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LA BELLEZZA

venerdì 15 giugno 2018

RIFLESSIONI PERSONALI SUL LIBRO "Parole O_Stili", a cura di Loredana Lipperini. Editori Laterza.



Su questo pianeta, così affollato, tante persone pensano di poter fare la differenza, tante sperano di poter fare la differenza, tante vogliono fare la differenza, mentre altrettante preferiscono rifugiarsi nell’indifferenza. La possibilità di raccontare e raccontarsi è, ormai, estesa a tutti (o a tanti), diffusa e accessibile, e ognuno sgomita per emergere, per far sentire la propria voce. Tanti (troppi, a dire il vero) non si curano delle conseguenze e adottano l’ormai vecchio e consolidato detto: “Non importa che se ne parli bene o che se ne parli male, perché l’importante è che se ne parli”. Presunzione, paura della solitudine, bisogno di attenzioni, desiderio di approvazione, senso di appartenenza, senso di giustizia, brama di potere/fama/gloria/notorietà… Sono svariate le motivazioni che spingono sempre più persone a dire la propria, soprattutto in rete. Le parole, d’altronde, stanno diventando i mezzi più potenti a nostra disposizione per comunicare. Le parole hanno surclassato perfino i silenzi e i gesti. Per questa ragione è - ora più che mai – necessaria un’“educazione” al linguaggio. E’ importantissimo prendersi cura delle parole, sceglierle e dosarle con attenzione, onestà e rispetto. Rispetto per le idee, per le persone e per le diversità. Nasce, così, il manifesto di Parole O_Stili.    [http://paroleostili.com/manifesto/]
1.    VIRTUALE E’ REALE.
Dico e scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona.
“[…] basta un niente perché una parola diventi più dura di un sasso e un’invenzione qualcosa di più vero del bisogno di respirare”.  Tommaso Pincio, Il bianco e il nero.
Siamo costantemente pervasi dal bisogno (e dall’ansia) di postare in rete ogni istante della nostra vita. I Social sono inondati di immagini, slogan, pensieri, appelli, riflessioni e sfoghi. La maggior parte di noi vive più vite in contemporanea (una per ogni profilo) dedicando grande attenzione a ritoccare foto e a scegliere frasi ad effetto affinché ottengano visibilità e consensi. Invidiamo o facciamo il possibile per renderci oggetti d’invidia da parte degli altri. Puntiamo a far colpo, in ogni caso. Tanto c’è lo schermo pronto a proteggerci. Tanto siamo al sicuro dietro un cellulare, un computer o un tablet. Purtroppo non è così, non sempre, almeno. Ciò che definiamo “virtuale” ha, molto spesso, conseguenze reali. Ogni schermo dietro il quale ci rifugiamo è un’arma a doppio taglio: da una parte può conferire sicurezza, aiutare a farsi avanti, a lanciare idee, progetti, iniziative, pensieri, ma dall’altra può isolare, facendoci precipitare in una sorta di depressione da solitudine o – al contrario - donandoci l’illusione di essere intoccabili e facendoci cadere nel tranello dell’arroganza e della presunzione. Solo perché stiamo parlando ad una videocamera o solo perché stiamo scrivendo sulla bacheca di un Social non significa che siamo autorizzati ad esternare qualsiasi cosa ci passi per la mente e in qualsiasi modo ci venga voglia di farlo! Ogni operazione che decidiamo di svolgere (online o offline) ha delle conseguenze, più o meno grandi. Quando comunichiamo abbiamo sia diritti sia doveri: il diritto di dire la nostra opinione e il dovere di accollarci la responsabilità di ciò che comunichiamo e del modo in cui lo facciamo.
Tante persone covano grandi insicurezze, hanno paura o si vergognano a mostrarsi per quello che sono e si sforzano di mostrarsi come credono che gli altri li vogliano. I profili sui Social assomigliano sempre più a maschere pirandelliane: identità sempre meno genuine e sempre più costruite. Quel che dovremmo ricordarci è che non possiamo piacere a tutti e che – anche se viviamo nell’era dell’ “approvazione a tutti i costi” – ognuno ha il diritto e il dovere di mantenere la propria identità e la propria genuinità.
2.     SI E’ CIO’ CHE SI COMUNICA.
Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano.
“La presunzione di essere decisivi, e finali, solo perché ci riteniamo così. Solo perché non troviamo noi, proprio noi: al centro costante delle nostre stesse vite, le parole giuste per raccontarci chi siamo”.
“Le parole; le parole che contano sono come proiettili d’argento sospesi a mezz’aria: rigorose soprattutto quando colpiscono il bersaglio, se sono nate per uccidere, o far uccidere: per morire loro stesse prima di raggiungere l’obiettivo, perché erano sfocate, sbagliate”. Giordano Meacci, Io sono il diavolo.
Scegliere le parole accuratamente non significa plasmare il nostro pensiero affinché si adegui a ciò che gli altri si aspettano da noi, ma dotare il nostro pensiero dell’ “abito” adatto (ovvero delle parole giuste) per mostrarlo in pubblico; vestirlo di chiarezza, semplicità, correttezza, autenticità, sincerità e buona educazione. Ciò che diciamo non può prescindere dal modo in cui lo esprimiamo, ma le idee devono mantenere/garantire l’autenticità del nostro pensiero. E’ necessario scegliere le parole giuste per rappresentare ciò che pensiamo e non plasmare il pensiero perché si adatti alle parole.  E’ facile cadere nelle contraddizioni e nell’incoerenza; è facile essere travisati, male interpretati, incompresi, equivocati, fraintesi, ed è proprio per questo che è indispensabile prestare la massima attenzione al modo in cui ci esprimiamo.

