“Tre adolescenti di
ritorno da una sessione di surf su un pullmino tappezzato di sticker, tre big
wave rider, esausti, stralunati ma felici, vanno incontro a un destino che sarà
fatale per uno di loro. Incidente stradale, trauma cranico, coma irreversibile,
e Simon Limbres entra nel limbo macabramente preannunciato dal suo cognome. Da
quel momento, una macchina inesorabile si mette in moto: bisogna salvare almeno
il cuore. La scelta disperata dell’espianto, straziante, è rimessa nelle mani
dei genitori. Intorno a loro, come in un coro greco, si muovono le vite degli
addetti ai lavori che faranno sì che il cuore di Simon continui a battere in un
altro corpo. Tra accelerazioni e pause, ventiquattr’ore di suspense, popolate
dalle voci e le azioni di quanti ruotano attorno a Simon: genitori, dottori,
infermieri, equipe mediche, fidanzata, tutti protagonisti dell’avventura,
privatissima e al tempo stesso collettiva, di salvare un cuore, non solo
organo ma sede e simbolo della vita”.
Leggendo “Riparare i
viventi” ci si accorge che i personaggi non sono soltanto quelli in carne ed
ossa, ma anche “entità” astratte quali il tempo e lo spazio, l’angoscia e la
speranza, la vita e la morte. Persino il
cervello e il cuore possono essere considerati dei personaggi a tutti gli
effetti, pur essendo soltanto degli organi.
Il cuore, l’organo che – nell’immaginario
collettivo – è la sede dei sentimenti (e, per qualcuno, anche della memoria)
qui acquista un’importanza ancora maggiore, un’intensità e un ruolo ancor più
rilevanti. Il cuore è descritto come la “scatola
nera” del corpo, non solo il motore, dunque, ma quasi una creatura
dotata di vita propria, una vita nella vita, pertanto l’emblema della vita
stessa. Si è indotti a pensare: è possibile che il cuore abbia un’anima? E –
allo stesso tempo – ci si può trovare a indulgere sul concetto di vita: è
davvero corretto pensare che, se il cuore batte, si è in presenza di un
organismo vivente? Da qui, l’eterna lotta tra cuore e cervello e – perdonate il
gioco di parole – la nascita di un nuovo tipo di morte: la morte cerebrale. “Non penso, dunque non sono” scrive l’autrice, e
continua asserendo: “Deposizione del cuore e
consacrazione del cervello. Un colpo di stato simbolico, una rivoluzione”.
Quale ruolo giocano cuore e cervello nel mantenimento di ciò che chiamiamo “vita”?
E ancora: tecnica e sentimenti possono andare d’accordo? Può – cioè – un cuore
artificiale sostituire in toto un
cuore di carne? E infine la questione più spinosa: cosa accade quando si trapianta
il cuore di un individuo in un altro individuo? Cambia qualcosa nella
personalità del ricevente? D’altronde il momento in cui si espianta il cuore
dal donatore e lo si trapianta nel petto del ricevente, rappresenta un elemento
di transizione, un punto di continuità tra la vita e la morte. E questo accade “Perché il cuore va al di là del cuore”, è “[…] la chiave di volta […], l’analogia stessa della vita”.
Dunque, se il cuore è
la vita, quale faccia ha la morte? Com’è fatta questa acerrima –benché necessaria
– nemica della vita? E’ un passaggio di stato, un mutamento della materia, la “[…] contingenza di questo mondo, la fragilità delle vite umane”. Una “temporalità dislocata” e una “continuità spezzata”, ci dice Maylis de Kerangal;
un evento, una condizione inevitabile.
Questo libro in sé rappresenta
non tanto una corsa contro il tempo, quanto – piuttosto – un avanzamento verso quell’inevitabile
affinché si salvi il salvabile e si riparino i viventi. Ed ecco che assistiamo
al mutare dello spazio e del tempo, al contrarsi e al dilatarsi di questi due
pilastri delle nostre vite proprio come il contrarsi e il dilatarsi del cuore. L’infinito
e l’eternità (rispettivamente lo spazio e il tempo) che pulsano a seconda delle
nostre percezioni, ci dimostrano come – col pensiero – si possano alterare o –
perfino – superare i confini dello spazio-tempo. Questo ci porta a riflettere
sulla possibilità che, ciò che qui non esiste, sia presente in un universo o in
una realtà parallela, e viceversa. Ma l’autrice fa di più: svela ai suoi
lettori l’inganno ordito dalla morte, inganno per il quale Simon sembra vivo –
pur essendo cerebralmente morto – mentre Claire (la ricevente) sembra morta,
pur essendo viva. Il confine tra la vita e la morte, in questo libro, è appeso
al filo del trapianto e il lettore avverte in maniera tangibile la tensione
creata dalla necessità dei protagonisti di preservare e consolidare questo filo
tramite un continuum spazio-temporale
tra donatore e ricevente. Tutti i protagonisti sono vicini e distanti
contemporaneamente; tutti, quindi – persino i vivi e i morti – sono strettamente
collegati tra loro. Ogni vita è un mondo e ogni mondo si interseca o si accosta
a innumerevoli altri. E il tempo sembra adattarsi a quelle vite, così che un
secondo può durare un’eternità o – al contrario – un’eternità può durare un
solo istante.
