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LA BELLEZZA

giovedì 15 agosto 2019

"OSSERVAZIONI ASCOLTATE" di Veronica Petinardi


L’idea di costruire un racconto basato su una serie di quadri è ammirevole, soprattutto se si considera il fatto  che arrivare a coniugare immagini/concetti estremamente vari e disparati (tra cui spiccano HORUS, MANTIDE e SPIRITUALITÀ ) è molto difficile. Nonostante questa premessa spezzi una lancia a favore dell’impegno profuso dall’autrice all’interno del proprio racconto, sono presenti anche molti aspetti (negativi) che ne inficiano il risultato finale.
La struttura ricorda quella dei racconti per bambini, imperniata sulla semplicità. Una semplicità che ha – purtroppo – una doppia valenza in quanto è in grado di trasformare lo scritto in questione da “denso” (ovvero ricco di spunti di riflessione, significati, interpretazioni, ecc.) a superficiale. In un mondo in cui si è soliti parlare tanto (dicendo poco e comunicando ancora meno), questo racconto avrebbe potuto rappresentare una bella eccezione, ma così non è. Manca, innanzitutto, una descrizione precisa e dettagliata delle motivazioni che hanno portato il protagonista a voler intraprendere il proprio viaggio. Tale omissione (voluta, credo, per permettere a chiunque legga il racconto di identificarsi nel personaggio principale), impedisce  - contrariamente alle aspettative – di sviluppare empatia nei confronti del viaggiatore, pur essendo lo smarrimento di quest’ultimo potenzialmente simile a quello di tante persone e pur essendo il suo desiderio di ritrovare se stesso analogo a quello di molti individui. Chiunque decida di intraprendere un percorso (interiore o fisico o che includa entrambe le tipologie), lo fa perché prova delle sensazioni e delle emozioni che non sono in linea con i propri desideri, ma – in questo caso – il lettore non è messo al corrente né del vissuto del protagonista né dei suoi desideri più profondi (fatta eccezione per alcuni accenni al termine del racconto). Ogni viaggiatore cerca qualcosa e, quasi sempre, quel qualcosa è la Felicità, felicità che ognuno trova in cose diverse; forse questa è un’altra delle motivazioni per cui l’autrice ha deciso di non fornire molti dettagli in merito alla vita del protagonista. Possiamo soltanto fare delle supposizioni, a questo proposito. Ad esempio: la donna sulla spiaggia rappresenta un amore trascurato? Il protagonista è stato un materialista, in passato? Ha svolto una professione che lo ha incanalato in un tunnel sempre più soffocante fatto di obiettivi riguardanti il solo raggiungimento del successo? Ha avuto a che fare con talmente tante persone da poter dire di non averne conosciuta nemmeno una, veramente? Chissà…
I “pilastri” di questo racconto (vale a dire: spiritualità, percezione dello spazio e del tempo, importanza del desiderio, e concetto di “Io”) travolgono il lettore a cui, però, non vengono forniti strumenti sufficienti per orientarsi verso un pensiero chiaro.  A questo proposito, anche la terminologia e la sintassi utilizzate richiederebbero un’accurata revisione; spesso, infatti, si sente la necessità di rileggere i periodi più volte per poterne comprendere il significato.
Spiazza, inoltre, l’ingenuità dell’autrice nei confronti dell’immaginazione o – meglio – della facoltà di visualizzare immagini mentali: non basta, infatti, visualizzare al proprio interno immagini di calma e serenità per cambiare la realtà intorno a noi!
Detto ciò, ritengo doveroso proporre anche una scansione degli aspetti positivi di questo breve racconto. Ci sono descrizioni di immagini meravigliose di confini che si perdono stemperandosi gli uni negli altri; ci sono considerazioni sulla fragilità di certi sogni, destinati a vacillare all’arrivo della prima “TEMPESTA”; ci sono pensieri sulla bellezza dei colori della natura, sul valore del buio, sui bisogni dell’Anima e sull’importanza delle scoperte. Ma, soprattutto, c’è un appello – più o meno velato – a non vivere esclusivamente nel mondo dei sogni, ma a ricorrervi in caso di necessità per poi fare ritorno alla vita vera e reale. E poi – a voler essere onesta – leggendo le parole della Petinardi, non ho potuto fare a meno di “covare” delle perplessità: la più pervasiva è sicuramente quella che riguarda la figura di HORUS; occhio vigile su noi esseri umani, pensiero che si libra in volo per osservarci da un punto prospettico più alto. Perplessità anche per alcune affermazioni quali, ad esempio: “Se torni, non dovresti ritornare”, spiegata sostenendo che “l’entrare in sé stessi si può affrontare solo una volta nella vita”. Mi sono interrogata con grande fermezza sul significato di tali parole e sono arrivata alla conclusione che chiunque, una volta affrontato un viaggio interiore e scoperto le meraviglie che il proprio “Io” contiene, non può (e non dovrebbe) tornare alla realtà con gli stessi occhi e con lo stesso atteggiamento che aveva prima del viaggio…
E, ancora: “Così aveva smesso di desiderare troppo, che poi non basta mai”. Per mia natura non amo accontentarmi, soprattutto quando so che posso migliorare la mia situazione; tendo ad aspirare a mete sempre più alte, non tanto per quell’ambizione sfrenata di fronte alla quale io stessa inorridisco, quanto per un autentico e sano desiderio di crescita, ben lontano dall’essere considerato egocentrismo o egoismo o, peggio ancora, superbia. Ciò non toglie il fatto che so (o, perlomeno, tento di) apprezzare appieno i doni che la vita mi offre.
È un libro davvero strano, quello di Veronica Petinardi, costellato sia di pregi sia di difetti. Nel mondo servono entrambi.
Mi rammarico di non potermi pronunciare in merito ai quadri di Michela Bartaletti, ma la lettura su dispositivo Kindle non ne consente una valutazione.

martedì 6 agosto 2019

Tabù


PREMESSA
Il tabù è un concetto che rappresenta il divieto, la proibizione (di pronunciare alcune parole o – addirittura – alcuni nomi, di svolgere determinate pratiche, ecc.), ma – in senso lato – indica anche una delimitazione. In questa seconda accezione, in particolare, risiede una profonda ambivalenza: la delimitazione, infatti, ha sia il compito di mettere in rilievo ed esaltare qualcuno o qualcosa degno/a di nota o meritevole di rispetto, in quanto prestigioso, sia di isolare cose o persone potenzialmente o effettivamente pericolose.
RIFLESSIONI PERSONALI
Ogni volta che introduco determinati argomenti all’interno dei miei discorsi o delle mie conversazioni, noto che la reazione più frequente manifestata dalla maggior parte dei miei interlocutori è il rifiuto. Non sempre è un rifiuto aperto e sincero, anzi, spesso è un rifiuto che si palesa con un cambio di argomento, con un sorriso finto e tirato, con una risposta che appartiene ad altri o con una già usata e consolidata in altre occasioni. Secondo Massimo Recalcati, autore del saggio intitolato “I tabù del mondo”,
“Il nostro tempo sembra aver dissolto ogni confine, compresi quelli stabiliti dai tabù. Non esiste più un limite che non sia possibile valicare”. “Il nostro tempo non sembra conoscere più l’ombra tetra del tabù. L’enfasi della libertà da ogni vincolo sembra aver demolito il rispetto nei confronti del senso del limite che l’esistenza del tabù indicava”. [Pag 5]
Sono d’accordo con l’autore sul fatto che l’uomo moderno abbia un desiderio particolare, forse addirittura un’ossessione, di superare certi limiti e che, il più delle volte, non si faccia scrupoli di alcun genere (né morale né – tantomeno – etico), ma non credo che quei tabù siano stati completamente e definitivamente superati. Intendo dire che, in questi ultimi anni, ci siamo adoperati per far fronte a molti problemi (= tabù) ma lo abbiamo fatto solo dal punto di vista tecnico e non dal punto di vista mentale. Un esempio concreto? Stiamo sfoderando ogni metodo possibile per sconfiggere la morte, ma non abbiamo fatto altro che trasformare la morte in un problema tecnico, senza fermarci a pensare a cosa sia la morte per noi, per ognuno di noi. Per quanto riguarda il superamento del tabù dal punto di vista mentale, dunque, siamo fermi, vale a dire che ci siamo assuefatti a certe situazioni e a certi pensieri. Siamo talmente abituati a vedere la morte, a vivere circondati dalla violenza, dall’oppressione e dall’aberrazione che abbiamo sviluppato una sorta di callo mentale, di paralisi del pensiero. Tale paralisi non ci consente di provare sensazioni e sentimenti autentici nei confronti di ciò che ci circonda e di ciò che ci accade. Per questo penso che alcuni tabù siano stati soltanto aggirati. Aggirare un tabù è una pratica in grado di gettare fumo negli occhi per offuscare la vista, ma soprattutto il libero pensiero. Funziona. Si comincia rinominando ogni tabù (vale a dire ogni cosa “scomoda”) con la perifrasi “argomento spinoso” o “di cattivo gusto”, ci si ricamano sopra storielle più o meno coerenti con l’opinione collettiva e si archivia il tutto in un cassettino della propria mente da cui poter attingere all’occorrenza. A questo proposito, azzarderei l’ipotesi che il più potente e resistente tabù del mondo moderno sia proprio il tabù stesso.
