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LA BELLEZZA

sabato 19 settembre 2020

LA BELLEZZA

 


Mentre lavoravo al mio ultimo saggio (“NUOVI MONDI”, qui sul blog), mi sono resa conto che sulla bellezza c’erano tantissime cose da dire, troppe, e – proprio per questo – ho deciso di scrivere un articolo a parte, così ecco qua un’appendice del suddetto tema. Buona lettura!

SULLA BELLEZZA PERFETTA

“Devo assolutamente rivederla; voglio vederla, e non per amarla, no, guardarla, guardarla tutta, guardare i suoi occhi, le su mani, le sue dite, i suoi splendenti capelli. Non già baciarla, vorrei soltanto contemplarla. E che? Così dev’essere, così è scritto nelle leggi della natura; ella non ha il diritto di tener nascosta e d’involarci la sua bellezza. La bellezza perfetta è concessa al mondo al solo scopo che ciascuno possa vederla e ne conservi nel proprio cuore eternamente l’idea. Se ella fosse soltanto bella, e non una tale sublime perfezione, avrebbe allora diritto d’appartenere ad un solo, e quegli potrebbe trarsela nel deserto, nasconderla agli occhi del mondo. Ma la bellezza perfetta deve invece restare a tutti visibile. Forseché il buon architetto edifica un tempio fastoso in un’angusta viuzza? Per contro egli lo leva su un’aperta piazza perché d’ogni parte ciascuno possa vederlo e ammirarlo. Forseché s’accende una lampada, ha detto il Divino Maestro, per nasconderla e metterla sotto la tavola? No, la lampada s’accende perché stia sulla tavola, perché tutti possano vederci e muoversi alla sua luce. No, devo assolutamente rivederla!”[1]

La bellezza, non una bellezza qualunque, ma la bellezza perfetta crea dipendenza e inviterei chiunque intendesse – giustamente – obiettare che la perfezione non esiste a sostituire la parola “perfetta” con la parola “divina”. Questo non significa affermare che le due parole si equivalgano, bensì che non esistono perfezione e imperfezione ma caratteristiche umane e qualità divine, perciò innanzitutto c’è da operare una distinzione tra la bellezza come qualità terrena e la bellezza come qualità divina. Per cominciare dirò che la prima non è altro che una reminiscenza della seconda. La reminiscenza è il raggiungimento di un’idea, ovvero l’unità ottenuta con il ragionamento fatto a partire dalla molteplicità delle sensazioni provate in determinate circostanze. È il ricordare o – meglio – il desiderare, cioè l’aspirare a rivedere “ciò che la nostra anima vide una volta, quando era al seguito di un dio e, guardando dall’alto gli enti a cui noi sulla terra attribuiamo l’esistenza, si ergeva verso ciò che esiste veramente. […] L’uomo che impiega correttamente tali reminiscenze, sempre iniziato a perfette iniziazioni, è il solo che diventa veramente perfetto. Ma poiché si estrania dalle preoccupazioni umane e si accosta al divino, i più lo rimproverano di essere fuori di sé, non accorgendosi che invece è ispirato da un dio. […] qualcuno, vedendo la bellezza di quaggiù e ricordandosi di quella vera, mette le ali e così alato arde dal desiderio di levarsi in volo, ma non riuscendovi, guarda verso l’alto come un uccello senza curarsi di quanto avviene quaggiù, e guadagnandosi in tal modo l’accusa di essere pazzo. Ebbene, […] fra tutte le forme di entusiasmo, questa è la migliore e ha le migliori origini, sia per colui che  ne è preda, sia per colui al quale si comunica; […] chi ama i belli, […] viene chiamato innamorato. […] ogni anima umana, per sua natura, ha contemplato i veri esseri, altrimenti non avrebbe assunto questa forma. Ma ricordarsi di quegli esseri partendo dalla realtà terrena non è facile per nessuna delle anime, né per quante allora videro brevemente ciò che stava lassù, né per quante, cadute qui, furono così sfortunate da farsi indurre all’ingiustizia da qualche cattiva compagnia e da dimenticarsi in tal modo delle sacre visioni contemplate un tempo. Restano dunque poche anime che ne conservino un sufficiente ricordo; queste, secondo scorgono qualcosa che assomiglia a ciò che stava lassù, ne restano colpite e non sono più padrone di se stesse. Ma non capiscono ciò che provano, perché non ne hanno una chiara percezione.

Ora, della giustizia, della temperanza e di tutte  le altre virtù che sono preziose per le anime non c’è nessuna luce nelle rassomiglianze terrene, ma in pochi e a stento, avvicinandosi alle immagini di quelle virtù mediante organi imperfetti, riescono a contemplare il genere di ciò che vi è stato rappresentato. La bellezza invece era splendida a vedersi a quel tempo, quando un coro felice (noi seguendo Zeus, altri seguendo chi un dio chi un altro dio), si contemplava il beato spettacolo che essa offriva alla vista e si era iniziati a quella che è lecito chiamare la più beata delle iniziazioni, che noi celebravamo in condizione di assoluta perfezione e immuni da tutti quei mali che ci attendevano successivamente. Perfette, semplici, immutabili e beate erano le visioni a cui eravamo iniziati e che contemplavamo in una luce pura, anche noi puri e senza questo sepolcro che ora portiamo in giro chiamandolo corpo, legati ad esso come ostriche.

Di tutto ciò bisogna dunque ringraziare la memoria, a causa della quale, per rimpianto delle visioni di quei tempi, ci siamo ora dilungati eccessivamente. La bellezza, come dicevamo, risplendeva fra di esse e noi, una volta giunti qui, l’abbiamo colta per mezzo del più chiaro dei nostri sensi poiché essa risplende con la massima chiarezza. La vista infatti, è il più acuto dei sensi che giungono a noi attraverso il corpo, ma non ci consente di vedere la sapienza: essa infatti susciterebbe incredibili amori se offrisse un’immagine altrettanto chiara di sé presentandosi alla vista, e lo stesso vale per tutte le altre realtà degne d’amore. Invece solo la bellezza ha avuto questa sorte, di essere evidentissima e amabilissima.