La scrittura di Maylis
de Kerangal è “visiva”, “cinematografica” e – come tale – contempla numerosi cambi
di inquadratura, descrizioni minuziose di eventi, luoghi, cose, personaggi e
sensazioni, tese a eguagliare le vivide immagini di una pellicola. E’ una
scrittura “empatica” grazie alla quale il lettore arriva a vedere, sentire e
provare le stesse cose che vedono, sentono e provano i protagonisti. Persino l’aspetto
di paesaggi e tempo atmosferico tende a mutare al mutare delle sensazioni e
delle emozioni dei personaggi. Tensione, paura, ansia, angoscia, incredulità,
consapevolezza, illusione e disillusione, speranza e disperazione,
inquietudine, rassegnazione, sensi di colpa, rimorsi, amore e affetto sono solo
alcuni di quei sentimenti e di quelle sensazioni che emergono da “Riparare i
viventi”. La brevità dei capitoli e la parsimonia nell’utilizzo della
punteggiatura rendono il ritmo della narrazione incalzante, sottolineano l’urgenza
dei pensieri. E’ un crescendo emotivo reso possibile anche dal sapiente uso
delle figure retoriche come le sinestesie, le sineddoche, le similitudini, le
metafore e gli ossimori. I dialoghi non
si distinguono a colpo d’occhio dalla narrazione perché non ci sono virgolette né
trattini e non si va neppure a capo per segnalarli: i discorsi diretti sono
perfettamente integrati all’interno della prosa. Grazie a questo stile ricco di
virgole, ma povero di punti fermi (fatta eccezione per alcuni contesti in cui l’autrice
ha voluto canalizzare l’attenzione del lettore) spazio e tempo vengono azzerati,
dando vita ad una scrittura ansiogena che ben si adatta alla storia e alle
tematiche affrontate. Frequente è l’uso dei “forse”,
dei “probabilmente” e degli “è possibile”, tanto da far sorgere il
dubbio al lettore che chi sta narrando le vicende non sia al corrente di tutto
o che – al contrario – lo sia, ma voglia lasciare la giusta dose di privacy ai protagonisti. Questo
espediente crea suspense e fa
vacillare quello che è già un precario equilibrio dei pensieri. Lo stile di
Maylis de Kerangal è in grado di trasportare il lettore da un capo all’altro
del mondo in pochi istanti; spesso ci si trova catapultati nei dettagli più
intimi delle vite dei personaggi in una continua alternanza di presente e flashback, un’alternanza talmente
frequente, ma così ben strutturata, da apparire quasi come contemporaneità.
E’
impossibile non commuoversi ed è altrettanto impossibile non porsi domande
sulla vita leggendo questo libro meraviglioso seppur estremamente doloroso che –
forse – è meraviglioso proprio per la sua capacità di toccare il cuore.
N.B.: [La traduzione
dal francese è di Maria Baiocchi con Alessia Piovanello].
Non deve essere stato un compito facile quello
di tradurre questo libro mantenendone intatta tutta l’intensità; per tale
motivo mi sembra doveroso riportare qui sotto le parole di Maria Baiocchi:
“Ringrazio
di cuore le mie amiche che mi hanno aiutato in questa seconda prova del fuoco
con la lingua ardente di Maylis de Kerangal. Ester Coen, preziosa per risolvere
l’impasse dell’incipit, Anna Tagliavini, che ha passato tutto il resto al
setaccio della sua attenzione esigente e competente, Lise Chapuis, che ha
dedicato ore ad ascoltare e risolvere i miei tanti dubbi. E infine grazie a
Ecla Aquitaine che ha voluto sostenere questa impresa, assegnandomi una
residenza di traduzione a Bordeaux”.
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