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LA BELLEZZA

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sabato 25 gennaio 2020

"L'IO DELLA MENTE", Hofstadter e Dennett, Adelphi Edizioni.


Leggendo “L’io della mente” di Douglas R. Hofstadter e Daniel C. Dennett, (Adelphi Edizioni), mi sono accorta che il confine tra scienza, fantascienza e filosofia  è davvero molto sottile.
Il libro in questione è un viaggio straordinario tra dissertazioni (filosofiche, scientifiche, ecc.), possibilità ed eventualità talmente assurde e a malapena concepibili da risultare – paradossalmente – reali e concrete o, quantomeno, concretizzabili in un prossimo futuro. Montagne russe in un panorama costituito da trapianti di cervelli[1] e ricostruzioni di personalità, sensazioni e percezioni date dall’essere vivi, racconti e riflessioni su cosa sia la coscienza (e dove risieda) e sulle possibilità – più o meno remote – di ri/crearla artificialmente. Materializzazioni e smaterializzazioni, Intelligenze Artificiali, mondi in miniatura, dualismo mente-cervello, anima-corpo; un percorso vertiginoso tra atomi, neuroni e sinapsi, tra circuiti e meccanismi, tra memoria del passato e costruzione del futuro, tra morte e resurrezione (o risveglio) e rinascite. E moltissimo altro ancora attende il lettore che deciderà di leggere questo saggio ricco e articolato. Una lettura necessaria per salire sul treno delle fatidiche domande: “Chi sono Io?” “Di che cosa è fatto il mio Io e dove risiede?” “Chi sta dicendo «mio» se «Io» è il soggetto della frase: «Io ho/sono il mio Io»?” “Quali sono i confini tra «dentro» e «fuori»?  e spingersi oltre… Dove? Nel mondo dei sogni, ad esempio, per correre sul filo di altre spinose domande, come le seguenti:
-         Il sogno è la realtà o la realtà è il sogno?
-         Quando sogno io sono il soggetto sognante o l’oggetto sognato? E, in questo caso, chi è il sognatore e chi il sognato?
-         È la mia mente, che sogna, o il mio cervello? E cosa cambia quando sogno me stesso/a in prima persona invece che in terza persona? Chi è – dunque – l’ “Io autentico (posto che ce ne sia uno)? Possiamo avanzare l’ipotesi che esista un “Io autentico” contrapposto a un “Io fittizio”? E – se esistessero entrambi – a chi dovrebbe spettare il compito di stabilire quale dei due è quello autentico?
-         E in che senso siamo esseri pensanti? Ha qualcosa a che vedere con il Libero Arbitrio? (A questo proposito, vi invito a leggere con attenzione il dialogo intitolato “Dio è taoista?” - presente all’interno de “L’io della mente” – scritto da Raymond M. Smullyan).
-         Quando  so/penso di essere sveglio/a, posso dire davvero che sto vivendo nella realtà o dovrei, invece, considerare la possibilità di sognare quando sono sveglio/a e di essere sveglio/a quando sogno?
-         E, ancora: nei sogni, a volte, si soffre, ma – supponiamo che il mondo onirico sia soltanto una finzione – perché si soffre? E – soprattutto – chi prova la sensazione della sofferenza?
In tutto questo, quanto conta avere un corpo che fornisca esperienze sensoriali al cervello affinché le possa elaborare? In altre parole: la coscienza ha bisogno di un corpo, per poter avere coscienza di sé, ovvero per poter avere la consapevolezza di esistere? Vi siete mai sorpresi (e mai espressione fu più azzeccata) a pensare: “Da dove mi arriva questo pensiero?” Io mi sono posta questa domanda più e più volte. Naturalmente non ho LA risposta, ma ho formulato delle ipotesi:
1.   Tutto ciò che penso è frutto di connessioni neurali e impulsi elettrici, quindi chi compie l’azione del pensare è il mio solo cervello.
2.   Ogni pensiero parte dalla mia mente (il mio “Io Grande”) e arriva “già pronto” al mio cervello, per cui, forse, sarebbe più corretto affermare che Io sono composta da una mente e un cervello, e che l’una sta all’altro in un rapporto dualistico. Ma qui mi sorge un nuovo dubbio: cosa accadrebbe se troncassi questo rapporto e isolassi le due parti in causa? [“Un’anima è più del canto (o del conto) delle sue parti? Pag. 189]
Personalmente propendo per la seconda ipotesi, ma – a questo proposito – ho un altro tarlo che continua a infastidirmi: se il mio Io è formato da un pensatore (la Mente) e un “dispositivo di traduzione del pensiero”(il Cervello), dovrei essere o no sempre consapevole del fatto che sto pensando? Nel caso in cui debba esserne consapevole, come si spiegherebbe il fenomeno del “soprappensiero”? Se fossi consapevole di essere soprappensiero non sarei soprappensiero, giusto? Ecco, non riesco proprio a venirne a capo…
“La coscienza richiede un grado notevole di autocoscienza”. Pag. 180
Cioè: “La mente è una configurazione percepita da una mente”. Pag. 197
“La percezione risiede al livello del sistema globale, non al livello del simbolo del sé”. Pag. 197


[1] Ricorderete, probabilmente, “GAMMA”, uno sceneggiato televisivo (giallo  a sfondo fantascientifico) suddiviso in quattro puntate, trasmesso per la prima volta dalla RAI nel 1975, per la regia di Salvatore Nocita su un soggetto del medico Fabrizio Trecca. Lo sceneggiato raccontava di un trapianto di cervello su un giovane pilota automobilistico infortunato e delle sue implicazioni etiche.
Informazioni tratte da: https://it.wikipedia.org/wiki/Gamma_(miniserie_televisiva)

venerdì 2 marzo 2018

"Emil M. Cioran - L'angelo sterminatore" a cura di Fabrizio Parrini. Edizioni Clichy.



L’angelo sterminatore non è un libro adatto a tutti. Può sembrare un’affermazione discriminatoria e forse un po’ crudele, ma descrive perfettamente e senza giri di parole la sensazione che ho provato leggendolo. Ma andiamo per ordine. Innanzitutto è doveroso fare qualche accenno alla struttura di questo volumetto che  nasce con l’intento di raccontare il pensiero del filosofo Emil Michel Cioran[1]. Il libro è diviso, infatti, in tre sezioni: la prima parte contiene una breve, ma esaustiva biografia del filosofo, la seconda parte – intitolata, appunto, L’angelo sterminatore – è una sorta di lunga prefazione (a cura di Fabrizio Parrini), mentre la terza parte contiene gli aforismi più significativi della produzione di Cioran intervallati da una bella selezione di foto che lo ritraggono in diverse occasioni. Interessante, tra tutte, la seconda sezione del libro: una specie di dettagliata dissertazione che prepara il lettore alla prosa poetica - ma caustica – di Cioran.
Ecco il ritratto che ne emerge.
Un uomo disincantato, disilluso, un “filosofo non-filosofo” che non formula teorie – al contrario di ciò che è, da sempre, prerogativa dell’ambiente accademico – ma traduce i pensieri e gli stati d’animo in parole.
“La filosofia di Cioran non esiste come entità strutturata. Non c’è nessuna teoria, solo la fedeltà alle proprie sensazioni e al proprio temperamento”.
“La filosofia per lui si deve occupare della sofferenza, non certo delle teorie, tanto da esaltare una lacrima come esperienza più profonda di un sillogismo. Definisce i suoi pensieri amari come le lacrime che si sono condensate in parole”.
Cioran si fa portavoce di un nichilismo in cui il nulla arriva quasi ad assumere dei contorni, diventando una sorta di entità salvifica. Il nulla spodesta la speranza permeando di cinismo buona parte degli aforismi di questo pensatore. L’uomo è destinato al fallimento e – di conseguenza – al dolore. Non desiderare, non fare e non sperare sono le uniche possibilità di salvezza.
Dalle sue parole traspare quella cosa chiamata «cafard», ovvero una parola francese intraducibile che racchiude in sé i concetti di “tristezza”, “noia”, “tedio”, “accidia” e “malinconia”. Nelle opere di Cioran la lingua rumena – dotata di ardore ed esuberanza – viene soppiantata da quella francese, più rigorosa, tagliente e lucida. Viene favorita la brevità e abbandonato qualsiasi tipo di barocchismo linguistico.
“Non c’è niente, nella scrittura di Cioran, che faccia pensare a una speculazione intellettuale fine a se stessa. La sua lucida scrittura viene invece dal profondo, per diventare discorso apparentemente comprensibile a una prima lettura, ma che ha bisogno di un’attenta e continuata forma d’intuizione”.
“Il male di vivere” è il padrone indiscusso della filosofia di Cioran che, in questo, si accosta percettibilmente al poeta del pessimismo cosmico, Giacomo Leopardi.
In questo libro Fabrizio Parrini ci svela il pensiero di Cioran a proposito di temi che sorreggono le nostre vite, quali – ad esempio – il significato della storia, quello della libertà, nonché quello dell’istruzione. Attraverso le sue parole scopriamo il valore intrinseco della scrittura, vediamo la letteratura come strumento per esternare il dolore (come se fosse un “prolungamento fisiologico” di ogni autore) e la poesia come una forma di preghiera. Nell’analisi che Parrini fa di Cioran, trova posto anche la religione ed emerge il legame di quest’ultimo con la tradizione del pensiero gnostico.
“La scrittura è un modo per lenire le ferite del cuore e poter vivere nonostante la discordanza suprema tra il mondo e noi stessi”.
Quel che spiazza, della figura di Emil Cioran, è la sua “filosofia della sospensione” – se così vogliamo chiamarla – secondo la quale non esistono verità oggettive e neppure teorie inoppugnabili dietro le quali ripararsi.
“L’aforisma non deve sfornare verità, ma insegnare a farsene beffe. Cioran non conclude mai. Non rassicura, ma cerca di dire con le parole quello che le parole non possono dire. […] Distrugge e riparte subito dopo dalle macerie che ha provocato, ma davvero senza più certezze”.
“[…] la sua filosofia senza tempo  a volte abbaglia e consola, perché parla dell’uomo com’è, come è sempre stato”.
Professando questo tipo di filosofia, Cioran corre spesso il rischio di cadere nella contraddizione ed è anche per tale ragione che Parrini stesso lo definisce “un pensatore per pochi sotterranei ammiratori”.
L’angelo sterminatore è un libro graffiante, a tratti addirittura lacerante: la sua lettura vi lascerà un segno nell’animo.


