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LA BELLEZZA

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martedì 25 febbraio 2020

I DEMONI DEL NOSTRO TEMPO



La paura e i suoi “cibi” prediletti costituiscono i “demoni” del nostro tempo, ovvero quelle carenze o – al contrario – quegli eccessi – a livello dei centri energetici detti “chakra”. Nell’articolo che segue sono presenti alcuni dei “mali” che ci affliggono e qualche consiglio su come tenere a distanza il peggiore di essi: la paura.
 
Nel suo libro sui chakra, Anodea Judith utilizza la parola “demoni” per indicare i fattori frenanti della nostra crescita fisica e spirituale. Sono fattori individuali, ma anche societari in quanto possono riguardare sia i singoli individui sia le masse: cosa sono, infatti, le masse se non insiemi di individui? Secondo l’autrice, tali blocchi sono sette, ovvero uno per ogni centro energetico. Personalmente, concordo con l’ipotesi secondo la quale ogni chakra avrebbe un blocco specifico, ma sento comunque il bisogno di approfondire la questione a modo mio.
Il demone del primo chakra è la paura, ma – a mio parere – la paura accomuna tutti e sette i centri energetici. Questo blocco è dovuto a una scarsa conoscenza di noi stessi e all’assenza di relazioni profonde (con noi stessi e con gli altri). Ne consegue una sensazione che assomiglia alla mancanza di terra sotto ai piedi; non riusciamo a sviluppare o – al contrario – tendiamo a sovrasviluppare il radicamento con la materia, che è la nostra primaria fonte di energia. Mentre pensavo a come strutturare questa sezione sul primo demone, mi sono venuti in mente gli uomini primitivi: avevano paura, quando cacciavano? E – se sì – era paura di morire per i colpi dell’animale o paura di morire di fame nel caso in cui la caccia non fosse andata a buon fine? La risposta, forse, è che non avevano neppure il tempo di provare paura e – se mai si fossero concessi il “lusso” di averne – probabilmente ne sarebbero rimasti paralizzati e il rischio di morire sarebbe aumentato esponenzialmente. Oggi, invece, il nostro meccanismo di attacco/fuga è sempre attivo e questo ci porta ad impiegare male la nostra energia, a dirigerla verso gli scopi sbagliati e a sprecarla. E il coraggio non è la risposta alla paura. Perché? Perché il coraggio del nostro tempo non è “vero” coraggio. È una tendenza diffusa, ormai, quella di scambiare atteggiamenti altezzosi, spavalderia, spocchia, boria o alterigia per coraggio, ma questi comportamenti sono spesso delle corazze dentro cui ci barrichiamo quando ci vergogniamo di mostrare la nostra sensibilità. L’ossessione di essere considerate persone forti e potenti prende il sopravvento sul bisogno di lasciarsi andare all’indulgenza, e la paura che gli altri abbassino il livello di stima nei nostri confronti fa sì che si produca uno squilibrio nel primo chakra. Tale immagine illusoria e distorta, in contrasto con le nostre sensazioni autentiche, ci porta al demone del secondo chakra: il senso di colpa. Il senso di colpa è la paura di essere sbagliati, la paura di non rispondere ai canoni che la nostra società ci impone. È strettamente collegato alla vergogna (demone del terzo chakra) poiché entrambi ci fanno credere che  ciò che proviamo sia sbagliato o – addirittura – non sia lecito. Temiamo le ripercussioni che potrebbero avere su di noi le sensazioni che proviamo e – complice un grave impoverimento della lingua italiana – non sappiamo neppure dare un nome al nostro sentire. Coviamo la paura di essere derisi o allontanati dal gruppo o dai gruppi a cui apparteniamo, che siano essi la famiglia, la comunità religiosa, i colleghi d’ufficio o la compagnia di amici, poco importa, ciò che temiamo è di perdere quei privilegi legati al gruppo (protezione, approvazione, consensi, ecc.) e di rimanere soli. Questo accade anche perché abbiamo un’idea errata di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Giusto e sbagliato, infatti, non indicano necessariamente lecito e illecito in quanto i primi due riguardano leggi naturali, mentre gli altri due sono legati a leggi artificiali (e, in alcuni casi, artificiose), cioè create dall’uomo. Le regole della specie si scontrano con le regole della società che non tengono conto di emozioni e sensazioni… E qui entra in gioco il giudizio. Abbiamo conferito a delle autorità il compito ingrato, pericoloso e – lasciatemelo dire - praticamente impossibile di giudicare il nostro operato di cittadini, perché temevamo che regolandoci sulla base delle sole leggi naturali saremmo state creature crudeli e avremmo fatto cose orribili, essendo fuori controllo. Ma siamo sicuri che ciò che viene giudicato giusto sia giusto in assoluto e che ciò che viene giudicato sbagliato lo sia in assoluto? Il giudizio è un’arma a doppio taglio: c’è chi sale in cattedra per giudicare perché pensa che, così facendo, sarà “immune” dal giudizio altrui e c’è chi non lo fa, proprio per lo stesso motivo, cioè per la paura di essere sottoposto a giudizio. E il giudizio può arrivarci da altri, ma anche da noi stessi, pertanto incute ancora più timore! Per questo timore mettiamo a tacere persino il gusto personale, provando vergogna per ciò che desideriamo e senso di colpa per il solo fatto di desiderarlo. Tutto ciò ci porta ad eliminare il desiderio dalla nostra vita, a soffocarlo per paura della sofferenza, comportamento – questo – che produce grande frustrazione. Così raccontiamo e ci raccontiamo bugie, mentiamo a noi stessi e agli altri, per paura della verità, e negli altri ci rispecchiamo, vedendo menzogne ovunque. È proprio così: la verità terrorizza quanto la menzogna; vogliamo sapere, ma temiamo di sapere; temiamo le bugie, ma siamo i primi a dirle, se non agli altri, quantomeno a noi stessi. È il demone del quinto chakra, la bugia; è quel nodo in gola che sentiamo quando non possiamo o non vogliamo dire qualcosa o – al contrario – è quella logorrea inarrestabile che ci fa assomigliare ad un fiume in piena…
E, se parliamo di desideri, non possiamo non fare una distinzione tra desideri e bisogni: il desiderio è ciò che vuoi perché ti piace, mentre  il bisogno è ciò che vuoi perché ti serve. In quest’ultimo caso, in particolare, la nostra attenzione si concentra sulla mancanza e sul verbo “dovere”. Chiarissimi i motti con cui erano scandite le mie giornate da bambina: “Prima il dovere e poi il piacere” e “L’Erba Voglio non cresce neanche nel giardino del Re”. Purtroppo, tra i desideri, ci sono quelli autentici e quelli indotti: i primi contengono quelle cose che vogliamo a prescindere dalle influenze esterne, i secondi – invece – ci vengono inculcati dalla pubblicità e dal mercato, attraverso la creazione del bisogno. E diventiamo incapaci di distinguere il bisogno dal capriccio, il necessario dal superfluo e – per estensione – anche tutto ciò che riguarda i diritti viene inficiato dal condizionamento esterno. A proposito di desiderio è poi importante menzionare anche quella particolare forma di desiderio che si sviluppa per la paura della perdita: si tratta del demone del settimo chakra, ovvero il demone dell’attaccamento. Provoca il bisogno di accaparramento o – nei casi che riguardano le relazioni umane – la dipendenza affettiva. Per coloro che si lasciano soggiogare da questo demone, la paura dell’abbandono è fortissima: queste persone non riescono a disfarsi di ciò che possiedono, non sanno lasciare/si andare, oppure temono di essere lasciati soli. Chi è preda di uno squilibrio nel settimo centro energetico  potrebbe dunque avere difficoltà nell’essere autonomo e probabilmente non sa distinguere il confine tra penuria e abbondanza, tra povertà e ricchezza. Persino la paura dell’oblio rientra, secondo me, nel raggio d’azione di questo demone: oggi più che mai bramiamo la notorietà, la fama e – perché no? – la cosiddetta “gloria” e temiamo  di essere invisibili o di essere dimenticati.