3.     LE PAROLE DANNO FORMA AL PENSIERO.
Mi prendo tutto il tempo necessario a esprimere al meglio quel che penso.
“[…] non riesce a scacciare via l’immagine della bambina che sorride schioccando la lingua e pronunciando parole prive di suono, tutte mentali, fatte del suono della mente. Lo scrittore si scuote a ogni sillaba: è impotente davanti alle parole, come qualunque scrittore. La mente è un web che preesisteva”. Giuseppe Genna, Gli ultimi giorni dell’umanità.
Quante volte ci è capitato di provare una sensazione o – addirittura – un sentimento e non trovare le parole per esprimerlo? Allora ci affanniamo a cercare il termine giusto, quello che più sia adatta al nostro sentire. In questo modo, senza che ce ne rendiamo conto, senza esserne consapevoli, mettiamo in ordine i pensieri. Come dicevo poc’anzi non si dovrebbe adattare il pensiero alle parole, bensì le parole al pensiero: questa pratica – però – è difficile da attuare in quanto, a volte, ci troviamo a fare i conti con una opprimente povertà di linguaggio che, inevitabilmente, ci fa scendere a compromessi. Come mai tanta penuria di termini? Le ragioni sono molteplici:
- Ogni lingua è dotata di un vocabolario che è in grado di esprimere molto bene alcuni concetti a discapito di altri;
- Ignoranza/insipienza e pigrizia;
- Il bisogno di sentirsi parte di un gruppo o di una comunità porta, a volte, le persone a usare solo alcuni vocaboli. Si vedono fiorire, in tali circostanze, espressioni gergali, dialettali o – addirittura – neologismi.