[…] chi è stato iniziato recentemente e chi ha a lungo contemplato le visioni passate, quando vede un volto di aspetto divino, che imita bene la bellezza, o un corpo, per prima cosa ha un fremito e qualcuno dei timori passati si insinua in lui. Quindi, lo guarda e lo onora come un dio e, se non temesse di apparire completamente folle, offrirebbe sacrifici all’amato come a una statua sacra o a un dio. Poi, come è naturale che avvenga dopo il fremito, alla vista di quello, un cambiamento, un sudore e un calore insolito si impadroniscono di lui. Egli infatti, avendo ricevuto l’effluvio della bellezza attraverso gli occhi , si riscalda e così l’ala viene irrorata. Per effetto di questo calore, si sciolgono le parti circostanti al germoglio che, indurite e chiuse da tempo, gli impedivano di crescere. Una volta che l’alimento ha preso ad affluire, la nervatura dell’ala si inturgidisce e comincia a spuntare dalla radice, sotto tutta la superficie dell’anima, che infatti un tempo era tutta alata”.[2]

In questo consiste l’innamoramento o – quantomeno – una parte di esso. L’innamoramento, infatti, è una passione necessaria alla nostra crescita spirituale e passa proprio attraverso la contemplazione della bellezza. Questa passione è, pertanto, un tormento ma anche il balsamo per lenirlo.

“Questa passione, […] gli uomini la chiamano eros, ma quando sentirai come la chiamano gli dei, probabilmente riderai a causa della stranezza del suo nome. […]

 «I mortali lo chiamano Eros alato,

gli immortali invece Pteros, perché costringe a mettere le ali»”[3]

La bellezza, dunque, fa mettere le ali e anelare ad essa, perciò anelare ad essa significa provare un forte sentimento di nostalgia nei confronti di un tempo in cui avevamo le ali e stavamo con gli dei. Il ricordo è il desiderio e il desiderio è ricordo e non può esserci ascesa/crescita senza questa magnifica – e, allo stesso tempo, tormentosa – sensazione che è appunto il desiderio. La bellezza, però, non è l’unica qualità divina di cui l’anima ha nostalgia. Nel “Fedro”, infatti, si parla di altre virtù che, molto probabilmente, vi suoneranno familiari in quanto sono le stesse presenti nell’Albero della Vita.

“Le anime chiamate immortali, una volta giunte sulla sommità e uscite all’esterno, si fermano ritte sulla volta del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù né canterà mai degnamente la regione sovraceleste. È così, perché bisogna avere il coraggio di dire la verità, specialmente quando si parla di verità. Infatti, la realtà vera, che non ha colore né forma e non si può toccare, che può essere contemplata. Soltanto dal nocchiero dell’anima, cioè l’intelletto, e su cui verte la vera scienza, occupa questa regione. Dunque la mente divina, dal momento che, come quella di ogni anima che stia per accogliere ciò che le conviene, si nutre di intelligenza e di scienza pura, gioisce quando dopo un certo tempo vede l’essere, e trae nutrimento e beneficio dalla contemplazione della verità, fino a che il movimento circolare non l’abbia riportata al punto di partenza. Durante la rotazione essa contempla la giustizia in sé contempla la saggezza, contempla la scienza, ma non quella soggetta al divenire e neppure quella che muta a seconda che si occupi dell’uno o dell’altro dei cosiddetti esseri, bensì quella che è la vera scienza del vero essere. E allo stesso modo dopo aver contemplato gli altri veri esseri fino a saziarsene, si tuffa di nuovo nel cielo e ritorna alla sua dimora. Una volta che essa vi abbia fatto ritorno, l’auriga, posti i cavalli davanti alla mangiatoia, getta loro l’ambrosia e, dopo questa, dà loro da bere il nettare. Questa è la vita degli dèi.

Quanto alle altre anime, quella che segue il dio nel modo migliore e gli rassomiglia, fa alzare la testa dell’auriga verso la regione che si trova all’esterno del cielo e viene trasportata nel moto circolare, ma essendo disturbata dai cavalli riesce a stento a contemplare i veri esseri. Un’altra anima invece, ora si solleva ora si immerge e, sopraffatta dai cavalli, vede alcuni esseri, ma non ne vede altri. Fanno seguito le altre anime, tutte desiderose di innalzarsi, ma incapaci di farlo: calpestandosi e colpendosi a vicenda, ciascuna nel tentativo di precedere le altre, esse vengono sommerse e travolte. Ne derivano tumulto, lotta, estremo sudore ed è proprio in queste circostanze che, per l’incapacità degli aurighi, molte anime si azzoppano, molte si spezzano le ali; tutte poi, molto affaticate, se ne vanno senza essere state iniziate alla visione dell’essere e, una volta che si sono allontanate, si pascono di opinioni. La ragione per cui esse si sforzano tanto per vedere dove si trova la pianura della verità, è che il pascolo che si addice alla parte migliore dell’anima proviene dal prato che è situato là, e che l’ala, grazie alla quale l’anima può sollevarsi, si nutre di esso”.[4]

Tutto questo accade in quanto l’anima è – secondo quanto descritto nel “Fedro” – “simile alla potenza congiunta di una biga alata e di un auriga”.[5] I due cavalli che trainano la biga sono l’uno l’opposto dell’altro e tendono – come è logico supporre – in direzioni diverse. L’uno è più mansueto e ha propositi buoni mentre l’altro ha la tendenza a seguire istinti e impulsi sfrenati. L’auriga è l’equivalente della ragione della razionalità. E, a questo proposito, una domanda: CHE COS’HANNO IN COMUNE PLATONE, IL KATHA UPANISHAD E SIGMUND FREUD?

Risposta: LA STRUTTURA (TRIPARTITA) DELL’ANIMA/PSICHE E LA METAFORA USATA PER DESCRIVERLA.

Per Platone l’Anima/Psiche è una biga con un cavallo bianco (la parte più arrendevole e condiscendente), un cavallo nero (più impulsivo e irascibile) e un auriga, ovvero la ragione. Per il Katha Upanishad (una delle Sacre Scritture dell’Induismo, originarie del periodo compreso all’incirca tra l’800 e il 300 a. C.) c’è un carro (il corpo) il cui padrone è il Sé; l’Intelletto è l’auriga, le redini sono la Mente, i cavalli sono i Sensi, mentre gli Oggetti dei Sensi sono l’arena. In questo Testo Sacro i saggi chiamano “colui che prova piacere” l’insieme di Sé, di Sensi e di Mente. Per Freud l’Io non fa che rassomigliare incredibilmente all’auriga conducente il cocchio e rappresentante la razionalità umana; il cavallo nero, ovvero le pulsioni sfrenate, sono l’Es; il cavallo bianco – invece – più mansueto e fedele a educazione e disciplina, è il Super-Io. Se vogliamo, possiamo applicare questa metafora anche alla Psicologia contemporanea, in cui l’Io sarebbe l’auriga, il cocchio rappresenterebbe il Sé, il cavallo nero il Super-Io, il bianco l’Es e un terzo cavallo sarebbe la realtà esterna.

Comunque la si veda, l’obiettivo consiste nell’arrivare a riconoscere tutte le parti dell’Io (ovvero tutte le componenti della Personalità di ognuno di noi) per integrarle in maniera equilibrata e armoniosa in quello stesso Io.[6] In tutto ciò, però, non possiamo trascurare il corpo, ovvero la “meccanica” della Psiche, “specchio” fondamentale per rendere visibile ciò che non lo è… Mi piace pensare che il corpo sia l’equivalente dell’hardware per la Psiche che, seguendo questo ragionamento, sarebbe l’equivalente del software. Imprescindibili entrambi.

Ma torniamo alla bellezza.

Avrete sicuramente notato che ho sottolineato alcune parole all’interno dei testi citati; bene, di cosa significhino “reminiscenza” e “desiderio” vi ho già parlato (nel mio saggio intitolato “NUOVI MONDI” troverete più ampi approfondimenti, in merito), perciò passerei alla parola “iniziazione”. Nella parola stessa è contenuto il suo significato e le sue più accreditate interpretazioni. “Iniziazione” contiene, infatti, la parola “inizio”, ma “inizio” può voler dire sia “tornare all’inizio” (di qualcosa che si presuppone sia già accaduto) sia “dare il via” a un’esperienza nuova, sia entrare a far parte di un ambiente esclusivo e speciale. In questo caso, direi che si tratta di unire le tre interpretazioni. Avere la possibilità di contemplare la bellezza e lasciarsene trasportare significa seguire un impulso erotico molto potente in grado di condurre a un più alto livello di coscienza: la Pianura della Verità. Per coloro che guardassero la scena dall’esterno sembrerebbe che chi è stato rapito dall’eros sia fuori di sé, ma questa espressione – “fuori di sé” – non vuol dire essere pazzi, bensì “fuori” dalla propria condizione umana, limitata e limitante. Il corpo, cartina al tornasole di ciò che proviamo, è essenziale – come ho già detto poco fa – ma è comunque importante ricordare che esso è soltanto un mezzo per ricondurci a quello stato di estasi dovuta al fatto di aver potuto “luogo” da cui veniamo. La “vera” bellezza, infatti, è la qualità che avevamo quando non eravamo ancora nati, non ci eravamo ancora incarnati (non avevamo ancora assunto sembianze umane) ed eravamo anime pure. Se preferite un approccio più psicologico potete vederla così: la bellezza è in grado di con una parte di noi più “raffinata”, una parte della Psiche che raramente decidiamo di esplorare. È come staccarsi da un sé un po’ tonto, magari anche un tantino ottuso, e vedere al di là di esso. È una sensazione vertiginosa, certo, e anche Bastiano (il protagonista de “La Storia Infinita” di Michael Ende, libro di cui ho parlato diffusamente in questi anni) la prova nel vedere il riflesso del vero se stesso negli occhi dell’Infanta Imperatrice:

“E ora, nello specchio d’oro delle sue pupille, dapprima ancora piccina, come a una grande lontananza, poi via via più vicina, vide una figura che ingrandiva e si avvicinava, facendosi sempre più chiara. Era un ragazzo, press’ a poco della sua stessa età, ma snello e di straordinaria bellezza. […]

Incantato e pieno di ammirazione, Bastiano fissava l’immagine. Non poteva saziarsi di guardarla. Voleva giusto chiedere chi fosse quel bellissimo figlio di re quando, come il bagliore di un lampo, lo trapassò la consapevolezza di essere lui.

Quella era la sua immagine riflessa negli occhi d’oro di Fiordiluna.

Ciò che avvenne in quel momento in lui è assai difficile da descrivere a parole. Fu un rapimento, un’estasi che lo trasportò fuori da se stesso, portandolo lontano, come se avesse perso conoscenza, e quando ebbe fine ed egli fu tornato in sé si ritrovò esattamente quel bellissimo fanciullo di cui aveva visto l’immagine”.[7]

Non credo che l’espressione “si ritrovò” sia casuale, come non credo che lo fosse usata da Dante Alighieri ne “La Divina Commedia”. “Ritrovarsi” indica non soltanto lo “stare”, ma anche e soprattutto che avevamo perso la parte più importante di noi, il nostro vero Io, e lo abbiamo ritrovato! E l’aspetto fisico, in questo caso, conta fino a un certo punto, perché ciò che conta maggiormente è l’aspetto interiore, la cosiddetta “bellezza interiore”. È un vero peccato che certe qualità/virtù siano invisibili agli occhi: la Sapienza, ad esempio, non può essere vista con gli occhi, così come non possono essere visti il senso di Giustizia o l’Intelligenza, ma contemplando cose divine o di divina bellezza possiamo in esse rispecchiarci e, di conseguenza, ritrovarci.

Per rimanere in tema, vorrei ricordare che il vocabolario associa il concetto di bellezza a quello di bontà, ed è presto spiegato il perché: il fatto che un corpo sia bello non implica necessariamente che lo sia anche il suo proprietario – inteso come “persona” nella sua interezza – ma è pur vero che definiamo “bella” una persona quando  è anche buona (gentile, generosa, onesta, ecc.). In questo si differenziano la bellezza umana e quella divina o, se preferite un approccio più laico, la bellezza fisica e quella psichica.

