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LA BELLEZZA

mercoledì 24 dicembre 2025

LA NOIA

 

“[…] tutto m’ha tentato,

tutto: e l’immortale

gloria e il bene e il male

e tutto m’ha tediato”.

Guido Gozzano, “Il viale delle statue”

Non tutto il male vien per nuocere, ecco perché non possiamo prendere un foglio bianco, dividerlo in due colonne – una per il Bene e una per il Male – e catalogare in modo netto e inequivocabile le cose, i fatti, le esperienze e neppure le persone. Una delle cose più ambivalenti che esistano è la noia. Quella noia che non è assimilabile alla svogliatezza o alla pigrizia, ma a una sorta di fermento interiore, a un brulichio creativo. Quella cosa che ci fa sbuffare, roteare gli occhi, muovere le mani, battere i piedi nervosamente; ma anche quella sensazione di impotenza, quel voler far qualcosa ma non sapere cosa; o, al contrario, quella sensazione di sapere cosa fare, ma non come farlo. Una sensazione frustrante. Il Dizionario di Italiano (Vallardi) dà della noia tre definizioni: 1. Sensazione sgradevole prodotta da uno stato di inerzia, di tristezza o dal ripetersi monotono delle stesse azioni; 2. Fastidio; 3. Cosa o persona che procura fastidio, molestia.

L’etimologia, invece, ci dice che “noia” è un termine provenzale (enoja, da enojar), ma ha anche un equivalente derivante dal latino tardo: inodiāre, ossia «avere in odio». La noia, dunque, aveva (e forse ha ancora) a che fare con l’odio; del proprio stato (o della propria condizione), di se stesso/a, di chi ci tormenta. Mi odio, ti odio, odio tutto questo. Detto ciò, la noia è forse un demone? Se non sfogata può portare alla depressione o è la depressione che porta alla noia? Se consideriamo la noia come un bisogno di espressione frustrato, allora possiamo ipotizzare che la prima opzione sia quella corretta. In effetti, quando mi annoio mi sento schiacciata, oppressa, compressa e quindi, in questo senso, depressa. Provo spesso quella strana sensazione di fermento nella testa e nella pancia – non a caso, credo, dicono che l’intestino sia il nostro secondo cervello – e cado in uno stato di “fibrillazione emozionale”, cioè sento crescere un’energia incontrollabile dentro di me, qualcosa che necessita di uno sfogo, di uno sbocco creativo che però non conosce il campo in cui sfogarsi. O forse lo conosce, ma non conosce il “come”. Ma è proprio in quei momenti che partorisco le idee migliori. La noia, infatti, getta semi sul terreno fertile di ogni mente creativa.  Aleksandr Puškin scrisse:

FAUST: «M’annoio, diavolo».

MEFISTOFELE: «Chi il senno possiede, s’annoia».

E mi sembra un esempio calzante, anche se lui ha parlato di “senno”, mentre io ho tirato in ballo la creatività. Perché i “semi” che ho citato, spesso producono frutti, col risultato di far partorire, a chi si annoia, cose grandiose e straordinarie. Oppure  terribili. Che poi, a dirla tutta, a volte coincidono. La noia è “sintomo” d’intelligenza.

“Le Gioie fecondano: i Dolori partoriscono”[1].

Essenziale, per imparare a sfruttarla anziché scacciarla o demonizzarla, è smettere di vederla come parente dell’ozio e dell’inerzia e cominciare a considerarla come un input o, almeno, un’incubazione. Attenzione però, come ho già detto: così come non è un male assoluto, la noia non è neppure un bene assoluto, perché dipende sempre dall’uso che se ne fa. Che cosa è bene fare quando ci si annoia? La risposta è: creare.

“Il conflitto genera creatività”, dice il dottor House in una puntata dell’omonima serie televisiva, ed è proprio così. Il conflitto, soprattutto quello interiore, quello tra il voler fare e l’aver paura di farlo, tra il voler fare e il non sapere cosa o come, è foriero di idee, a volte geniali.

“[…]

e morta è nei miei versi la mia noia.

È durata due giorni la mia noia,

la triste noia fatta di parole

e di azioni convulse a mascherare

l’assenza di un amore, la mia prima

tregua nel mondo del mio disonore”[2].

Mi sono domandata spesso se Dio abbia creato il mondo per noia e, a quanto pare, non sono l’unica che si è posta questa domanda. Anche  Alberto Moravia, ne “La noia”, ha fatto esaminare questa possibilità al suo protagonista, Dino, che infatti racconta:

“La storia universale secondo la noia era basata sopra un’idea molto semplice: non il progresso, né l’evoluzione biologica, né il fatto economico, né alcun altro dei motivi che di solito si adducono da parte degli storici delle varie scuole, era la molla della storia, bensì la noia. Assai infervorato da questa magnifica scoperta, presi le cose alla radice. In principio, dunque, era la noia, volgarmente chiamata caos. Iddio, annoiandosi della noia, creò la terra, il cielo, l’acqua, gli animali, le piante, Adamo ed Eva; i quali ultimi, annoiandosi a loro volta in paradiso, mangiarono il frutto proibito. Iddio si annoiò di loro e li cacciò dall’Eden; Caino, annoiato d’Abele, lo uccise; Noè, annoiandosi veramente un po’ troppo, inventò il vino; Iddio di nuovo annoiato degli uomini, distrusse il mondo col diluvio; ma questo, a sua volta, s’annoiò a tal punto che Iddio fece tornare il bel tempo. E così via. I grandi imperi egiziani, babilonesi, persiani, greci e romani sorgevano dalla noia e crollavano nella noia; la noia del paganesimo suscitava il cristianesimo; la noia del cattolicesimo, il protestantesimo; la noia dell’Europa faceva scoprire l’America; la noia del feudalesimo provocava la rivoluzione francese; e quella del capitalismo, la rivoluzione russa. Tutte queste belle trovate furono annotate in una specie di specchietto; quindi, con grande zelo, cominciai a scrivere la storia vera e propria. Non ricordo bene, ma credo di avere oltrepassato la descrizione  molto particolareggiata della noia atroce di cui soffrirono Adamo ed Eva nell’Eden, e come, a causa appunto di questa noia, commettessero il peccato mortale”[3].

Anche Moravia, va detto, si annoiava spesso e fu proprio la noia il suo propulsore, la spinta che lo portò a esplorare campi di espressione differenti. In un’intervista dichiarò:

«La noia – almeno per me – è una forma di angoscia; è la caduta del rapporto tra me e la realtà. L’ho chiamata anche in tanti altri modi: disperazione, disponibilità, indifferenza… sempre noia è. Ho chiamato “La noia” un mio romanzo, ma anche il primo l’avrei potuto chiamare così: invece di intitolarlo “Gli indifferenti” avrei potuto chiamarlo “Gli annoiati”, perché la noia è una costante della mia vita, non è una cosa che ho provato una volta sola e che ho raccontato una sola volta».

La noia ti sprona a cercare la tua strada, uno stile tuo: sui Social e nella vita, così come nelle cose più particolare come il tipo di grafia da adottare nello scrivere a mano. Ti invita a personalizzare il modo di esprimerti e il modo di stare con gli altri; insomma, ti fa cercare te stesso.

“Finalmente raggiunse il suo scopo, e provò un grandissimo disappunto. