Ogni lingua è figlia del
proprio tempo, cioè della Storia del momento, ma poiché la Storia è fatta da
noi, va da sé che anche la lingua è un nostro prodotto. Noi plasmiamo lei e lei
plasma noi, lentamente ma con fermezza. Siamo soliti lasciarci alle spalle
parole cui riserviamo un destino di esiliate e, al contempo, ne adottiamo di
nuove; per farlo, le “rubiamo” ad altre lingue e/o le fondiamo insieme (dando
vita a degli strani collage, a volte
geniali, altre volte esilaranti, talvolta addirittura raccapriccianti) oppure
ne coniamo di sana pianta. A quanto pare, però: “Parole nuove e parole desuete
sono la stessa cosa; sono parole che non ci sono, e ad un tratto cominciano ad
esistere. ‘Contrarmellino’ e ‘paninoteca’ sono parole psicologicamente
analoghe; inesistenti pronte ad esistere”. [Giorgio Manganelli]. Il risultato è
sempre uno specchio su cui si riflette la società col suo pensiero, la sua
politica, nonché la sua cultura in tutte le forme possibili (musicale,
filosofica, scientifica, di costume, e così via). Analizzando la lingua di un
popolo in un determinato momento storico, si possono desumere molte
informazioni interessanti riguardo a quel periodo e a quello stesso popolo. I
modi di dire, i dialetti, i proverbi, sono anch’essi forieri di utili dettagli
di una cultura.
Raccontato così, il quadro
della situazione non sembra tanto brutto, ma – purtroppo – c’è il cosiddetto
“rovescio della medaglia”. Per ogni parola che entra nel nostro uso quotidiano
ne perdiamo molte altre. Ho notato che – in particolare – si sta sfoltendo
inesorabilmente la tavolozza delle parole che riguardano il “sentire”. E con
“sentire” – pur non avendolo fatto apposta – ho trovato un esempio calzante per
illustrare meglio la questione: l’ho messo tra virgolette proprio perché può
voler dire molte cose, troppe – in realtà – tra cui ‘udire’, ‘percepire’ (col
cuore), ‘odorare’, ‘intuire’, ‘notare’, e via dicendo. Sentimenti o – meglio –
emozioni e sensazioni, stanno pian piano uniformando le loro numerosissime
sfumature (e, con esse, la nostra sfera emotiva), come se una donna partorisse
dieci figli e decidesse di chiamarli tutti quanti ‘Giovanni’. Troppo spesso
usiamo una sola parola per indicare cose che necessiterebbero – ognuna – di un
vocabolo a sé, di un termine specifico. È il caso, ad esempio, della parola
“afflizione”.
“Afflizione, nome di origine latina (lat. afflictio ‘abbattimento’, ‘disgrazia’, ‘tormento’, derivato di affligĕre ‘abbattere’,
‘scoraggiare’, ‘rovinare’) fende una
terra di mezzo, collocandosi fra i più lievi tristezza o mestizia e i
più intensi sofferenza o dolore, tribolazione o travaglio,
patema o cordoglio, patimento o struggimento; più forti ancora strazio, crepacuore, supplizio, tortura”. [Pag. 24]
Particolarmente deprimente,
a tal proposito, è l’abitudine di adattare alcune parole affinché si
sobbarchino il peso di significati che non hanno. Come nel caso di “indigente”,
termine di cui abbiamo modificato, col tempo, la destinazione d’uso.
Il libro di Arcangeli
rispolvera accuratamente, ponendo l’accento sulle origini (etimologia), sulle
sfumature di significato e sui vari utilizzi specifici, cinquanta parole cadute
in disuso, ma i cui sinonimi (sia quelli di “tonalità ascendente” – CLIMAX –
sia quelli di “tonalità discendente” – ANTICLIMAX) hanno ancora molto lavoro da
svolgere o ne avrebbero, se solo gliene dessimo l’opportunità. Ne emerge un
piccolo - ma prezioso - dizionario che conta, dunque, ben più di cinquanta termini; utilissimo per
nutrire i nostri pensieri oltre che la nostra cultura, nonché la nostra
eventuale curiosità. Il libro, infatti, oltre che di “estratti letterari” di
prim’ordine, è anche corredato di foto, illustrazioni e immagini d’ogni sorta,
per sottolineare il fatto che le parole non sono solamente bizzarri
accostamenti di lettere (SIGNIFICANTI), ma anche e soprattutto SIGNIFICATI. Le
parole – ricordiamolo – racchiudono l’essenza delle cose e – seppur limitate e
limitanti – o, forse proprio per questo, ci portano ad aver bisogno del
maggior numero di esse per sopperire a tale limitatezza. Impresa impossibile sarebbe - infatti - quella di racchiudere nella
parola ‘rosa’ l’essenza stessa della rosa, col suo profumo, i suoi colori, la
morbidezza dei suoi petali… Ogni parola, però, è come una sfumatura di colore
e, se è vero che è impossibile avere una parola per ogni sfumatura di ogni
colore, è pur vero che più parole abbiamo a disposizione, meglio riusciremo a
descrivere il mondo; e – di conseguenza – saremo anche in grado di crearne di
nuovi, più ricchi e più sontuosi.
Perciò, quando ho visto
questo libro tra le pubblicazioni de Il Saggiatore – che ringrazio per avermelo
prontamente inviato – ho capito subito che avrebbe rappresentato un’ottima
occasione per puntare i riflettori su quella che – probabilmente – è una delle
“malattie” più diffuse del nostro tempo, ma di cui pochi si occupano (o
preoccupano), ovvero la perdita del cosiddetto “vocabolario attivo” (o “lessico
produttivo”). Il “vocabolario attivo” è quel repertorio di parole che usiamo
regolarmente, nella vita quotidiana. E, sebbene io sia favorevole
all’introduzione e all’integrazione di parole “moderne” (cioè parole che
descrivono più fedelmente la realtà in cui viviamo), mi rammarico di veder
perire una lingua e un linguaggio fatto di termini che avrebbero ancora tanto
da dare e… da dire. Per questo motivo ho creato lo hashtag #resuscitounaparola,
per infondere nuova linfa vitale alla nostra lingua e renderla più ricca di
quelle sfaccettature che ho nominato poc’anzi. Perché, “salvando” le parole, si
mettono in salvo non soltanto la cultura e i ricordi personali, di ognuno di
noi, ma anche la cultura e la memoria storica collettiva, quella del popolo. E,
chi ha letto “1984” di George Orwell, può intuire meglio ciò che intendo dire.
Nella didascalia in cui la
Casa Editrice presentava il libro di Arcangeli, si diceva: “sono molti gli
aggettivi, i verbi e i sostantivi che rischiano di non essere più pronunciati,
appiattendo, forse, non solo il nostro modo di esprimerci ma anche il nostro
modo di concepire il mondo” e io concordo con quanto asserito poiché avere
poche parole è spesso indice dell’avere pochi pensieri (o pensieri superficiali
e confusi) e – dato che le parole, come abbiamo detto, creano i mondi – l’avere pochi pensieri implica a sua
volta il fatto di poter creare mondi scarni.
Troppe sono le parole UTILI che abbiamo relegato in un angolo o
chiuso nei cassetti di un Limbo linguistico-mentale, perciò “resuscitarle”
vorrebbe dire sia “rispolverarle” (recuperarle) sia “ri-crearle” (vedi cit. Manganelli);
ma qualunque sia il vostro punto di vista prediletto tra i due, ammesso che ne
abbiate uno, resta il fatto che l’intento è uno solo:
riappropriarci di un tesoro dal VALORE (e dal POTERE) INESTIMABILE.