[1] Emil M. Cioran nasce a Rasinari (Sibiu) in Transilvania l’8 aprile del 1911  e muore a Parigi il 20 giugno del 1995, all’età di ottantaquattro anni. “E’ una delle figure più rappresentative della vita culturale europea del Novecento, dove si pone come una libera figura di scrittore e filosofo scettico che indaga il divenire dell’esistenza come un testardo, implacabile contestatore della filosofia sistematica. La filosofia deve, secondo lui, occuparsi dell’esperienza concreta, quotidiana, vissuta dall’uomo. Non può e non deve mai ridursi a un sapere astratto, fatto di concetti e senza contenuti vivi come i sentimenti, le emozioni, le passioni. Per Cioran la filosofia è un’incessante riflessione sulla vita e sull’essere che ha oltrepassato l’orizzonte del nulla. Ciò che gli interessa è l’uomo gettato nel mondo da una sorte avversa o da un «funesto demiurgo» per interpretare il suo ruolo incomprensibile e assurdo. Questa l’originalità di Cioran e dei suoi aforismi crudeli in perenne ricerca di senso. La vita è un’avventura magica, ma la lucidità del pensiero permette di sperimentare non solo la propria immensa solitudine, ma anche la propria vertiginosa libertà”.

giovedì 12 ottobre 2017

"Lisbona ultima frontiera" di Antoine Volodine. Edizioni Clichy



Due amanti in procinto di separarsi si ritrovano a Lisbona per passare insieme gli ultimi momenti. Lei è una terrorista rossa, lui un agente della polizia tedesca che, per salvarla, le ha organizzato una fuga in Estremo Oriente. I due non potranno più avere contatti per molti anni, forse per sempre. Ingrid però non vuole sparire dal suo mondo senza lasciare nessuna traccia di sé. Progetta quindi di scrivere  un libro in cui racconterà, in un linguaggio criptato e incomprensibile ai suoi nemici, la sua esperienza della lotta armata. Così, all’interno di questa cornice, si inserisce un secondo libro che contiene a sua volta altri scritti, altri narratori e altri personaggi, “una sorta di antologia commentata di testi risalenti a un’epoca immaginaria, il Rinascimento”, segnata dalla guerra e dalla dittatura. L’identità del narratore si frammenta  in una pluralità di individui e di nomi, secondo quella pratica dell’eteronimia tanto cara a Volodine (non a caso il romanzo si apre nella Lisbona di Pessoa), che permette uno sguardo più ampio e profondo sulla storia, la politica e la letteratura. Con la sua scrittura poetica e visionaria, “Lisbona ultima frontiera” è al tempo stesso una storia d’amore e un’amara riflessione sull’uomo e sulla società, che tuttavia, pur delineando il più cupo degli orizzonti, riafferma ancora una volta la forza e la bellezza della libertà umana.