Ma in che cosa risiede, esattamente, questa potenza? Ritengo che il mondo si basi su un gioco di equilibri e disequilibri: il tabù fa parte del mondo, pertanto non può sottrarsi a questo gioco. Mi spiego meglio. Ogni limite dà vita a due fenomeni essenziali: la paura e il desiderio. La paura ci impone di stare fermi, ci sbarra il cammino verso l’ignoto, mentre il desiderio ci spinge oltre e ci sprona a superare i limiti esterni e interni a noi. È un’idea che riprende, in parte, il pensiero di Freud (“Dove c’è tabù c’è desiderio”), pensiero che ritroviamo anche nel saggio di Umberto Galimberti, “I miti del nostro tempo” e nel già citato libro di Recalcati (“L’oggetto sul quale cade la proibizione è il più desiderato. Il che significa che la Legge non è semplicemente un antagonista repressivo  del desiderio, ma ciò che lo alimenta continuamente”). [P. 5 de “I tabù del mondo”] Avrete sicuramente notato che più una cosa è proibita più è ambita, ad esempio: più si impone ai bambini di non dire parolacce, più essi saranno tentati di dirle!
Ecco dunque svelato in tutta la sua delicatezza il gioco di equilibri e disequilibri in cui il tabù ha sia il ruolo di freno sia quello di propulsore. Il traguardo a cui ci si vorrebbe avvicinare nel superare questi limiti, è quello della libertà, ma la libertà è essa stessa un tabù molto potente: la desideriamo eppure la rifuggiamo, per paura, perché le gabbie mentali in cui stiamo sono strette – è vero – ma ci garantiscono una forma di protezione. Protezione in cambio della libertà, soprattutto quella mentale, ovvero la libertà di pensiero.
Immagino che Recalcati volesse lasciar intendere al lettore proprio questo quando ha scritto: “La trasgressione è divenuta un obbligo che non implica alcun sentimento di violazione”. E così come ho ipotizzato l’esistenza del tabù del tabù, mi sorge spontanea l’idea della trasgressione per la trasgressione, ovvero di quel desiderio, fine a se stesso, di superare i limiti per il solo gusto di farlo.
Esistono, tuttavia, anche dei casi in cui è stato superato un tabù nella sua forma di limite mentale, ma non è stato fatto nulla perché ci si liberasse – tecnicamente – del problema. Sto parlando di una differente forma di censura (più precisamente di auto-censura) che ci impedisce di manifestare apertamente pensieri considerati non conformi alla decenza o alla morale collettiva.
“Famiglia” è un argomento tabù. Se ne parla, certo, ma in quali termini? Per famiglia si continua a intendere, anzi, a sottintendere, quel nucleo sancito e legalizzato dal matrimonio e formato da un padre (uomo), una madre (donna) e almeno un figlio (o una figlia). Altrimenti si parla, al massimo, di “coppia” (o di “coppia di fatto”). Raro, ma – per fortuna – non impossibile, vedere persone che considerano famiglia una persona che vive sola insieme a uno o più animali domestici, ad esempio.
Il sesso è un tabù. Nelle scuole si studia educazione sessuale, è vero, ma orientamenti sessuali differenti da quello etero sono ancora profondamente malvisti e discriminati.
Il tabù del corpo nudo è, oggi (a differenza del passato), un tabù molto sentito. Quello del corpo maschile, soprattutto.
Strettamente legato agli ultimi due tabù citati c’è, poi, quello di alcune malattie; mi riferisco, in modo particolare, all’AIDS, ma – a ben guardare – è molto forte anche il tabù della depressione. Sono chiusure connesse alla vergogna, al senso di colpa e all’ignoranza, a mio avviso. Si sa ancora molto poco di numerose malattie perché si pensa – erroneamente – che se non se ne parla , allora non esistono. Così, anche “mestieri” come quello della prostituta si allontanano dalla nostra mente limitando la spesa di parole nei loro riguardi. Pertanto, particolare attenzione si presta anche a parole come “accompagnatrice” o “massaggiatrice” intese, oggi, come “prostitute d’alto bordo” anziché per quello che realmente significano.
