i miei coetanei si sono trasformati senza sforzo o sofferenza; […] io sapevo senza sapere, sapevo senza stupore, sapevo come uno sa di se stesso, sapevo quello che è impossibile sapere – e, credo, lo sapevo più chiaramente  di quanto non lo sappia oggi. Perché la vita mi ha logorato: il perenne disagio, la dissimulazione di ciò che sapevo, la finzione, la paura, una dolorosa tensione di tutti i nervi - non lasciarsi andare, non emettere risonanze… e ancora oggi sento dolere quella parte della memoria in cui è rimasto impresso il momento iniziale di tale sforzo, vale a dire la prima volta in cui ho capito che le cose che mi erano sembrate naturali in realtà erano proibite, impossibili, e che il solo pensarle era un atto criminoso”. P. 98-99
È un romanzo onirico, “Invito a una decapitazione”, in quanto ci parla di una realtà talmente assurda e grottesca da sembrare un incubo ad occhi aperti.

“Sono circondato da una sorta di squallidi spettri, non da persone. Mi tormentano come possono farlo solo visioni insensate, brutti sogni, sedimenti di delirio, assurdità da incubo e tutto quello che qui passa per vita vera. In teoria uno avrebbe voglia di svegliarsi. Ma svegliarsi per me è impossibile senza un aiuto dall’esterno, e io ho un terrore atroce di questo aiuto, la mia stessa anima si è impigrita, si è assuefatta alle sue strette fasce”. P. 42
 A questo proposito è necessario sottolineare che Cincinnatus è condannato a morte non tanto per qualcosa che ha fatto, quanto per ciò che è! È opaco, ma – paradossalmente – quell’opacità sembra conferirgli l’esistenza, sembra donargli consistenza.
“Tratteremo ora della preziosa qualità di Cincinnatus; la sua incompiutezza carnale; il fatto che gran parte di lui si trovava in tutt’altro luogo, mentre solo una porzione insignificante del suo essere vagava lì, perplessa – un povero, confuso Cincinnatus, un Cincinnatus relativamente stupido, fiducioso, debole e sciocco come si è nel sonno. Ma anche durante quel sonno – nonostante quel sonno – la sua vita autentica era fin troppo visibile”. P. 121
 Cincinnatus è diverso, si distingue da tutti gli altri: ha in sé due nature in lotta tra loro e incarna, pertanto, l’individuo che vorrebbe soltanto essere lasciato libero di esprimere se stesso e la propria personalità; imprigionato in una fortezza all’apparenza inespugnabile, costruita in modo tale che – ovunque  decida di andare e qualunque direzione possa prendere – tornerebbe inevitabilmente alla propria cella: l’autore ha così creato una perfetta metafora delle gabbie mentali e delle costrizioni cui siamo sottoposti da una società che ci vuole tutti uguali e obbedienti. In quanto costruzione mentale, la fortezza  è solida fintanto che lo sono le pressioni e i condizionamenti da cui si è soliti lasciarsi soggiogare. Nel mondo di Cincinnatus tutto potrebbe sgretolarsi e dissolversi in un istante soltanto se lui lo volesse davvero, ma il punto è proprio questo: il protagonista avrà il coraggio di guardare in faccia la realtà e di far svanire le scenografie?
Cincinnatus rappresenta l’uomo con le sue paure più grandi: la principale è, sicuramente, la paura della morte. Come tutti, non conosce il giorno esatto in cui cesserà di vivere e, inizialmente, nutre la speranza che qualcuno lo salvi dall’esecuzione; spera di poter evadere, ma – nello stesso tempo – non ha le forze per tentare la fuga. Esistono, d’altronde, svariate tipologie di comportamenti di fronte alla certezza della morte: ci si può abbandonare ad uno stato di ansia e angoscia, si può coltivare la speranza di essere graziati da qualcuno o da qualcosa, ci si può rassegnare, accettando apaticamente l’inevitabile, si può lottare per essere artefici della propria salvezza, si può sfruttare proficuamente il tempo che rimane, oppure è possibile addirittura arrivare a tradirsi, a rinnegare se stessi, in vista di chissà quale futuro. Cincinnatus, dal canto suo, resosi conto che nessuno lo salverà e che ha a disposizione un tempo estremamente limitato per lasciare una traccia del suo passaggio su questa Terra, decide (dopo aver sprecato gran parte dei giorni trascorsi in carcere) di sfruttare quel poco che gli rimane da vivere scrivendo quei pensieri che gli attanagliano la mente. Perché, in fondo, la paura della morte ci prende quando sentiamo di non avere tempo a sufficienza per realizzare i nostri desideri e quando pensiamo che forse non abbiamo fatto abbastanza per essere ricordati da coloro che resteranno.