C’è un concetto molto interessante nel Libro X delle “Metamorfosi” di Ovidio, il quale – parlando di Adone – afferma: “[…] or ora era un bellissimo fanciullo, ecco è già un giovane, già un uomo, già supera se stesso in bellezza […]”.[8] Come si può superare se stessi in bellezza? Crescendo, ecco come. E tale crescita consiste principalmente in due correnti di pensiero che si incontrano e si intersecano tra loro. La prima: poiché, come ho detto, la bellezza porta con sé un significato più ampio, al suo crescere potrebbero crescere/svilupparsi anche altre qualità. La seconda: la bellezza non è tutta uguale (e – di certo – non è mai uguale a se stessa); c’è bellezza e bellezza. La bellezza di un fanciullo puro e innocente non è la stessa (e non suscita le stesse sensazioni) di quella di un giovane o di quella di un uomo. In questo senso, la bellezza esteriore assume un valore differente a seconda dell’età (e quindi dello stadio di crescita) dell’individuo in questione. Inoltre, come dicevo, la bellezza può far provare tenerezza e, a proposito di “tenera bellezza”:

“Essa nella nostra mente va solo unita all’innocenza e alla purezza”.[9]

Ma può far provare anche ammirazione, gioia, desiderio, estasi, passione, amore o – addirittura – invidia. E, proprio l’invidia, mi porta al punto successivo. “La bellezza” - è scritto – “è un’arma a doppio taglio, un dono e una maledizione al tempo stesso. Grazia e bellezza ti apriranno le porte del cuore di chi ami, ma accenderanno anche d’invidia e rancore quello di coloro che vorranno sottomettere la tua volontà alla loro. Ti attende un lungo sentiero di piaceri, ma forse anche di pericolo e violenza”.[10] Ma l’invidia non è l’unico sentimento che può oltraggiare la bellezza: la gelosia (intesa come timore di vedersi sottrarre la propria o l’altrui bellezza) è un altro. Poi c’è la cattiveria a cui la gelosia e l’invidia possono condurre… È un tipo di cattiveria, questa, dettata dalla rabbia, sentimento (o, meglio, emozione) assai abusato, purtroppo.

 

 

LA BELLEZZA E L’AMORE

Si narra che Pigmalione avesse scolpito una statua con fattezze femminili talmente bella che lui stesso se ne innamorò e pregò la Dea Venere di trasformarla in una  cosicché potessero giacere insieme.

“A lungo rimase senza una compagna che dividesse il suo letto. Ma un giorno, felice e meravigliosa, si mise a scolpire dell’avorio bianco come neve e gli dette forma di donna, così bella, che nessuna può nascere più bella. E concepì amore per la sua opera”.[11]

In realtà qui, più che di amore, si tratta di ossessione. Sì, perché l’amore a volte è anche questo. E innamorarsi fa fare cose che, agli occhi di chi non prova sensazioni tanto forti come quelle causate appunto dall’innamoramento possono apparire sciocche, folli o quantomeno fuori dagli schemi. È il caso di Pigmalione che, ossessionato dal desiderio di possedere la statua, riserva a quest’ultima lo stesso trattamento che si riserva all’oggetto del desiderio carnale. La stessa Venere arriva a modificare il proprio comportamento al crescere di Adone, suo protetto.

“Incantata dalla bellezza di Adone, non le importa più niente delle spiagge di Citèra, non visita più Pafo cinta dal profondo mare, né Cnido pescosa né Amatunte gravida di metalli. Neppure sta più in cielo: al cielo preferisce Adone. Non si stacca da lui, non va che con lui, e lei che è sempre stata avvezza a starsene comodamente all’ombra, a curare la propria bellezza e accrescerla ancora, ora gira per colli, per selve, tra rocce e cespugli spinosi, con la veste tirata su sopra il ginocchio alla maniera di Diana […]”.[12]

Insomma, la bellezza può elevare l’anima oppure farla impazzire. Mi soffermerò ancora un momento su questo punto, perché è importante analizzare in quale modo l’innamoramento – conseguenza della bellezza – può portare ad una crescita. In realtà è molto facile intuirlo: quando ci innamoriamo coltiviamo il desiderio di far colpo sulla persona amata e tendiamo ad ampliare il nostro raggio di interessi, cerchiamo di affinare i nostri talenti e impariamo a vedere il mondo con altri occhi, includendo nel nostro orizzonte anche il punto di vista dell’amato. Raddoppiamo, anzi, moltiplichiamo l’osservazione, l’azione e il prenderci cura in quanto non dobbiamo pensare solo a noi stessi, ma anche a un’altra persona.

Sento continuamente ripetere che la bellezza salverà il mondo ed è evidente che essa ha la potenza  e le potenzialità per farlo, ma ritengo che l’essere umano abbia ancora molto su cui lavorare per far sì che il desiderio prevalga sull’ossessione e la contemplazione abbia la meglio sulla brama di possesso. L’Eros può aiutare molto. Naturalmente parlo dell’Eros come desiderio di conoscenza, come spinta al miglioramento e come propulsione della curiosità con fini di scoperta e meraviglia. Quando vediamo qualcosa di bello, infatti, proviamo spesso una specie di paura e distogliamo lo sguardo: la bellezza può intimorire, è vero:

“Durante la sua Grande Ricerca Atreiu aveva ormai fatto parecchie esperienze, aveva visto cose meravigliose e orribili, ma fino a quel momento non sapeva che entrambe queste cose, la bellezza suprema e l’orrore, potessero raccogliersi in una cosa sola e cioè che la bellezza potesse essere orribile”.[13]

Ma è fondamentale non lasciarsene perturbare, bensì lasciarsi andare alla contemplazione e all’osservazione. Il piacere che ne deriverà sarà grande al punto che ne risulterà – come ovvia conseguenza – un cambiamento interiore imponente: la bellezza – in fondo – fa mettere le ali, ricordate?