Tutto il romanzo è – in realtà – un unico inarrestabile flusso di coscienza in cui gli interrogativi sono molteplici. Tale flusso è sottolineato dalla totale mancanza – per lunghi tratti – di punti fermi (intesi come segni d’interpunzione). I due protagonisti – Kurt e Ingrid – sono come due aspetti di uno stesso individuo (anche la copertina del libro sembra sottolineare il tema del doppio) non meglio identificato o identificabile, vittima di un Sistema altamente corrotto. Tale individuo è combattuto tra due scelte: restare e sottomettersi alle regole, mettendo a tacere la propria identità sovversiva o fuggire e sovvertire il Sistema dall’esterno. In questo frangente il lettore arriva a chiedersi se la fuga possa realmente rappresentare la via per conquistare la libertà o – al contrario – la perdita dell’identità. Anche in questo caso – però – si prospettano due valide considerazioni: la perdita dell’identità è un bene o un male? E’ la salvezza o – piuttosto - la morte dell’IO? Ognuno – naturalmente – è libero di trarre le proprie conclusioni, ma non prima di aver compreso di cosa si parla quando si parla di IO. IO è davvero solo il nome e il cognome di un individuo?  Ovviamente no, ma il solo fatto di vedersi portare via queste due cose per sostituirle con altre due è equiparabile ad una forma di violenza:
“Non sapeva già più molto bene a quale nome, a quale cognome, avesse risposto fino ad allora”.
“Aveva osservato la foto senza dire una parola, mentre un fulmine lancinante, indecente, gli lacerava i nervi, faceva a pezzi la sua fedeltà al mondo, appiccava il fuoco a tutta la sua vita, dall’infanzia alla vecchiaia”.
“La violenza del distacco da se stessi non ha equivalenti nel novero delle torture”.
“ Talvolta […] penso che tu mi abbia afferrata con i denti, tenuta stretta tra le fauci e trascinata fuori […] dalla mia realtà da incubo di sangue, e che tu mi abbia condotta in una realtà parallela, una realtà da incubo di morte e di pseudonimi, in cui non esisto già più, in cui la mia identità viene frantumata e rifrantumata senza posa dalle tue zanne, e in cui devo prendere delle precauzioni per farti uscire dall’ombra, per invocare impunemente la tua presenza severa, la tua presenza tenera e feroce”.
“Lisbona ultima frontiera” ruota tutto intorno alla ricerca dell’IO, della vera identità personale e lo fa avvalendosi di argute considerazioni filosofiche – innanzitutto – e poi di velati (ma non troppo) riferimenti a grandi opere letterarie. Si possono scorgere collegamenti a Jung e alla sua idea di inconscio collettivo; anche Freud viene coinvolto con le sue idee dei complessi, in particolare quello di Edipo. Persino Platone trova posto nel romanzo di Volodine, con il suo Mito della Caverna. E’ facile – allo stesso modo – cogliere i riferimenti a Ray Bradbury e al suo romanzo di punta “Fahrenheit 451” e a R. L. Stevenson  con l’altrettanto celebre romanzo “Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hide”. Luigi Pirandello domina – con la sua teoria delle maschere – tutto il romanzo, mentre particolarmente accentuati sono i riferimenti a George Orwell e al suo “La fattoria degli animali”.
L’ansiosa ricerca di identità, l’indagine metafisica per trovare l’IO, il vero IO, crea sgomento, provoca stordimento e si può rischiare di smarrirsi lungo la strada perché “sottile è la linea di confine che separa l’equilibrio mentale dall’alienazione”.
L’individuo non esiste, è solo un’ombra che si muove nell’ombra. Un concetto – quello dell’ombra, appunto – che si insinua nel lettore come un senso di forte inquietudine.
Come si va alla ricerca dell’IO?
Volodine lo fa con una serie di espedienti letterari di grande effetto: mette in bocca ai suoi personaggi i cosiddetti TEMI, ovvero spunti di riflessione filosofica che hanno il compito e il potere di scandagliare l’animo umano. Alcuni dei temi più significativi sono sicuramente questi:
-         “Fingere attaccamento alla vita è segno di forza o di debolezza?”
-         “L’uomo ebbro di libertà è libero o è soltanto ebbro?”
-         “L’animale insito in noi determina la nostra doppiezza di fronte al destino?”
-         “L’idea di sopravvivere alla propria morte può avere un fondamento non religioso?”
-         “La meticolosa elencazione degli esemplari di una determinata specie favorisce o ostacola l’identificazione di quella specie?”
-         “Se prima o poi dobbiamo morire, perché dormiamo?”
Naturalmente, questa ricerca è ostacolata con forza da un Sistema le cui basi sono marce e corrotte, ma che trova validi alleati in Istituzioni di potere e Società. La Società, con a capo le suddette Istituzioni, è – in tutto e per tutto – paragonabile a una creatura vivente, ad un organismo che ha il compito precipuo di mantenere il controllo sugli individui.
In che modo le Istituzioni esercitano il loro potere?
Sicuramente tramite la distrazione: discussioni inutili, idee preconfezionate ad hoc durante sedute a tavolino (che assomigliano in maniera impressionante al Concilio di Nicea), manipolazioni della realtà ad esclusivo beneficio dei soli membri detentori del potere e non di certo della massa. Infatti, se alla massa non si dà il tempo di pensare o – peggio ancora – le si fornisce il materiale preconfezionato sul quale pensare, è facile tenerla in pugno. Va da sé che chi tentasse di discostarsi da quelle che sono le idee imposte come verità assoluta e incontrovertibile dalle autorità verrebbe immediatamente messo a tacere, fatto a brandelli perché non scardini porte che dovrebbero rimanere chiuse e non smantelli fondamenta che dovrebbero continuare a sorreggere realtà virtuali e fittizie quasi quanto quella del film “Matrix”. E’ semplice obbedire a questo sistema: basta non farsi domande, non sollevare obiezioni, non controbattere. Anche i bambini vengono instradati – fin da subito – su questa forma di obbedienza perché se fossero lasciati liberi di pensare romperebbero le catene della schiavitù con cui è legato il mondo e darebbero vita ad un mondo in cui ognuno è libero. I bambini rappresentano il futuro, il collegamento all’innocenza e alla libertà (ormai perdute) degli adulti e questi ultimi manifestano diverse reazioni di fronte ad essi: paura, odio o – addirittura – indifferenza. Paura perché il futuro è ignoto e l’ignoto terrorizza. Odio perché i bambini hanno sicuramente molto più futuro di fronte a loro a differenza degli adulti, pertanto questi ultimi passano velocemente da questa pesante forma di invidia all’odio. Indifferenza in quanto molti ritengono i bambini nettamente inferiori rispetto a loro e indegni di considerazione.
A chi – in particolar modo – sono rivolte le critiche di Volodine?
Le critiche sono rivolte in special modo ai letterati, agli artisti, ai critici, alle comunità scientifiche, alla polizia e alla socialdemocrazia al potere, insomma a tutti gli ingranaggi della Società e a chi la fa esistere per quella che è:
“Una civiltà mostruosa, pensò Ingrid, una società distorta, oscurata in ogni campo da falsi valori, un’organizzazione i cui pilastri, continuava a rimuginare, sono la truffa istituzionalizzata, il culto del denaro, la disuguaglianza sociale, una disuguaglianza alimentata cinicamente di proposito, precisò, e i cui inconfessati punti di riferimento, si indignò, sono lo sciacallaggio, l’idiozia e la violenza. Spero che di tutto questo non resti altro che un mucchio di cenere!”
“L’odio contro i poteri costituiti, la paranoia antipoliziesca, l’idea che dietro le apparenze ufficiali agiscano delle forze manipolatrici, delle forze insospettabili agli occhi dei comuni mortali, ma determinanti, l’odio per la socialdemocrazia, per la mollezza e l’autocompiacimento della socialdemocrazia, la convinzione che la socialdemocrazia sia in realtà un totalitarismo peggiore degli altri perché privo di incrinature, l’opinione secondo la quale i socialdemocratici farebbero da paravento ai veri poteri, quelli del complesso militare-industriale (per riprendere la vostra terminologia demenziale), la paura provocata dai continui cambiamenti di identità a cui sei sottoposta, la sensazione di sbandamento di fronte all’identità che si sgretola, la paura provocata dall’annientamento, dietro di te, dei tuoi doppi, l’ossessione dei segreti che nessuno deve conoscere, l’ossessione delle costanti bugie che sei costretta a sostituire alla tua autobiografia, la paura della metamorfosi, la soddisfazione che suscitano in te le azioni violente, la paura di fronte agli anni che passano nell’isolamento della prigione o dell’esilio, l’assenza di relazioni pacifiche fra gli individui, l’assenza di sincerità, l’assenza di rimorsi, l’assenza di futuro”.