 Un po’ del settimo e un po’ del terzo demone ha, invece, la paura di perdere il controllo, per via  di una intrinseca/implicita ossessione  nei confronti dei confini. Il dilemma è atroce: difesa dei confini contro desiderio di espansione! La seconda opzione porta con sé molti vantaggi, tra i quali figurano la crescita interiore e l’aumento di “potere”, ma sussiste anche la possibilità che tali vantaggi degenerino in sete di dominio o manie di controllo. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che in ogni istante della nostra vita siamo – contemporaneamente – carcerieri e carcerati di noi stessi (e degli altri, in qualche modo). Ci hanno insegnato, fin da quando eravamo piccoli, che dobbiamo controllarci, contenerci, dominarci. L’unica strategia (inefficace e deleteria) che abbiamo sperimentato per arginare questo fenomeno di autocontrollo è quella che prevede il dominio degli altri perché speriamo sempre che, così facendo, loro non controllino noi (come in una sorta di attacco preventivo). Temiamo la disobbedienza (nostra e altrui) perché essa rappresenta una forma di libertà; temiamo la trasgressione perché, come dice la parola stessa, ci porterebbe “oltre”, in un territorio a noi sconosciuto, forse oltre i nostri limiti, al di là del nostro ristretto mondo mentale…
In tutto questo mio peregrinare, però, non mi sono dimenticata del demone del quarto chakra: il dolore. Nell’epoca degli analgesici, non è tanto il dolore fisico che ci fa paura, quanto quello dell’anima. La sofferenza, la tristezza, la depressione, sono tutti demoni caratteristici del nostro tempo, e dalla ricerca della vera felicità allo stordimento/ottundimento dei sensi ad opera di palliativi/anestetici inutili e pericolosi (come alcool e droghe) il passo è breve, purtroppo. Dov’è finita l’unica “droga” veramente efficace, ovvero l’amore?
Per quanto riguarda, invece, il demone del sesto chakra (l’illusione), possiamo dire che il suo “cibo” prediletto è l’ossessione. Più o meno a tutti sarà capitato, almeno una volta nella vita, di avere un’idea fissa in testa, ecco, quell’idea ha il potere (se lasciata agire indisturbata) di condizionare molte delle nostre scelte/azioni quotidiane. Ci convinciamo di qualcosa, non importa di che cosa, e non siamo più in grado di vedere il mondo fuori da quella interpretazione.
Altri blocchi/eccessi che, secondo me, andrebbero annoverati tra i demoni sono: l’ansia, la già citata libertà (vs schiavitù), il fallimento e il suo opposto (il successo), il tempo e l’ozio con il suo contrario, ovvero la produttività; e, per chiudere, il demone della rabbia e quello del silenzio/rumore.
Vittime dell’ansia (soprattutto quella da prestazione), viviamo ogni nostro fallimento (ovvero ogni caduta), piccolo o grande che sia, come una personale inadeguatezza alla vita, alimentando – in tal modo – il senso di colpa. “Ho fallito” non equivale a “sono un fallito”: ricordiamocelo! E, se proprio dobbiamo rincorrere degli obiettivi, facciamo almeno in modo che siano i nostri sogni e non quelli di altri…
Questo ci porta alla famigerata libertà: essere liberi significa non avere condizionamenti (esterni o interni), ma anche assumersi tutte le responsabilità delle proprie azioni. La libertà fa paura perché così come ci permette di fare ciò che è meglio per noi (nel rispetto della libertà altrui), ci scarica addosso tutto il peso di ciò che facciamo (nel bene e nel male)! In questa società, in cui abbiamo barattato la nostra libertà con un illusorio stato di sicurezza, abbiamo perso anche un’altra cosa: il potere. Il potere delle decisioni e dell’autonomia con tutto ciò che esse comportano.
Proprio così, abbiamo perso il potere e siamo diventati vittime del suo opposto, ossia il demone dell’impotenza, non tanto quella legata alla virilità (ancora oggi, nel 2020, un tabù) quanto quella umanitaria. Quando notiamo qualcosa che non va, nel nostro piccolo o su più vasta scala, non siamo in grado di contrastare quel qualcosa. Il potere, per contrasto, è un modo per fronteggiare i problemi, ma – soprattutto – un modo per decidere cosa è meglio per noi.