I CANONI DELLA BELLEZZA

Nel corso dei secoli i popoli hanno spesso cambiato i loro canoni di bellezza mutando i parametri di valutazione sui quali basarsi. Altrettanto spesso il raggiungimento di tali standard estetici ha implicato sofferenze, dolore fisico e psicologico e frustrazioni profonde. Busti e corsetti talmente stretti da danneggiare gli organi interni e da compromettere la respirazione, interventi chirurgici inutili e persino dannosi che implicavano la rimozione di costole per assottigliare la vita, fasciature dei piedi che causavano deformità permanenti e difficoltà a camminare, cosmetici tossici, iniezioni di botulino, protesi di silicone per portare il seno a taglie discutibili, e chi più ne ha più ne metta. Un tempo le rotondità non erano considerate un problema, ma poi – col passare degli anni – le Barbie e i Ken sono diventati i modelli a cui fin troppi han tentato di assomigliare. Ci son voluti molti anni perché le taglie 38 perdessero il loro “magnetismo estetico” e fossero soppiantate da un ritorno di fiamma per i corpi “curvy”, il mito delle labbra “a canotto” ha spopolato parecchio prima di essere deriso e abbandonato, la moda degli zigomi sporgenti e dei glutei rifatti ha tenuto duro per un bel po’ prima di cominciare a perdere colpi. Avere un corpo tonico e sodo, possibilmente con muscolatura addominale “a tartaruga”, sta – però – resistendo e lo farà fino al prossimo cambio di canoni estetici. Quel che è chiaro è che la bellezza è vittima degli stereotipi e non può prescindere dalle mode. Queste ultime cambiano al cambiare dei canoni estetici, ma è anche vero il contrario, cioè che i canoni stessi mutano al mutare delle mode. Viene da domandarsi se tali canoni siano imposti oppure facoltativi. Per rispondere a questa domanda è necessario procedere per gradi. Innanzitutto bisogna analizzare che cosa rappresenta – oggi – la bellezza, qual è il suo significato e a cosa è collegato il concetto stesso di bellezza. Non c’è dubbio che le parole associate a questa qualità siano “salute”, “giovinezza” e “prestanza”. La pubblicità gioca un ruolo fondamentale nella diffusione di slogan che hanno a che fare con la cura di sé, l’autostima e i diritti, ma la sottotraccia è un’altra, il messaggio subliminale è l’obbligo, anzi, il dovere di non invecchiare, il divieto assoluto di essere diversi, unici, imperfetti o – perfino – perfetti nelle e con le proprie imperfezioni. La pena, nel caso in cui qualcuno decidesse di non sottostare a queste/i imposizioni/divieti, è l’emarginazione, l’esclusione dal gruppo o – addirittura – dalla società stessa. Una forma di limitazione della libertà personale perpetrata attraverso messaggi che solo apparentemente dicono di volere il nostro bene. Non giustifico né condanno e neanche mi lavo le mani di fronte a un tale andamento della Storia. Ciò che, invece, intendo fare è far aprire gli occhi a una terza opzione: seguire i propri sensi. Ognuno di noi, infatti, troverà alcune cose molto belle, altre cose meno. Quel che voglio dire è che bisognerebbe imparare a discernere i gusti personali da quelli dettati dalla società. So che è dura non lasciarsi influenzare, ma proviamo almeno ad ascoltarci un po’ di più e forse, prima o poi, saremo anche in grado di scorgere la bellezza dove non pensavamo dimorasse…

DOVE SI TROVA LA BELLEZZA

Davvero la bellezza sta negli occhi di chi guarda? In linea di massima, sì, ma c’è un “ma”. Se è vero che la bellezza è soggettiva (cioè dipende dal punto di vista e dai gusti dell’osservatore) è vero anche che questo implica l’esistenza di una bellezza oggettiva. Oggettivo e soggettivo sono come assoluto e relativo: ogni cosa al mondo esiste perché esiste il suo contrario e l’oggettivo sembra proprio essere il contrario del soggettivo, così come l’assoluto lo è del relativo. Un esempio: io ho una gran paura dei ragni, ma questo non mi impedisce di riconoscere il fascino che hanno; il loro talento nel costruire tele complesse, la loro agilità di movimento, le loro tecniche di combattimento… Non mi piacciono, è vero, ma ammetto che sono dotati di una sorta di bellezza intrinseca. Ammiro la bellezza che la Vita in sé custodisce, insomma. E m’incanto a osservare una farfalla che svolazza tra i fiori, un’ape che sugge il nettare, un gatto che fa toeletta con la sua lingua ruvida e poi si mette in posa come un fotomodello. Anche grazie a questi tipi di bellezza si può andare in estasi, trasportati da Eros, perciò la cosa migliore che possiamo fare ogni giorno è guardarci attorno con gli occhi di bambini, affamati di stupore e meraviglia, assetati ci conoscenza e dei piaceri a cui essa conduce. La bellezza è ovunque, basta solo avere il coraggio di guardarla negli occhi.



[1] Nikolaj Gogol’, “Racconti di Pietroburgo”, Einaudi, pp. 276-277

[2] Platone, “Fedro”, Fabbri Centauria (traduzione e note di Monica Tondelli, prefazione di Léon Robin, testo greco a fronte), pp. 57-63

[3]Platone,  ibidem, pag. 65

[4]Platone, ibidem, pp. 53-55

[5] Platone, ibidem, pag.49

[6] Rif. Fulvio Frati, “Il lato oscuro della mente. L’io di fronte ai cambiamenti”, la Meridiana.

[7] “Michael Ende, “La Storia Infinita”, Tea, cap. XIII – PERELUN, IL Bosco Notturno, pag. 205

[8] Ovidio, “Metamorfosi”, Fabbri Centauria, (a cura di Piero Bernardini Marzolla, testo latino a fronte), Libro X, pag. 413

[9] Nikolaj Gogol’, “Racconti di Pietroburgo”, Einaudi, pag. 120

[10] “La bellezza di Adone”, Mitologia, RBA, pag. 33

[11] Ovidio, ibidem, pag. 399

[12] Ovidio, ibidem, pag. 413

[13] M. Ende, ibidem, pag. 102

martedì 8 settembre 2020

F. Dostoevskij, "Delitto e castigo", Einaudi.

 

Dostoevskij, "Delitto e castigo", Einaudi Traduzione di Emanuela Guercetti.

“Ma è la malattia che genera il delitto, oppure è il delitto stesso che, quasi per sua natura, è sempre accompagnato da qualcosa di simile alla malattia?” [Pag. 85]

Chi è Rodion Romanovič Raskol˝nikov:

“[…] era molto pallido, distratto e cupo. Esteriormente somigliava un po’ a un ferito o a una persona che provasse un forte dolore fisico: teneva le sopracciglia aggrottate e le labbra serrate, il suo sguardo era infiammato. Parlava poco e malvolentieri, quasi sforzandosi o per assolvere un obbligo, e i suoi gesti tradivano a tratti una certa irrequietezza”. [Pag. 258]

Il volto pallido e cupo (chiaro/scuro) rende giustizia alla duplice natura del personaggio di R. L’esterno riflette l’interno, per così dire, in una lotta costante del protagonista con se stesso, con l’altro se stesso… La dissennatezza in contrasto con la ragione, il piacere nel tormento, la paura che si insinua in una personalità spavalda, impavida e sprezzante di ogni pericolo. La generosità di R. si trova spesso a guerreggiare contro un egoismo, un orgoglio e una spietatezza senza confini. La luce e l’oscurità fanno parte in egual misura della natura del protagonista e il lettore si trova a oscillare da un lato caratteriale all’altro, senza sosta. La lucidità mentale sarà messa continuamente in discussione dalla confusione, il delirio e la pazzia prenderanno spesso il sopravvento sulla sanità, mantenendo costante la tensione; gli impulsi autodistruttivi di R. metteranno alla prova il suo autocontrollo, generando uno stato di inquietudine, di irrequietezza. Persino sogni e realtà arriveranno a confondersi. Vividi ricordi e tormentose amnesie si batteranno su un terreno di fervide elucubrazioni. In questo clima di ansia e angoscia, però, l’attenzione del lettore rimarrà sempre accesa per dargli modo di seguire i personaggi e le vicende con occhio vigile e con spirito critico. Ciò che, invece, pian piano andrà sgretolandosi è la certezza. Inevitabile, ad un certo punto, sarà domandarsi se R. sia davvero colpevole…

R. vede le cose come attraverso un filtro che lo porta a vedere ciò che crede di vedere e a credere a ciò che pensa di vedere, sicché neppure il lettore potrà fare a meno di covare dei dubbi su tutta la faccenda.