A proposito di professioni ambigue, deplorevoli o poco dignitose, è doveroso menzionare anche quelle professioniste che vorrebbero veder riconosciuta la differenza di genere (ma la lingua italiana non lo consente/prevede), in contrapposizione a quelle professioniste che, con le unghie e con i denti, rifiutano appellativi quali, ad esempio: “avvocatessa” in luogo di “avvocato” o “ministra” al posto di “ministro” e così via.
Anche il tabù del desiderio è vivo più che mai. Il desiderio, in ogni sua forma, è generatore di frustrazioni. D’altronde il tabù è un impedimento e ciò che ci impedisce di fare o dire qualcosa è, molto spesso e almeno inizialmente, fonte di frustrazione. Il tabù può, in alcuni casi, denotare ignoranza oltre che paura, nel senso che chi rispetta certi limiti, in realtà, sta solo cercando protezione o riparo da cose o idee che ritiene (o che altri ritengono) pericolose, senza però curarsi di fare ricerche per conto proprio per sapere se lo sono davvero e in che misura.
Un altro tabù molto diffuso è quello dei giochi. Per bambini e per bambine. Ancora oggi è possibile leggere lo smarrimento nello sguardo di un genitore che veda il proprio figlio giocare con una bambola o la propria figlia illuminarsi per una macchinina… È da qui che, forse, nasce anche il tabù dei colori. Perché il rosa è una prerogativa delle femmine e l’azzurro dei maschi?
E ancora, il tabù dell’età e quello dell’aspetto fisico sono, oggi più che mai, all’ordine del giorno. Chirurgia estetica per assomigliare a coloro che, i media, fanno passare per “modelli di bellezza”. Quasi fosse disdicevole mostrare le rughe, i peli – chiamati, per l’appunto - superflui o  i segni del tempo sul nostro corpo.
E poi, il cibo. Se “penetrare” la bocca con cose da mangiare può non essere più un fatto scandaloso, è – invece – assolutamente impensabile (almeno per una buona parte delle persone) accettare l’idea che gli insetti costituiranno il “cibo del futuro”. Sono malviste anche le diverse inclinazioni nutrizionistiche: vegetariani, vegani, crudisti e tutti gli “alternativi”, in generale, non godono di  quella che viene definita un’alta considerazione. Spesso, a me che sono vegetariana, è stata posta una domanda che mi ha lasciata stranita: “Per necessità o per scelta?” La situazione è differente per coloro che, invece, soffrono di patologie come, ad esempio, il diabete o la celiachia: queste ultime sono ufficialmente riconosciute come malattie che necessitano di diete specifiche e, nonostante i costi proibitivi degli alimenti “speciali” di cui necessitano, non sono discriminati quanto lo sono le categorie di persone sopracitate. Almeno loro, per fortuna, non devono giustificare i regimi alimentari che seguono. E, a proposito di cibo, mi è impossibile non chiamare in causa disturbi alimentari come anoressia, bulimia e obesità, grandi ombre del nostro tempo.
Inoltre, per ricollegarmi al primo tabù citato in questo articolo (ovvero quello della morte), sento di dover annoverare l’eutanasia tra i temi più controversi della storia. L’eutanasia (in cui sono compresi sia i suoi strenui difensori sia i suoi più accaniti detrattori) rappresenta un grande paradosso, a mio avviso, in quanto tollerato nel suo opposto: l’accanimento terapeutico…