“Il potere non è una cosa, ma un modo […] Possediamo potere quando osiamo vivere in modo autentico, quando entriamo in noi stessi e diciamo la nuda verità. Più osiamo assumerci dei rischi, porci in discussione o resistere alla pressione di andare contro i nostri sentimenti, più facile diventa. Il potere giunge quando siamo disposti a compiere degli errori e ad assumercene la responsabilità, a imparare da essi e a correggerli […] Il potere è la capacità di determinare il nostro destino”. [Pp. 225 e 226 de “Il libro dei chakra”].
“L’autorità ci solleva dalla responsabilità di un’azione indipendente”. [Cit. Starhawk, da pag. 244 de “Il libro dei chakra”].
“[…] viviamo col vuoto dentro. Essendo vuoti dentro, il nostro mito culturale ci dice che la potenza sta al di fuori di noi, nell’approvazione degli altri, nei gadgets tecnologici o in un dio lontano e autoritario. E così impoveriamo noi stessi, le nostre risorse e il nostro pianeta, cercando di raggiungere un potere esterno, un potere su qualcuno, un potere che ci renderà solo schiavi”. [Pag. 244 de “Il libro dei chakra”].
Confondiamo troppo spesso il potere con il dominio, dimenticando che il potere è un mezzo, mentre il dominio è un fine, solitamente poco nobile.
Ricapitolando, essere liberi significa avere il potere di decidere cosa sia meglio per noi, in autonomia e senza il condizionamento (implicito o esplicito) di una qualsiasi autorità a noi esterna.
Ma veniamo alla rabbia. Può scaturire da un rifiuto, dalla sopracitata impotenza, dalla disperazione, dall’indifferenza altrui, dalla frustrazione o da molte altre cose. Di solito, il mondo si divide in coloro che la sfogano in maniera distruttiva, in quelli che la convogliano in un progetto costruttivo e in coloro che la trattengono, trasformandola in rancore o – addirittura – in vendetta. È spesso equiparata all’ira o alla collera, ma – in realtà – è un’evoluzione (in negativo) di queste due emozioni che, invece, sono foriere di reazioni pressoché immediate a quella che consideriamo un’ingiustizia. Ecco, la rabbia è quel che ci avviluppa se non esprimiamo subito il nostro dissenso. Si vede più rabbia che ira, ultimamente, soprattutto sui social. La paura di sfogarci ci fa trattenere e il trattenerci ci fa – per dirla in modi figurati - “rodere il fegato” o “ci fa venire il sangue amaro”. E d’altronde i detti popolari hanno sempre un fondo di verità: il fegato, infatti, produce la bile (altro modo per definire la rabbia), un liquido giallo, dal sapore amaro. [Si dice anche: “Rodersi dalla bile”].
E poi c’è il tempo. Siamo ossessionati dall’idea di non avere tempo, eppure lo sprechiamo in tutti i modi possibili. La tecnologia, a tal proposito, ci ha fatto tanti doni, ma noi li abbiamo impiegati e continuiamo a impiegarli in maniera impropria, impedendoci di vivere serenamente ogni istante. Come strani carcerati o ladri maldestri, ci illudiamo di poter rubare tempo al tempo, ritagliandoci qualche ora di libertà tra una prigionia e l’altra, riducendoci a vivere soltanto una manciata di minuti alla settimana. Se e quando riusciamo a concederceli…
Strettamente legati al tempo e all’ansia da prestazione ci sono, poi, il demone dell’ozio e quello della produttività. Due concetti agli antipodi eppure così vicini nelle loro conseguenze estreme: entrambi possono sfociare in un profondo nichilismo, visto come annientamento della personalità. La noia improduttiva e l’eccessiva attività sono parimenti deleterie per l’essere umano, se protratte a lungo!
E chiudiamo col demone del silenzio/rumore.
“Come ci è possibile ascoltare le nostre vibrazioni individuali in un mondo assordato dai boati della civiltà? Come possiamo esprimere la nostra verità quando si oppone al conformismo istituzionalizzato della conversazione educata? Nel regno sottile del quinto chakra, come potremo trovare la pace necessaria per ascoltare la verità che ci portiamo dentro?” [Pag. 357 de “Il libro dei chakra” di Anodea Judith, Neri Pozza].
Vero. Ma se il rumore (sia quello fisico sia quello psichico) non ci permette di ascoltare noi stessi, è anche vero il contrario: abbiamo paura del silenzio. Da una parte lo bramiamo, dall’altra lo rifuggiamo perché ci permetterebbe di dare spazio ai nostri desideri, alla “nostra verità” e potremmo scoprire che quest’ultima non collima con ciò che ci hanno insegnato o con ciò che ogni giorno ci viene imposto. Sentiremmo il bisogno di trovare la nostra personale autenticità e questo, probabilmente, ci allontanerebbe dal mondo che abbiamo costruito con tanto sacrificio e rinunciando a noi stessi; ci lascerebbe senza quelle false certezze in cui abbiamo fatto lo sforzo di credere per tanto, troppo tempo, ma – in cambio – ci fornirebbe l’opportunità di cercare/trovare la nostra strada.
Molti altri demoni pasteggiano con la nostra paura e si nascondono tra le pieghe della nostra civiltà: l’abitudine, l’indifferenza, l’odio, sono solo alcuni di questi mostruosi tarli…
A questo punto sorge un interrogativo inevitabile: come si sconfigge la paura?
Penso che la conoscenza sia fondamentale, senza di essa  infatti – siamo inermi e vulnerabili. L’ignoranza è – per dirla tutta - la principale alleata della paura…
L’ascolto è un altro efficace mezzo di contrasto: ascoltare davvero, noi stessi e gli altri, senza pregiudizi, senza saltare a conclusioni affrettate…
Il desiderio, quello autentico, è un grande aiuto per sapere quale strada percorrere, ma solo se accompagnato dalla volontà (di fare, di essere, di diventare). E non parlo di una volontà forzata dal bisogno o dal dovere, bensì di quella volontà che nasce e si sviluppa come spinta interna e individuale, indipendente dal volere collettivo…
Lo sviluppo dei sensi è un altro fattore che può contribuire a farci prendere coscienza del mondo interno e di quello esterno a noi…
L’amore e la fiducia e – perché no? – forse anche la compassione e la solidarietà possono rivelarsi utilissimi…
E – se me lo permettete – aggiungerei anche la consapevolezza di essere cellule di un organismo vivente che, seppur sconfinato (o, forse, proprio perché sconfinato) può colmarci di energia…

giovedì 12 ottobre 2017

"Lisbona ultima frontiera" di Antoine Volodine. Edizioni Clichy



Due amanti in procinto di separarsi si ritrovano a Lisbona per passare insieme gli ultimi momenti. Lei è una terrorista rossa, lui un agente della polizia tedesca che, per salvarla, le ha organizzato una fuga in Estremo Oriente. I due non potranno più avere contatti per molti anni, forse per sempre. Ingrid però non vuole sparire dal suo mondo senza lasciare nessuna traccia di sé. Progetta quindi di scrivere  un libro in cui racconterà, in un linguaggio criptato e incomprensibile ai suoi nemici, la sua esperienza della lotta armata. Così, all’interno di questa cornice, si inserisce un secondo libro che contiene a sua volta altri scritti, altri narratori e altri personaggi, “una sorta di antologia commentata di testi risalenti a un’epoca immaginaria, il Rinascimento”, segnata dalla guerra e dalla dittatura. L’identità del narratore si frammenta  in una pluralità di individui e di nomi, secondo quella pratica dell’eteronimia tanto cara a Volodine (non a caso il romanzo si apre nella Lisbona di Pessoa), che permette uno sguardo più ampio e profondo sulla storia, la politica e la letteratura. Con la sua scrittura poetica e visionaria, “Lisbona ultima frontiera” è al tempo stesso una storia d’amore e un’amara riflessione sull’uomo e sulla società, che tuttavia, pur delineando il più cupo degli orizzonti, riafferma ancora una volta la forza e la bellezza della libertà umana.