I giornalisti hanno creato un sistema di non-informazione (“La stampa ha gettato alle ortiche le questioni essenziali”) , il mondo editoriale pubblica romanzi-non romanzi, gli esegeti hanno il compito di stanare i messaggi in codice celati dietro ogni libro e di mettere all’indice o distruggere – in collaborazione con i critici letterari e la polizia – qualsiasi pubblicazione  sia ritenuta non idonea ad essere letta dalla massa.
La cosa più sconvolgente è che,  sebbene la polizia scaturisca dalla mente dei cittadini, ha il potere di ingabbiare quelle stesse menti da cui è stata partorita. In poche parole: siamo noi stessi a creare le nostre prigioni! Questo accade perché, quando siamo in tensione, i nostri sensi si acuiscono o – al contrario – si intorpidiscono a tal punto da metterci in condizione di non capire più se una cosa viene da dentro di noi o da fuori. La paura e l’angoscia che scaturiscono da tale sgomento sono talmente elevate che arrivano ad assumere una forma e una dimensione al di fuori del solo pensiero; si materializzano, si concretizzano in entità corporee in grado di paralizzarci. Tanto è vero che Volodine stesso definisce la polizia “uno steccato”. In questo modo, automutilazioni e autocensure sono all’ordine del giorno. E anche la memoria diventa talmente labile che non si ha più neppure la percezione se certe cose siano accadute davvero oppure no.
Di che tipo è la paura descritta da Volodine?
La paura di cui Volodine ci parla non riguarda le sofferenze fisiche, ma qualcosa di molto più grande e spaventoso, ovvero la paura della paura. A rendere tanto palpabile questa sensazione di per sé astratta e incorporea sono il linguaggio e lo stile narrativo dello stesso Volodine. Questo scrittore è riuscito a creare non solo un romanzo “a scatole cinesi”, ma una struttura surrealistica che catapulta il lettore in un mondo di fantasia talmente plausibile da poter essere reale. Un universo parallelo, una costruzione onirica talmente vicina al mondo in cui viviamo da farci rispecchiare in essa. Si prova un fortissimo senso di stordimento e di vertigine nel leggere “Lisbona ultima frontiera” per la terminologia usata, per le figure retoriche che sostengono le immagini oniriche, per gli scenari sanguinari descritti ( che – nonostante siano spesso cruenti al limite del disgustoso – sembra non tocchino nessuno):
“Lo stridio di un’anima che viene strappata via dal corpo”.
“La casa sanguina, tutto sanguina”.
“Il luogo è deserto, le voci si sciolgono, il pensiero si scioglie nel sudore, nel silenzio della vegetazione rigogliosa […]”.
“Luccicanti gocce di liquirizia e sogni”.
Quali sono i fondamenti di questa eresia, di questa disobbedienza al potere?
Promuovere una nuova estetica, insinuare negli animi l’inquietudine, il dubbio, l’abitudine alla diffidenza nei confronti dei principi fondamentali del Rinascimento, instillare l’abitudine alla rivolta.
“Cospirare per una metamorfosi dello spirito”.
“[…] sì, continueremo, con lo stesso stile frammentario furbo e piratesco, a denunciare questa società frammentaria, furba e fasulla, fondata sulle ipocrisie, sulle bugie, sulle false bugie e sulle vere, infinitamente vere vigliaccherie”.
Un libro estremamente complesso e articolato i cui significati reconditi sono davvero numerosi. Un libro in cui la preda diventa cacciatore e il cacciatore diventa la preda, alternativamente e senza sosta. Il linguaggio è ricercato e lo stile incalzante e scorrevole sebbene la struttura non lo sia altrettanto. Specchio del nostro tempo, “Lisbona ultima frontiera” rappresenta un’attenta e accurata analisi dei difetti e dei bisogni dell’individuo a dispetto della società in cui è inserito.
Sorge una domanda: chi si accorgesse di essere un individuo dotato di una propria personalità e desiderasse emergere dalla massa per trovare sé stesso, quali e quante possibilità avrebbe di non essere schiacciato?