4.     PRIMA DI PARLARE BISOGNA ASCOLTARE.
Nessuno ha sempre ragione, neanche io. Ascolto con onestà e apertura.
“ - Senta, ho l’impressione che questa telefonata sia cominciata proprio male.
  - Se non le ho ancora detto perché l’ho chiamata.
  - Se le dicessi che non m’interessa saperlo?
  - Le risponderei che sta facendo un grandissimo errore, perché se mi ascolta capirà che quello che voglio dirle è prezioso”.
“Lei non regge il confronto dialettico, la disturba essere contrariato perché pensa di essere al di sopra del dibattito”. Diego De Silva, Lievitazione.
“Nessuno ha la verità in tasca”, come si suol dire. C’è sempre da imparare perché ognuno di noi è sia maestro sia allievo e se ci fermassimo alla prima risposta che riteniamo valida (di solito, la nostra) smetteremmo di crescere come individui e inizieremmo a morire dentro. E’ cruciale mantenere vivo l’intelletto per non farsi ingabbiare in schemi di pensiero limitanti e inamovibili. Per essere pronti al dialogo non basta mettere in discussione: bisognerebbe, innanzitutto, metterSI in discussione. Ci saranno occasioni in cui ci batteremo per difendere un’idea o un’ideale che riteniamo particolarmente valido e volte in cui ci sentiremo in disaccordo con i pareri degli altri: quando si esprime un pensiero ad un pubblico è naturale che quel pubblico si senta in diritto di dire la propria, di controbattere, di approvare o – al contrario – di confutare quel pensiero. L’importante è ascoltare. Prima e dopo. Pregiudizi e preconcetti sono come i paraocchi per i cavalli: ci impediscono di vedere più di quanto potremmo. Al contrario essere aperti e disponibili al confronto è un buon modo per accorgersi del mondo circostante, delle alternative, delle sfumature, delle opportunità e delle possibilità che abbiamo intorno. Arroccarsi sui propri principi, abbarbicarsi ai propri schemi di pensiero non permette di crescere mentalmente/intellettualmente e spiana il terreno all’ottusità; e quest’ultima è spesso foriera di cinismo, ipocrisia, arroganza e antipatia. Cambiare idea, al contrario, non è segno di debolezza mentale, bensì di apertura, elasticità e intelligenza. Condannare o etichettare qualcuno - o addirittura noi stessi – perché si è cambiata l’opinione su qualcosa è insensato. Resta il fatto che imparare a pensare – ognuno con la propria testa – è indispensabile. Anche prendere in considerazione le idee di qualcun altro o persino farle proprie va benissimo, purché lo si faccia scientemente e senza condizionamenti o forzature dovute ad una nostra incapacità di criticare. A questo proposito è bene spendere qualche parola sul significato del termine “criticare”. Letteralmente corrisponde a questa definizione: attività del pensiero impegnata nell'interpretazione e nella valutazione del fatto o del documento storico o estetico o delle stesse funzioni e contenuti dello spirito umano, dal punto di vista gnoseologico e morale. Nel linguaggio corrente, tutto questo si è contratto assumendo il significato di “biasimo” e “censura”. Dove sono finite le attività di pensiero e di discernimento?
5.     LE PAROLE SONO UN PONTE.
Scelgo le parole per comprendere, farmi capire, avvicinarmi agli altri.
“Aspettavo che si addormentasse per affrontare l’i-Phone, il migliore amico mutato in serpente a sonagli”. Helena Janeczek, Castelli e ponti.
Le parole sono – unitamente al linguaggio corporeo (comunicazione non verbale) e ai silenzi – il nostro più potente mezzo di comunicazione, ma hanno un grande difetto: quando sono scritte, non sempre riescono ad esprimere il “tono”. Un’affermazione neutra può facilmente essere percepita come offensiva, l’ironia può essere avvertita come sarcasmo o una battuta che voleva essere amichevole può – in alcuni casi – essere scambiata per scherno o insulto. Per limitare le conseguenze di questo problema spesso facciamo uso delle emoticon, ma non possiamo affidarci sempre e soltanto ad esse. Sfidiamo la pigrizia e iniziamo a curare il nostro vocabolario, la nostra proprietà di linguaggio e sforziamoci di analizzare e scegliere con cura le parole: questa pratica richiederà tempo e impegno, ma solo in questo modo potremo davvero costruire e intrecciare relazioni solide basate sul dialogo sincero, sulla comprensione e sul rispetto.
6.     LE PAROLE HANNO CONSEGUENZE.
So che ogni mia parola può avere conseguenze, piccole o grandi.
“Non c’è niente di sexy nell’ordine. […] Che idiozia scrivere un post del genere. Ma come le è venuto in mente?” Alessandra Sarchi, Estensioni.
Le parole sono una forma di contatto e hanno un peso specifico che si misura valutando l’impatto che esse– di volta in volta – potrebbero avere all’interno di una conversazione. Le parole ci mettono in collegamento coi pensieri degli altri e dobbiamo prendere coscienza del fatto che – a seconda di come vengono utilizzate – possono influenzare, ferire o, al contrario, lenire. Con le parole esprimiamo i pensieri che albergano nella nostra mente ed esterniamo i sentimenti che campeggiano nel nostro cuore. Palesiamo opinioni e giudizi che – per loro natura – sono estremamente pericolosi. Per noi e per gli altri. Esprimendo a parole ciò che sentiamo, ci esponiamo.
Sempre più spesso possiamo assistere o – Dio non voglia – essere vittime del cosiddetto cyber-bullismo, ovvero quella forma di violenza virtuale che ha le stesse conseguenze (se non conseguenze peggiori) della violenza fisica. Minare la psiche delle persone è molo semplice; fare leva sui punti deboli degli altri è crudele e abominevole. Siamo tutti vulnerabili - in rete e non solo - ancora una volta per quell’ambivalenza propria della tecnologia, la quale è in grado di conferire un grande potere a chi la sa sfruttare, ma che – allo stesso tempo – non è in grado di proteggere i più deboli. E’ assolutamente necessario educare al rispetto.
7.     CONDIVIDERE E’ UNA RESPONSABILITA’.
Condivido testi e immagini solo dopo averli letti, valutati, compresi.
“Nessuno di loro immaginava che ciò che stavano facendo, diffondendo una notizia falsa, era inserire dei proiettili veri dentro un fucile vero che un uomo vero avrebbe imbracciato la mattina del 4 dicembre”. Fabio Geda, Pizzagate.
Ci sono tantissime persone che commentano i post in rete senza averli letti nella loro interezza; persone che mettono il “Mi piace”/”Non mi piace” prima di aver visto un video (o senza averlo visto) andando sulla fiducia o – al contrario – lasciandosi prendere la mano dal pregiudizio. Poi ci sono persone che condividono/divulgano informazioni senza averle minimamente comprese o senza essersi assicurati che corrispondessero alla realtà dei fatti. Spesso (non sempre, per fortuna) l’immediatezza, la brevità e l’impatto visivo “vincono” sull’approfondimento e sull’argomentazione. Le immagini ottengono maggior successo rispetto alle parole e le frasi brevi e concise fanno a pugni con gli articoli composti da più di due o tre righe. Tutto è studiato per attirare l’attenzione, per colpire. La fretta e la pigrizia si sposano con la superficialità e la conseguenza è il dilagare delle fake-news (= notizie false).