Insomma, più che per proibire, il tabù - oggi - serve a "nascondere  la polvere sotto al tappeto"...

Ma il tabù non ha solamente lati negativi. Alcuni limiti, infatti, ci permettono di rispettare (e, quindi, di non ledere) i diritti altrui. Anche se – per dirla tutta - alcuni sono solo falsi limiti, nel senso che sono stati posti perché fossero superati (fungendo da propulsori, quegli stessi propulsori di cui parlavo poc’anzi).
Ad oggi ci sono ancora tantissimi tabù in vigore, proibizioni antiche o recenti, trascinate nei secoli o nate con la nascita della modernità. Recalcati racconta la nascita e la morte (o la sconfitta) di tali tabù attraverso la narrazione degli antichi miti. “I miti del nostro tempo” di Galimberti e “I tabù del mondo” di Recalcati sembrano quasi appendici l’uno dell’altro, vicendevolmente. Entrambi, infatti, fanno riferimento ai tempi antichi per raccontarci il mondo di oggi, con le sue evoluzioni e con i suoi limiti.  I miti e i tabù sono, dunque, strettamente legati, ma di questo parleremo un’altra volta…

MEMORIE DEL SOTTOSUOLO, F. Dostoevskij, Einaudi.


Lo sfogo di un uomo che, incapace di stare al mondo, vive nelle (e delle) proprie fantasie. Padrone e – nello stesso tempo – schiavo del sottosuolo in cui è stato/si è relegato. Un martire di se stesso e della società. Un uomo pieno di contraddizioni coerenti nella loro assurdità. Un uomo i cui pregi sono difetti e i difetti sono pregi. Un uomo tormentato sia dai dubbi sia dalle certezze. Un uomo che ha deciso di raccontarsi: per giustificarsi? Per vantarsi? Per scusarsi? Sì e no. Il suo scopo consiste, più che altro, nel tentare di liberarsi dei propri difetti, raccontandoli; nel volersi alleggerire dei brutti ricordi, facendoli riaffiorare alla memoria ed espellendoli attraverso la narrazione. Un uomo sensibile e intelligente, reso “maligno” dalla propria incapacità di conformarsi al mondo circostante e – nello stesso tempo – dall’incapacità altrui di accettarlo e includerlo in quel mondo. Un uomo in grado di provare sia fierezza sia vergogna del proprio essere…
“[..] non è il caso di terminare qui le Memorie? Mi pare d’aver commesso un errore cominciando a scriverle. Per lo meno, mi sono vergognato per tutto il tempo che ho scritto questo racconto: vuol dire che questa non è più letteratura, ma un castigo emendatore”.
Il lettore non dovrebbe lasciarsi ingannare da questa apparente auto-accusa da parte del protagonista; in realtà, è presente, infatti, una sorta di sottotraccia che risponde alla domanda: “Perché quest’uomo non si adatta?” La risposta è: perché vede il mondo senza gli schemi e i preconcetti attraverso i quali gli altri vedono quello stesso mondo. È libero (e disilluso) da tutti i cliché puntualmente applicati alla vita, pertanto non c’è che un posto adatto a colui che può essere considerato un disadattato: il sottosuolo. Forse coltiva il sogno di “redimere” gli abitanti del mondo “soprastante” o forse no. Forse si sentirebbe meno solo se riuscisse, ma poi perderebbe la propria unicità, dunque la scelta ricade sul preservare quella libertà interiore che lo contraddistingue. A dispetto del (e a prescindere dal) giudizio degli altri. Lettori compresi.