Tutto il romanzo è – in realtà – un unico inarrestabile flusso di coscienza in cui gli interrogativi sono molteplici. Tale flusso è sottolineato dalla totale mancanza – per lunghi tratti – di punti fermi (intesi come segni d’interpunzione). I due protagonisti – Kurt e Ingrid – sono come due aspetti di uno stesso individuo (anche la copertina del libro sembra sottolineare il tema del doppio) non meglio identificato o identificabile, vittima di un Sistema altamente corrotto. Tale individuo è combattuto tra due scelte: restare e sottomettersi alle regole, mettendo a tacere la propria identità sovversiva o fuggire e sovvertire il Sistema dall’esterno. In questo frangente il lettore arriva a chiedersi se la fuga possa realmente rappresentare la via per conquistare la libertà o – al contrario – la perdita dell’identità. Anche in questo caso – però – si prospettano due valide considerazioni: la perdita dell’identità è un bene o un male? E’ la salvezza o – piuttosto - la morte dell’IO? Ognuno – naturalmente – è libero di trarre le proprie conclusioni, ma non prima di aver compreso di cosa si parla quando si parla di IO. IO è davvero solo il nome e il cognome di un individuo?  Ovviamente no, ma il solo fatto di vedersi portare via queste due cose per sostituirle con altre due è equiparabile ad una forma di violenza:
“Non sapeva già più molto bene a quale nome, a quale cognome, avesse risposto fino ad allora”.
“Aveva osservato la foto senza dire una parola, mentre un fulmine lancinante, indecente, gli lacerava i nervi, faceva a pezzi la sua fedeltà al mondo, appiccava il fuoco a tutta la sua vita, dall’infanzia alla vecchiaia”.
“La violenza del distacco da se stessi non ha equivalenti nel novero delle torture”.
“ Talvolta […] penso che tu mi abbia afferrata con i denti, tenuta stretta tra le fauci e trascinata fuori […] dalla mia realtà da incubo di sangue, e che tu mi abbia condotta in una realtà parallela, una realtà da incubo di morte e di pseudonimi, in cui non esisto già più, in cui la mia identità viene frantumata e rifrantumata senza posa dalle tue zanne, e in cui devo prendere delle precauzioni per farti uscire dall’ombra, per invocare impunemente la tua presenza severa, la tua presenza tenera e feroce”.
“Lisbona ultima frontiera” ruota tutto intorno alla ricerca dell’IO, della vera identità personale e lo fa avvalendosi di argute considerazioni filosofiche – innanzitutto – e poi di velati (ma non troppo) riferimenti a grandi opere letterarie. Si possono scorgere collegamenti a Jung e alla sua idea di inconscio collettivo; anche Freud viene coinvolto con le sue idee dei complessi, in particolare quello di Edipo. Persino Platone trova posto nel romanzo di Volodine, con il suo Mito della Caverna. E’ facile – allo stesso modo – cogliere i riferimenti a Ray Bradbury e al suo romanzo di punta “Fahrenheit 451” e a R. L. Stevenson  con l’altrettanto celebre romanzo “Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hide”. Luigi Pirandello domina – con la sua teoria delle maschere – tutto il romanzo, mentre particolarmente accentuati sono i riferimenti a George Orwell e al suo “La fattoria degli animali”.
L’ansiosa ricerca di identità, l’indagine metafisica per trovare l’IO, il vero IO, crea sgomento, provoca stordimento e si può rischiare di smarrirsi lungo la strada perché “sottile è la linea di confine che separa l’equilibrio mentale dall’alienazione”.
L’individuo non esiste, è solo un’ombra che si muove nell’ombra. Un concetto – quello dell’ombra, appunto – che si insinua nel lettore come un senso di forte inquietudine.
Come si va alla ricerca dell’IO?
Volodine lo fa con una serie di espedienti letterari di grande effetto: mette in bocca ai suoi personaggi i cosiddetti TEMI, ovvero spunti di riflessione filosofica che hanno il compito e il potere di scandagliare l’animo umano. Alcuni dei temi più significativi sono sicuramente questi:
-         “Fingere attaccamento alla vita è segno di forza o di debolezza?”
-         “L’uomo ebbro di libertà è libero o è soltanto ebbro?”
-         “L’animale insito in noi determina la nostra doppiezza di fronte al destino?”
-         “L’idea di sopravvivere alla propria morte può avere un fondamento non religioso?”
-         “La meticolosa elencazione degli esemplari di una determinata specie favorisce o ostacola l’identificazione di quella specie?”
-         “Se prima o poi dobbiamo morire, perché dormiamo?”
Naturalmente, questa ricerca è ostacolata con forza da un Sistema le cui basi sono marce e corrotte, ma che trova validi alleati in Istituzioni di potere e Società. La Società, con a capo le suddette Istituzioni, è – in tutto e per tutto – paragonabile a una creatura vivente, ad un organismo che ha il compito precipuo di mantenere il controllo sugli individui.
In che modo le Istituzioni esercitano il loro potere?
Sicuramente tramite la distrazione: discussioni inutili, idee preconfezionate ad hoc durante sedute a tavolino (che assomigliano in maniera impressionante al Concilio di Nicea), manipolazioni della realtà ad esclusivo beneficio dei soli membri detentori del potere e non di certo della massa. Infatti, se alla massa non si dà il tempo di pensare o – peggio ancora – le si fornisce il materiale preconfezionato sul quale pensare, è facile tenerla in pugno. Va da sé che chi tentasse di discostarsi da quelle che sono le idee imposte come verità assoluta e incontrovertibile dalle autorità verrebbe immediatamente messo a tacere, fatto a brandelli perché non scardini porte che dovrebbero rimanere chiuse e non smantelli fondamenta che dovrebbero continuare a sorreggere realtà virtuali e fittizie quasi quanto quella del film “Matrix”. E’ semplice obbedire a questo sistema: basta non farsi domande, non sollevare obiezioni, non controbattere. Anche i bambini vengono instradati – fin da subito – su questa forma di obbedienza perché se fossero lasciati liberi di pensare romperebbero le catene della schiavitù con cui è legato il mondo e darebbero vita ad un mondo in cui ognuno è libero. I bambini rappresentano il futuro, il collegamento all’innocenza e alla libertà (ormai perdute) degli adulti e questi ultimi manifestano diverse reazioni di fronte ad essi: paura, odio o – addirittura – indifferenza. Paura perché il futuro è ignoto e l’ignoto terrorizza. Odio perché i bambini hanno sicuramente molto più futuro di fronte a loro a differenza degli adulti, pertanto questi ultimi passano velocemente da questa pesante forma di invidia all’odio. Indifferenza in quanto molti ritengono i bambini nettamente inferiori rispetto a loro e indegni di considerazione.
A chi – in particolar modo – sono rivolte le critiche di Volodine?
Le critiche sono rivolte in special modo ai letterati, agli artisti, ai critici, alle comunità scientifiche, alla polizia e alla socialdemocrazia al potere, insomma a tutti gli ingranaggi della Società e a chi la fa esistere per quella che è:
“Una civiltà mostruosa, pensò Ingrid, una società distorta, oscurata in ogni campo da falsi valori, un’organizzazione i cui pilastri, continuava a rimuginare, sono la truffa istituzionalizzata, il culto del denaro, la disuguaglianza sociale, una disuguaglianza alimentata cinicamente di proposito, precisò, e i cui inconfessati punti di riferimento, si indignò, sono lo sciacallaggio, l’idiozia e la violenza. Spero che di tutto questo non resti altro che un mucchio di cenere!”
“L’odio contro i poteri costituiti, la paranoia antipoliziesca, l’idea che dietro le apparenze ufficiali agiscano delle forze manipolatrici, delle forze insospettabili agli occhi dei comuni mortali, ma determinanti, l’odio per la socialdemocrazia, per la mollezza e l’autocompiacimento della socialdemocrazia, la convinzione che la socialdemocrazia sia in realtà un totalitarismo peggiore degli altri perché privo di incrinature, l’opinione secondo la quale i socialdemocratici farebbero da paravento ai veri poteri, quelli del complesso militare-industriale (per riprendere la vostra terminologia demenziale), la paura provocata dai continui cambiamenti di identità a cui sei sottoposta, la sensazione di sbandamento di fronte all’identità che si sgretola, la paura provocata dall’annientamento, dietro di te, dei tuoi doppi, l’ossessione dei segreti che nessuno deve conoscere, l’ossessione delle costanti bugie che sei costretta a sostituire alla tua autobiografia, la paura della metamorfosi, la soddisfazione che suscitano in te le azioni violente, la paura di fronte agli anni che passano nell’isolamento della prigione o dell’esilio, l’assenza di relazioni pacifiche fra gli individui, l’assenza di sincerità, l’assenza di rimorsi, l’assenza di futuro”.