Il più delle volte non ci rendiamo conto delle responsabilità di cui siamo investiti nel momento in cui decidiamo di  condividere/divulgare una notizia o un’informazione di qualsiasi tipo: possiamo contribuire al successo o all’insuccesso di un evento, di una persona, di un’idea o di un’attività; possiamo difendere e scagionare  oppure screditare; favorire o sfavorire le vendite di determinati prodotti; diffondere panico e allarmismi o – al contrario – minimizzare o sminuire la gravità di certi accadimenti; possiamo calunniare e diffamare e – in casi estremi – istigare al suicidio  o all’omicidio. Sottovalutando le nostre potenzialità sottovalutiamo anche le nostre responsabilità e questo non è ammissibile!
8.     LE IDEE SI POSSONO DISCUTERE. LE PERSONE SI DEVONO RISPETTARE.
Non trasformo chi sostiene opinioni che non condivido in un nemico da annientare.
“[…] possiamo discutere senza litigare”. Nadia Terranova, La felicità sconosciuta.
“Il mondo è bello perché è vario”, si dice. Eppure vediamo nemici ovunque, temiamo la concorrenza, siamo terrorizzati che gli altri facciano crollare le nostre certezze come castelli di carte, ma dovremmo imparare che difendere le nostre opinioni non significa prevaricare le idee degli altri. E’ molto meglio considerare la diversità una ricchezza piuttosto che una minaccia!
9.     GLI INSULTI NON SONO ARGOMENTI.
Non accetto insulti e aggressività, nemmeno a favore della mia tesi.
“Solo se riconosciamo la violenza possiamo contrastarla”. Christian Raimo, Bifida.
Ormai è un must: attacchiamo prima di essere attaccati per paura di non avere modo di difenderci, ma l’attacco non è la miglior difesa!
La violenza verbale non è una prerogativa dei forti, semmai una corazza dei deboli, intendendo con “deboli” coloro che sono vittime dell’insicurezza e della paura. Queste ultime, infatti, possono manifestarsi in molti modi: c’è chi attua un attacco preventivo e chi s’immobilizza; c’è chi aggredisce verbalmente e chi si sente morire le parole in gola. Ricordiamoci che si possono avere tutte le ragioni di questo mondo e tutte le prove a proprio favore, ma usare queste cose nella maniera sbagliata conduce inevitabilmente dalla parte del torto. Quello che prevede la violenza come argomentazione non si può chiamare ragionamento!
E’ un’utopia estirpare la rabbia e l’indignazione dalle nostre vite, ma sfogarle attraverso gli insulti e l’aggressività (per difendere o per attaccare), difficilmente porta a lieti epiloghi… E’ meglio favorire il dialogo, la critica costruttiva, lo scambio di idee, piuttosto che ingaggiare attaglia a suon di insulti.
10.                        ANCHE IL SILENZIO COMUNICA.
Quando la scelta migliore è tacere, taccio.
“Ora c’è il tempo per trovare le parole, per fare quel silenzio, dentro, che occorre per far nascere immagini, pensieri, visioni nuove, soluzioni, la calma che ti serve per ricominciare a correre, insieme agli altri”. Simona Vinci, Dead End.
A volte la cosa più saggia che si possa fare è esprimere la propria opinione mantenendo il silenzio. Effettuare una “disintossicazione” dalle parole, all’occorrenza, è utile e sicuramente preferibile all’aprire la bocca a casaccio, soltanto per il gusto di dire qualcosa.