“L’orribile ‘qui’, l’oscura segreta in cui è incarcerato un cuore che ulula senza posa, questo ‘qui’ mi trattiene e mi limita. […] Esiste, il mio mondo di sogni, deve esistere, perché certo dev’esserci un originale di questa copia malriuscita. […] È da una simile sensazione che trae origine il mio mondo: […] e la mia anima si espande così liberamente nel suo regno natio. […] il tempo si modella a piacimento”. P. 96-97
D’altra parte, se la vita in prigione non può essere considerata una vera vita, neanche il fatto di nascondere continuamente il proprio “Io” può esserla. Egualizzarsi agli altri, omologarsi agli standard, fingere di essere ciò che non si è fino ad  annullarsi completamente non rappresenta uno stile di vita dignitoso… Così come ne “La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj il protagonista Ivan si libera della paura della morte nel momento esatto in cui capisce che tutta la sua vita è stata una farsa, una messinscena, anche a Cincinnatus basterebbe “aprire gli occhi” e l’incubo svanirebbe. Lo farà?
Direttamente collegato al tema della morte c’è quello del tempo.
«Quando esce,» disse Cincinnatus «osservi l’orologio in corridoio. Il quadrante non ha i numeri; eppure la guardia va e viene ogni ora per lavare via la lancetta vecchia e spennellarne malamente una nuova – ed ecco come viviamo, in base a un tempo dipinto col catrame, e i rintocchi sono opera del guardiano, che infatti è colui che lo “guarda”, il tempo»”. P. 135
 Il tempo che si percepisce durante una qualsiasi forma di prigionia (che sia mentale o fisica, poco importa) è molto diverso dal tempo che si percepisce in libertà. Così come la fortezza è uno spazio distorto, anche il tempo all’interno è soggetto a distorsione. Ogni cosa – nel libro - è come la si percepisce, pertanto basterebbe cambiare lo sguardo sulle cose e le cose stesse cambierebbero… Una cosa simile accade anche con il tempo: il tempo scorre, è vero, il giorno e la notte si inseguono incessantemente ma a volte capita di avere la sensazione che scorra via troppo in fretta, altre volte – invece – ci sembra che vada al rallentatore.
“Sono dispostissimo ad ammettere la loro natura illusoria, ma in questo momento credo talmente alla loro esistenza da contagiarli con il virus della verità”. P. 139
“C’era il piccolo, noioso compagno di prigionia […] e gli altri, i non meglio precisati guardiani e soldati e nell’evocarli – forse senza neppure credere alla loro esistenza, ma ciò nonostante evocandoli – Cincinnatus dava loro il diritto di esistere, li convalidava, li alimentava con tutto se stesso”. P. 156
A donare un effetto più marcatamente onirico e surreale sono anche le figure retoriche che Nabokov utilizza nella narrazione: sineddoche, ossimori, metafore, similitudini e soprattutto sinestesie. Si dice, infatti, che lo stesso Nabokov fosse sinestesico.
“Immagino che il dolore della separazione finale sarà rosso e chiassoso”. P. 193
Compaiono, inoltre, riferimenti all’entomologia (grande passione di Nabokov). Le descrizioni sono – nello stesso tempo – nitide e sfumate, tanto che dalle parole dell’autore traspare una sensibilità quasi struggente.
Molte altre cose dovrebbero esser dette su “Invito a una decapitazione”, ma mi fermerò qui per non togliervi il piacere della lettura e – soprattutto – la possibilità di scoprire nuove chiavi di interpretazione.
Ostico, all’apparenza, ma estremamente scorrevole in realtà. La suspense (o tensione emotiva) che l’autore ha saputo creare sono funzionali allo scopo di tenere viva l’attenzione del lettore dall’inizio alla fine.
Testo di riferimento: “Invito a una decapitazione” di Vladimir Nabokov, Edizioni Adelphi.