Ogni mondo è fatto di
persone, di cose, di accadimenti (passati, presenti e futuri), di esperienze.
Ogni persona ha il PROPRIO mondo. Ogni mondo si interseca con altri mondi,
tanti piccoli mondi che – unendosi – vanno a formare IL mondo. I genitori fanno
inevitabilmente parte del mondo dei loro figli e viceversa, ma nessuno arriva
mai a conoscere per intero il mondo di qualcun altro; né durante la vita né
dopo la morte. Pierric Bailly racconta il proprio padre, ne ricostruisce la
vita a partire – paradossalmente – dalla morte. Un elogio funebre? Non proprio,
non soltanto. L’uomo dei boschi è
anche un inno alla vita. E alla natura. L’uomo
dei boschi racconta il rapporto tra l’uomo e la natura, tra un padre e un
figlio e tra i vivi e i morti.
Il rapporto uomo-natura,
in questo libro, è fitto quanto lo sono le fronde e le radici degli alberi di
un bosco. E quando parlo di radici intendo sia in senso fisico, letterale del
termine, sia in senso figurato. Le radici possono rappresentare, in fondo,
anche il nostro passato, le nostre origini e – in senso più lato – i nostri
genitori. L’uomo e la natura hanno in comune molte cose. Innanzitutto hanno entrambi una doppia valenza, una sottile ambiguità:
come il primo racchiude in sé una parte di “luce” e una di “ombra” così anche
la seconda si fregia sia di un lato materno, bonario, accogliente e magico, sia
di un lato duro, selvaggio, impenetrabile e impietoso. Viene da chiedersi:
siamo noi a rispecchiare la natura o è la natura che rispecchia noi?
L’ambiguità della
natura, in questo caso, viene presa in esame da Bailly per sottolineare il
carattere ambiguo del padre, Christian: bellissimo e socievole eppure isolato,
riservato e selvaggio. Magico e incantevole eppure sinistro e inquietante. E’
strano, se ci si pensa, ma spesso si arriva a capire l’importanza, il valore
dei luoghi e delle persone solo quando ci si allontana da essi. Non è raro
sentire storie di individui che hanno iniziato a provare un forte senso di
appartenenza ad un Paese soltanto dopo averlo lasciato… A volte, addirittura,
pensiamo di conoscere bene certi luoghi o certe persone per poi scoprire, con
grande sorpresa – e forse anche un po’ di frustrazione – che non è affatto così.
Dovremmo rassegnarci al fatto di non poter conoscere davvero nessuno, neppure i
nostri genitori; ciò che possiamo fare – ed è ciò che fa anche Pierric Bailly
in questo libro – è ricostruire le vite dei nostri cari, ormai scomparsi,
attraverso i ricordi che abbiamo di loro, attraverso l’analisi degli oggetti
che hanno posseduto, allo studio dei libri che hanno amato, all’ascolto della
musica che essi stessi hanno ascoltato e alle testimonianze delle persone che
li hanno incrociati sul loro cammino. E, poiché ogni individuo possiede
un’enorme complessità di carattere, tutti, in fondo, hanno bisogno degli altri
per scoprire un po’ di se stessi.
“Mi
sono detto che uscendo da se stessi ci si assume il rischio di trovare
qualcosa”.
E, infine, la morte.
Bailly ce ne parla a suo modo, perché ognuno vive l’esperienza della morte a
modo proprio. Ognuno affronta questo evento con le armi che ha a disposizione,
ma il denominatore comune è che chi resta deve andare avanti, in qualche modo:
“Gli
amici e la famiglia tentavano di riprendere la loro vita. Per alcuni di loro era
accaduto qualcosa di molto importante, che poteva essere uno sconvolgimento.
Per me era evidentemente così.
Se
la perdita di un genitore, in sé, è un evento eccezionale, si può anche dire
che è nell’ordine delle cose, un fatto banale. In questa storia ciò che lo è
meno sono le circostanze”.
Proprio così. Spesso ci
importa più di come le persone sono morte che di come hanno vissuto. Siamo
attratti da quell’alone di mistero che circonda coloro che non ci sono più e,
in tal senso, questo libro può essere considerato un giallo: sarà compito del
lettore decidere il punto di vista da assumere per osservare le vicende. Si
potrà “schierare” dalla parte in cui i protagonisti sono i fatti, le circostanze, o da quella in cui sono i
sentimenti a dominare la scena. Dal canto suo, Pierric Bailly proverà entrambe
le condizioni, per poi approdare definitivamente alla seconda:
“Cerco
di accettare ciò che non si spiega. […] Ma cerco soprattutto di crederci. Cerco
di accettare che sia veramente successo, che non ho sognato quella settimana
folle e drammatica, che malgrado il tenore romanzesco degli eventi, questi non
appartengono al campo della finzione letteraria, ma proprio a quello della
realtà”.
La morte è un fatto
reale tanto per chi muore quanto per chi resta, ma rimane comunque un grande
mistero capace di scatenare le reazioni e i sentimenti più disparati. Sotto
questo aspetto ha, sicuramente, molto in comune con la natura: entrambe,
infatti, sono misteriose, non contemplano il perdono e non fanno sconti ad
alcuno. Sanno essere discrete, quasi delicate o vestite di magnanimità, ma
anche crudeli e spietate. Di entrambe si dice spesso: “è così che va”. Già… E’
la vita; è la natura; è la morte. Il principio e la fine, sempre che si creda
che le cose inizino e finiscano. Per quel che mi riguarda (e – a quanto pare –
per quel che riguarda anche Pierric Bailly) la morte non pone la parola “fine”
a niente:
“La
vita dopo la sua morte, la vita a partire dalla sua morte. Perché se n’era
andato proprio all’inizio. E’ il concetto della morte. Una vita si ferma, è la
fine della storia. Ma la morte genera una nuova storia, di cui il defunto è il
fattore scatenante, e di cui non ha conoscenza”.
C’è una sorta di
“coerenza”, di continuità tra la vita e la morte, un filo invisibile che le
collega. E’ una continuità che si plasma attraverso il passaggio da una
generazione all’altra; una continuità che, però, incoraggia e preserva le
differenze tra una e l’altra. In questo caso, tra un padre e il proprio figlio.