Un libro prezioso.

Lascio qui sotto il link, per tutti coloro che vorranno approfondire il progetto di Parole O_Stili:

 http://paroleostili.com/

mercoledì 23 maggio 2018

MINI-POST su "Una donna" di Annie Ernaux, L'Orma Editore.


“Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui provengo”.
Con Una donna Annie Ernaux ha voluto onorare la figura di sua madre, renderle omaggio ricostruendone la storia, la vita. La scrittura, per questa autrice, è catartica e ben si presta ad esorcizzare il dolore causato dalla perdita di un genitore.
“Non ho detto a nessuno che sto scrivendo su mia madre. Ma non sto scrivendo su di lei, piuttosto ho l’impressione di vivere assieme a lei in un tempo, in luoghi, in cui è ancora viva”.
 Quel dolore che è simile a una pugnalata: improvviso, acuto, insopportabile. Quel dolore che nasce ogni volta che alla mente si affaccia il pensiero, il ricordo, la consapevolezza di aver perso una persona cara. Quel dolore spiazzante, annichilente, dato dall’assenza definitiva della donna più importante nella vita di ogni individuo. Perché, se è vero che la mamma è sempre la mamma, è pur vero che una mamma – prima di essere una mamma – è una donna; una donna con la propria storia, il proprio passato, la propria vita alle spalle.
“Questa sensazione, nella quale la presenza illusoria di una madre è più forte della sua assenza reale, dev’essere la prima forma dell’oblio”.
A volte è difficile analizzare i propri genitori, contestualizzarli anche - e soprattutto - nei periodi della loro vita in cui noi figli non c’eravamo ancora o eravamo troppo piccoli per ricordarcene, ma bisogna ricordare che ogni individuo recita numerosi ruoli durante il corso della propria esistenza, ha molte “maschere” che indossa a seconda delle necessità. Annie Ernaux sviscera in modo magistrale queste sfaccettature della madre e analizza anche se stessa in rapporto a quelle “maschere” di cui parlavo poc’anzi. E’ interessante notare anche come – attraverso la narrazione della vita della madre – Annie Ernaux riesca a raccontarci perfino il modus vivendi degli anni in cui la madre era giovane: la povertà, l’indigenza, la severità e il rigore erano all’ordine del giorno, ma prima di ogni cosa lo era la dignità.
E’ semplice e naturale cedere all’empatia, leggendo le parole della Ernaux. Annie ci racconta quanto sia straziante vedere la propria madre logorata dall’Alzheimer, malattia che – per sua natura - è solita ledere l’identità e la dignità di chi ne è affetto. La scrittura diventa, pertanto, un grido, un’esplosione che libera la tensione e il dolore accumulati nel tempo.
Un libro magnifico, un’esortazione a godere appieno di ogni istante che possiamo trascorrere in compagnia dei nostri cari.

martedì 22 maggio 2018

"L'UOMO DEI BOSCHI" di Pierric Bailly, Edizioni Clichy.