I giornalisti hanno creato un sistema di non-informazione (“La stampa ha gettato alle ortiche le questioni essenziali”) , il mondo editoriale pubblica romanzi-non romanzi, gli esegeti hanno il compito di stanare i messaggi in codice celati dietro ogni libro e di mettere all’indice o distruggere – in collaborazione con i critici letterari e la polizia – qualsiasi pubblicazione  sia ritenuta non idonea ad essere letta dalla massa.
La cosa più sconvolgente è che,  sebbene la polizia scaturisca dalla mente dei cittadini, ha il potere di ingabbiare quelle stesse menti da cui è stata partorita. In poche parole: siamo noi stessi a creare le nostre prigioni! Questo accade perché, quando siamo in tensione, i nostri sensi si acuiscono o – al contrario – si intorpidiscono a tal punto da metterci in condizione di non capire più se una cosa viene da dentro di noi o da fuori. La paura e l’angoscia che scaturiscono da tale sgomento sono talmente elevate che arrivano ad assumere una forma e una dimensione al di fuori del solo pensiero; si materializzano, si concretizzano in entità corporee in grado di paralizzarci. Tanto è vero che Volodine stesso definisce la polizia “uno steccato”. In questo modo, automutilazioni e autocensure sono all’ordine del giorno. E anche la memoria diventa talmente labile che non si ha più neppure la percezione se certe cose siano accadute davvero oppure no.
Di che tipo è la paura descritta da Volodine?
La paura di cui Volodine ci parla non riguarda le sofferenze fisiche, ma qualcosa di molto più grande e spaventoso, ovvero la paura della paura. A rendere tanto palpabile questa sensazione di per sé astratta e incorporea sono il linguaggio e lo stile narrativo dello stesso Volodine. Questo scrittore è riuscito a creare non solo un romanzo “a scatole cinesi”, ma una struttura surrealistica che catapulta il lettore in un mondo di fantasia talmente plausibile da poter essere reale. Un universo parallelo, una costruzione onirica talmente vicina al mondo in cui viviamo da farci rispecchiare in essa. Si prova un fortissimo senso di stordimento e di vertigine nel leggere “Lisbona ultima frontiera” per la terminologia usata, per le figure retoriche che sostengono le immagini oniriche, per gli scenari sanguinari descritti ( che – nonostante siano spesso cruenti al limite del disgustoso – sembra non tocchino nessuno):
“Lo stridio di un’anima che viene strappata via dal corpo”.
“La casa sanguina, tutto sanguina”.
“Il luogo è deserto, le voci si sciolgono, il pensiero si scioglie nel sudore, nel silenzio della vegetazione rigogliosa […]”.
“Luccicanti gocce di liquirizia e sogni”.
Quali sono i fondamenti di questa eresia, di questa disobbedienza al potere?
Promuovere una nuova estetica, insinuare negli animi l’inquietudine, il dubbio, l’abitudine alla diffidenza nei confronti dei principi fondamentali del Rinascimento, instillare l’abitudine alla rivolta.
“Cospirare per una metamorfosi dello spirito”.
“[…] sì, continueremo, con lo stesso stile frammentario furbo e piratesco, a denunciare questa società frammentaria, furba e fasulla, fondata sulle ipocrisie, sulle bugie, sulle false bugie e sulle vere, infinitamente vere vigliaccherie”.
Un libro estremamente complesso e articolato i cui significati reconditi sono davvero numerosi. Un libro in cui la preda diventa cacciatore e il cacciatore diventa la preda, alternativamente e senza sosta. Il linguaggio è ricercato e lo stile incalzante e scorrevole sebbene la struttura non lo sia altrettanto. Specchio del nostro tempo, “Lisbona ultima frontiera” rappresenta un’attenta e accurata analisi dei difetti e dei bisogni dell’individuo a dispetto della società in cui è inserito.
Sorge una domanda: chi si accorgesse di essere un individuo dotato di una propria personalità e desiderasse emergere dalla massa per trovare sé stesso, quali e quante possibilità avrebbe di non essere schiacciato?