“Forse sono pazzo sul serio, e tutto quel che è successo in questi giorni, tutto, forse, è frutto della mia immaginazione…” [Pag. 341]

“[…] è cupo, scostante, superbo e orgoglioso; negli ultimi tempi (e forse anche da molto prima), sospettoso e ipocondriaco. Generoso e buono. Non ama esprimere i propri sentimenti e preferisce mostrarsi crudele piuttosto che rivelare il suo cuore con le parole. A volte, del resto, non è affatto ipocondriaco, ma semplicemente freddo e insensibile, al limite della disumanità: davvero, è come se in lui si alternassero a turno due caratteri opposti. A volte è terribilmente taciturno! Non ha mai tempo, tutti lo disturbano, ma intanto se ne sta sdraiato e non fa niente. Non ama canzonare, e non perché gli manchi lo spirito, ma come se non avesse tempo per certe banalità. Non ascolta fino in fondo quello che gli dicono. Non s’interessa mai a ciò a cui s’interessano tutti gli altri in quel momento. Ha un’opinione tremendamente alta di sé, e a quanto pare non senza motivo”. [Pag. 250]

“Lui non ama nessuno; e forse non amerà mai nessuno”. [Pag. 250]

La chiave di tutto è in quel “forse”. L’amore può fare miracoli per gli animi tormentati e potrebbe avere effetto anche sull’animo di R., ma avverrà questo miracolo? Naturalmente lo scoprirete alla fine del romanzo…

“[…] e arriverai a un limite tale che, se non riuscirai a superarlo, sarai infelice, ma se lo supererai, forse sarai ancora più infelice…” [Pag. 264]

Inaffidabile, arrogante e facilmente irritabile, imprevedibile e fortemente intrigante, può risultare antipatico fino all’estremo limite della sopportazione oppure affascinare al punto che ci si può innamorare di lui, perché “è vero che un uomo armonico quasi non esiste; su decine, o forse su molte centinaia di migliaia se ne incontra uno, e comunque sono esemplari piuttosto mediocri…” [Pag. 263]

Il dualismo caratteriale di R. si rispecchia, inoltre, nel contrasto tra idea (“monomania”) personale (ed egoistica) e ideale con fini altruistici.  R. avrebbe potuto uccidere la vecchia usuraia per due ragioni: per liberare se stesso e gli altri debitori dalla schiavitù del denaro oppure  per dimostrare a se stesso di avere la stoffa (e di non avere scrupoli) per diventare un uomo di una certa caratura. Pensa in grande, R., riesce persino a scorgere la grandezza nelle persone più umili, sa leggere nei loro cuori, ma questa sua arguzia è nascosta da uno spesso strato di ottusità che gli impedisce di sviluppare e di mettere in pratica i talenti a sua disposizione per scopi più nobili e lodevoli. E non è tutto. R. ha fretta, è impaziente di diventare “grande”, di dimostrarsi “speciale”, dunque non sa aspettare e dalla vita vuole tutto e lo vuole immediatamente.

«La vecchietta non vuol dire niente! – pensava con foga concitata. – La vecchia forse è stata anche un errore, non si tratta di lei! La vecchia è stata solo una malattia… io volevo fare il salto al più presto… non ho ucciso una persona, ho ucciso un principio! Il principio l’ho ucciso, ma il salto non l’ho fatto, sono rimasto da questa parte… Sono stato solo capace di uccidere. Anzi, ora si scopre che neanche di questo sono stato capace… […] No, a me la vita è data una volta sola, e non ne avrò mai un’altra: non voglio aspettare la “felicità universale”. Voglio vivere per me stesso, altrimenti meglio non vivere affatto». [Pp. 317-318]

IL TITOLO

Sul perché nel titolo di questo libro ci sia la parola “delitto” è chiaro fin da subito, ma quel che incuriosisce è la ragion d’essere della  parola “castigo”. È scontato pensare a una punizione di tipo giuridico ed è anche di questo che si tratta. Anche, appunto, ma non solo. Il castigo in cui incorre R. è soprattutto di tipo psicologico: il tormento interiore, la paura contro il desiderio di essere smascherato, la lotta tra l’impulso di farla finita e il rifiuto di suicidarsi, il dolore di non provare pentimento, quasi non avesse una coscienza o – peggio – ne avesse una che… lavora al contrario!

 

 

LA COSCIENZA

“Chi ne ha una, soffra pure, se riconosce l’errore. Sarà il suo castigo, oltre ai lavori forzati. […] Che soffrano pure, se hanno pietà della vittima… La sofferenza e il dolore sono inevitabili per una coscienza vasta e un cuore profondo. Le persone veramente grandi, mi sembra, devono provare una grande tristezza a questo mondo”. [Pag. 307]

Commettere un delitto perché ci si sente “grandi” e lo si vuole dimostrare, ma generare l’effetto opposto. R. ottiene una smentita della propria “grandezza” sul percorso intrapreso per dimostrarla. Costituirsi alla giustizia rappresenterebbe il primo passo verso una nuova vita, ma non basterebbe. La grande assente, qui, oltre all’amore di cui parlavamo poco fa, è la Fede, quella in un Dio. R. non ha quel tipo di sostegno, non direttamente almeno. Chi lo sostiene con la propria Fede in Dio è Sonja, personaggio fondamentale nel cammino del protagonista che potrà sperare in una sorta di Resurrezione, al pari di Lazzaro. Risorgere a nuova vita mentre si è ancora in vita è un’idea che ha il sapore del miracolo, ma Dostoevskij avrà dato al suo personaggio il beneficio di tale miracolo? Non avrete spoiler da me,  (anche se ammetto di essere stata molto tentata dal pensiero di spifferarvi il finale), quindi non vi resta che leggere il romanzo…

Tornando alla coscienza. Leggendo “Delitto e castigo” è stato per me inevitabile stabilire un punto di contatto tra R. e il protagonista di uno dei più bei racconti di Edgar Allan Poe, “Il cuore rivelatore”. Ciò che fa gettare l’assassino nelle braccia della giustizia, anche in questo caso, non è tanto il rimorso (che neppure R. prova), quanto – piuttosto – un’angoscia provocata da un dissidio interiore: sentirsi, nello stesso tempo, invincibili e vulnerabili, grandi e miserabili, limpidi e meschini… Come si può spiegare una sensazione del genere? Probabilmente è come sentirsi ubriachi senza aver bevuto o – al contrario – sobri pur essendo completamente ubriachi. Chissà… Quel che è certo è che sia Poe sia Dostoevskij sono in grado di portare il lettore sulle montagne russe della tensione: dal punto più basso, in cui si crede di essere al sicuro, tranquilli, al riparo da ogni scossone emotivo, in un crescendo del ritmo narrativo, fino all’apice, al parossismo del furore, per poi ripiombare in picchiata verso la disperazione più nera. Si tratta di una frenesia psicologica che disorienta, frastorna e confonde come sotto l’effetto della febbre. L’adrenalina sale all’improvviso e scende allo stesso modo, quando meno ce lo si aspetta.

LA “RELATIVITÀ” DEL MALE

“Delitto e castigo” solleva moltissime questioni morali, ma anche etiche, se vogliamo e – attraverso i dialoghi tra i personaggi – Dostoevskij è riuscito, con grande maestria e dovizia di particolari, a far sorgere dubbi e interrogativi alquanto spinosi quali, ad esempio:

Esiste o no il delitto? Cioè: sussiste davvero il reato se quello che, appunto, chiamiamo “reato” è stato commesso nei confronti di una persona abietta e crudele? Per R. il delitto della vecchia usuraia non è mai stato tale, non può essere – cioè – considerato un vero delitto, bensì un passo falso, un fiasco, uno scivolone in un’idea che avrebbe potuto realizzarsi in una grande opera se fosse andata in porto. R. si è, però, imbarcato in quell’impresa già inconsciamente convinto di non esserne degno, di non meritare la gloria e la grandezza che ne sarebbero derivate. “Vigliaccheria”, la chiama lui ma è più probabilmente senso di colpa, convinzione di non essere all’altezza del gesto stesso e delle sue conseguenze. Oppure, chissà, un piano divino per fargli scoprire le vere ragioni per cui vale la pena di vivere... Ma, questo, il nostro R. non lo ammetterebbe mai apertamente.

Esiste un diritto di compiere il Male? Cioè: esistono uomini, in qualche modo o per qualche motivo, “autorizzati” dalla natura a compiere il Male?

La forza va conquistata con la forza?

E, come già detto in apertura di questo articolo, “è la malattia che genera il delitto, oppure è il delitto stesso che, quasi per sua natura, è sempre accompagnato da qualcosa di simile alla malattia?”

 

INSERIMENTI AUTOBIOGRAFICI

“[…]” l’atmosfera di repressione seguita alle rivoluzioni europee del 1848 spinge la polizia zarista ad azioni drastiche nei confronti di ogni possibile gruppo di presunti rivoluzionari. Il 25 aprile 1849, alle cinque di mattina, Fëdor viene arrestato per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi. Rinchiuso nella fortezza di Pietro e polo, presenta una deposizione scritta, ancor oggi straordinaria per intensità di pensiero, indipendenza di affermazioni, dignità del tono: viene poi a lungo interrogato. Il 16 novembre la corte marziale condanna i 21 imputati alla fucilazione. Lo zar commuta la condanna a morte in lavori forzati senza termine ma, secondo una pratica allora in uso, con la clausola che la grazia sia resa nota solo dopo la lettura pubblica della sentenza. Incatenato, Fëdor viene spedito in Siberia: ma gli istanti terribili passati sul palco in attesa dell’esecuzione non saranno facilmente dimenticati (entreranno, fra l’altro, nei materiali de “L’idiota”).

 […] Destinazione del forzato: la fortezza di Omsk. In una tappa del viaggio, a Tobolsk, lo scrittore riceve la visita delle mogli di alcuni decabristi: una di esse gli regala un esemplare del Vangelo, l’unico libro ammesso in carcere, che Fëdor conserverà accanto a sé tutta la vita. Nella fortezza Fëdor passa quattro anni, a contatto con detenuti di ogni genere, provenienza, estrazione: assassini, ladri, stupratori ma anche condannati politici, audaci patrioti, coraggiosi partigiani della libertà.  Tutto materiale che utilizzerà nello scritto autobiografico “Memorie da una casa di morti”. Il suo rapporto con i compagni di pena è sostanzialmente positivo. «Questa gente», scriverà «è pur sempre gente straordinaria. Forse è la gente più capace, più forte di tutto il nostro popolo. Ma queste forze possenti periscono invano, periscono in modo illegale, irrevocabile. E chi ne ha la colpa? Proprio così, chi ne ha la colpa?». Quattro anni di ripiegamento su se stesso: «Spiritualmente solo, io riguardai tutta la mia vita passata, ripassai tutto fino alle più piccole minuzie, mi giudicai inesorabilmente, e benedissi il destino per avermi mandato questa solitudine, senza la quale non sarei giunto a questo severo giudizio su me stesso»”. [Dal volume Garzanti de “Il sosia”]

La maggior parte degli eventi qui sopra riportati sono stati inseriti anche all’interno della trama di “Delitto e castigo”: R. ne diventa il protagonista al posto di Dostoevskij. La deportazione dello scrittore avvenne infatti nel 1849 e “Delitto e castigo” fu scritto molti anni dopo, nel 1866, ma in questo romanzo vengono ripresi anche temi affrontati nei precedenti scritti: il tema del doppio era già presente ne “Il sosia” (1846); il sottosuolo, menzionato un paio di volte nel corso della narrazione di “Delitto e castigo” era già stato ampiamente trattato in “Memorie dal sottosuolo”(1864).

PIETROBURGO

Di Pietroburgo, la città in cui è ambientato il romanzo in questione, non emerge un quadro confortante, anzi, al contrario, è teatro di eventi orribili e covo di corruzione e depravazione su più livelli: prostituzione, furti, delitti e violenze; menzogne e sotterfugi, propositi malsani e illeciti dilagano anche a causa dello smodato consumo (chiamiamolo pure abuso) di alcolici. Ma ciò che salta all’occhio è la povertà in cui tanti, troppi vivono; la miseria e l’indigenza provocano rabbia, frustrazione, malattie… Tutte cose che alimentano e perpetuano un circolo vizioso assai pericoloso. Nonostante ciò, questa città mantiene ed esprime un fascino inesprimibile a parole. Sembra esistere solo sulla carta o nell’immaginazione degli scrittori russi, eppure c’è davvero e rappresenta un crocevia di storie e vicende che restano nell’anima…

Nonostante si tratti di un romanzo in prevalenza psicologico, non mancano i colpi di scena, inseriti in maniera strategica all’interno della narrazione al fine di tenere viva l’attenzione del lettore fino all’ultima riga dell’ultima pagina.

Colpisce il fatto che fino all’ultimo risulta difficile collocare R. in una categoria: non si può infatti affermare con assoluta certezza che sia un vigliacco, ma neanche si può dire che sia coraggioso; certo è, però, che “tutta quell’incessante inquietudine e tutto quell’orrore spirituale non potevano restare senza conseguenze”. [Pp. 492, 493] R. stesso in diverse occasioni si definisce “idiota” e – pur riconoscendogli una grande intelligenza – non posso che concordare con quanto da lui affermato. Sicuramente, però, l’esperienza fatta gli è servita come trampolino per il cambiamento, per la “Resurrezione” di cui abbiamo già parlato. Opera del Destino? Della Divina Provvidenza? Del Caso? O, forse, del Libero Arbitrio? Chissà cosa determina la vita che facciamo: sono le nostre scelte che costruiscono il nostro Destino oppure è il contrario, vale a dire che è il nostro Destino il fattore in base al quale compiamo le nostre  scelte?

“[…] molte cose di se stesso le apprese basandosi sulle informazioni ricevute da estranei. Per esempio confondeva un fatto con l’altro; oppure lo riteneva conseguenza di un avvenimento esistito solo nella sua immaginazione. A volte lo assaliva un’inquietudine tormentosa, che degenerava addirittura in panico. Ma ricordava anche che c’erano minuti, ore e forse perfino giorni pieni di un’apatia che s’impadroniva di lui come per contrasto con la natura precedente: un’apatia simile allo stato di indifferenza morbosa di alcuni moribondi”. [Pag. 507]

 UN GIALLO AL CONTRARIO

La costruzione di quest’opera è molto singolare: si potrebbe definire un “giallo al contrario”. Il lettore non deve scoprire chi è l’assassino e perché ha commesso il crimine, deve – invece – penetrare nella testa dell’assassino, indossare i suoi panni, comprendere il suo stato d’animo, il suo tormento interiore, la sua angoscia, la sua ansia, le sue paure e i suoi stati di esaltazione, ma soprattutto il cambiamento che avviene dentro di lui. “Delitto e castigo” è il rovescio di una medaglia-thriller, è la storia di R. dal suo punto di vista (anche se il narratore rimane Dostoevskij), quando – solitamente – un giallo o un thriller canonici puntano i riflettori su chi conduce le indagini.

“Con cento conigli non si fa un cavallo, con cento sospetti non si fa una prova, ecco cosa dice un proverbio inglese, ma questo è solo buonsenso, mentre le passioni, le passioni provi un po’ a dominarle!” [Pag. 522]

IL RITMO NARRATIVO

È strano come, anche nei momenti di apatia del protagonista, il ritmo non sia mai lento, bensì rapido e incalzante. Questo accade perché la narrazione si svolge, in realtà, su due livelli: quello fisico, reale, e quello mentale. Perciò, anche quando R. dorme, le vicende mantengono un ritmo concitato. Non mancano, comunque, momenti di calma apparente, momenti che – appunto – non dureranno a lungo perché Dostoevskij è sempre pronto a dare scossoni nei punti giusti della narrazione, facendo vacillare ogni nascente certezza. Il lettore ha il tempo di prendere una boccata d’aria ogni tanto, ma solo per ripiombare – poco dopo – con la testa sott’acqua.

“Ogni sua parola si poteva intendere in due modi diversi, come se sotto ce ne fosse un’altra!” [Pag. 524]

Un romanzo davvero intrigante e avvincente in cui non si ha il tempo di annoiarsi. Dostoevskij ha/aveva il dono di instillare il dubbio e la curiosità, nei suoi lettori.

D’altronde si può stare comodamente sdraiati su un letto di chiodi (lo sanno bene i fachiri), ma solo perché quei chiodi sono numerosi e disposti in maniera regolare, ma basta spostare – anche di poco – qualcuno di essi e la comodità si tramuterà in tormento!

Ambiguità e chiarezza, duplicità e coerenza, sospetti ed evidenza dei fatti…

“Ma i fatti non sono tutto; perlomeno, metà del caso dipende da come questi fatti si sanno interpretare!” [Pag. 160]

IL TEMPO

Il  Tempo, in “Delitto e castigo”, si dilata e si restringe vertiginosamente. Complice anche la presenza di sogni e incubi, di amnesie, di stati febbrili e di delirio del protagonista. Vi è mai capitato di uscire di casa e di ritrovarvi in ufficio senza sapere come ci siete arrivati, né quali strade avete preso o quanto tempo ci avete messo? Ecco, anche a R. accade spesso questo inconveniente che contribuisce ad azzerare il senso stesso del Tempo.

IL SENSO DELLA VITA

Non si può vivere solo per esistere, perché si tratterebbe di pura e semplice sopravvivenza. Vivere, vivere davvero, è un’altra cosa. Volere di più, sapere di essere nati per avere quel “di più”… Ma di cosa si tratta? In cosa consiste questo fantomatico “di più”? Penso sia l’Amore, quello universale, quello che abbraccia la vita in tutte le sue forme. Come si conquista questo Amore? Non ho una risposta univoca e definitiva a questa domanda, ma penso che ci voglia innanzitutto Fede, e non sto parlando di Fede religiosa, non in senso stretto, almeno. Fede, per me, vuol dire fiducia: fiducia nel futuro, fiducia nel potere dei desideri… Fiducia in qualcuno o in qualcosa, non importa chi o che cosa. È così che ci si apre all’Amore. Alla sua ricezione e alla sua donazione…