Ogni mondo è fatto di persone, di cose, di accadimenti (passati, presenti e futuri), di esperienze. Ogni persona ha il PROPRIO mondo. Ogni mondo si interseca con altri mondi, tanti piccoli mondi che – unendosi – vanno a formare IL mondo. I genitori fanno inevitabilmente parte del mondo dei loro figli e viceversa, ma nessuno arriva mai a conoscere per intero il mondo di qualcun altro; né durante la vita né dopo la morte. Pierric Bailly racconta il proprio padre, ne ricostruisce la vita a partire – paradossalmente – dalla morte. Un elogio funebre? Non proprio, non soltanto. L’uomo dei boschi è anche un inno alla vita. E alla natura. L’uomo dei boschi racconta il rapporto tra l’uomo e la natura, tra un padre e un figlio e tra i vivi e i morti.
Il rapporto uomo-natura, in questo libro, è fitto quanto lo sono le fronde e le radici degli alberi di un bosco. E quando parlo di radici intendo sia in senso fisico, letterale del termine, sia in senso figurato. Le radici possono rappresentare, in fondo, anche il nostro passato, le nostre origini e – in senso più lato – i nostri genitori. L’uomo e la natura hanno in comune molte  cose. Innanzitutto hanno entrambi una doppia valenza, una sottile ambiguità: come il primo racchiude in sé una parte di “luce” e una di “ombra” così anche la seconda si fregia sia di un lato materno, bonario, accogliente e magico, sia di un lato duro, selvaggio, impenetrabile e impietoso. Viene da chiedersi: siamo noi a rispecchiare la natura o è la natura che rispecchia noi?
L’ambiguità della natura, in questo caso, viene presa in esame da Bailly per sottolineare il carattere ambiguo del padre, Christian: bellissimo e socievole eppure isolato, riservato e selvaggio. Magico e incantevole eppure sinistro e inquietante. E’ strano, se ci si pensa, ma spesso si arriva a capire l’importanza, il valore dei luoghi e delle persone solo quando ci si allontana da essi. Non è raro sentire storie di individui che hanno iniziato a provare un forte senso di appartenenza ad un Paese soltanto dopo averlo lasciato… A volte, addirittura, pensiamo di conoscere bene certi luoghi o certe persone per poi scoprire, con grande sorpresa – e forse anche un po’ di frustrazione – che non è affatto così. Dovremmo rassegnarci al fatto di non poter conoscere davvero nessuno, neppure i nostri genitori; ciò che possiamo fare – ed è ciò che fa anche Pierric Bailly in questo libro – è ricostruire le vite dei nostri cari, ormai scomparsi, attraverso i ricordi che abbiamo di loro, attraverso l’analisi degli oggetti che hanno posseduto, allo studio dei libri che hanno amato, all’ascolto della musica che essi stessi hanno ascoltato e alle testimonianze delle persone che li hanno incrociati sul loro cammino. E, poiché ogni individuo possiede un’enorme complessità di carattere, tutti, in fondo, hanno bisogno degli altri per scoprire un po’ di se stessi.
“Mi sono detto che uscendo da se stessi ci si assume il rischio di trovare qualcosa”.
E, infine, la morte. Bailly ce ne parla a suo modo, perché ognuno vive l’esperienza della morte a modo proprio. Ognuno affronta questo evento con le armi che ha a disposizione, ma il denominatore comune è che chi resta deve andare avanti, in qualche modo:
“Gli amici e la famiglia tentavano di riprendere la loro vita. Per alcuni di loro era accaduto qualcosa di molto importante, che poteva essere uno sconvolgimento. Per me era evidentemente così.
Se la perdita di un genitore, in sé, è un evento eccezionale, si può anche dire che è nell’ordine delle cose, un fatto banale. In questa storia ciò che lo è meno sono le circostanze”.
Proprio così. Spesso ci importa più di come le persone sono morte che di come hanno vissuto. Siamo attratti da quell’alone di mistero che circonda coloro che non ci sono più e, in tal senso, questo libro può essere considerato un giallo: sarà compito del lettore decidere il punto di vista da assumere per osservare le vicende. Si potrà “schierare” dalla parte in cui i protagonisti sono i fatti, le circostanze, o da quella in cui sono i sentimenti a dominare la scena. Dal canto suo, Pierric Bailly proverà entrambe le condizioni, per poi approdare definitivamente alla seconda:
“Cerco di accettare ciò che non si spiega. […] Ma cerco soprattutto di crederci. Cerco di accettare che sia veramente successo, che non ho sognato quella settimana folle e drammatica, che malgrado il tenore romanzesco degli eventi, questi non appartengono al campo della finzione letteraria, ma proprio a quello della realtà”.
La morte è un fatto reale tanto per chi muore quanto per chi resta, ma rimane comunque un grande mistero capace di scatenare le reazioni e i sentimenti più disparati. Sotto questo aspetto ha, sicuramente, molto in comune con la natura: entrambe, infatti, sono misteriose, non contemplano il perdono e non fanno sconti ad alcuno. Sanno essere discrete, quasi delicate o vestite di magnanimità, ma anche crudeli e spietate. Di entrambe si dice spesso: “è così che va”. Già… E’ la vita; è la natura; è la morte. Il principio e la fine, sempre che si creda che le cose inizino e finiscano. Per quel che mi riguarda (e – a quanto pare – per quel che riguarda anche Pierric Bailly) la morte non pone la parola “fine” a niente:
“La vita dopo la sua morte, la vita a partire dalla sua morte. Perché se n’era andato proprio all’inizio. E’ il concetto della morte. Una vita si ferma, è la fine della storia. Ma la morte genera una nuova storia, di cui il defunto è il fattore scatenante, e di cui non ha conoscenza”.
C’è una sorta di “coerenza”, di continuità tra la vita e la morte, un filo invisibile che le collega. E’ una continuità che si plasma attraverso il passaggio da una generazione all’altra; una continuità che, però, incoraggia e preserva le differenze tra una e l’altra. In questo caso, tra un padre e il proprio figlio.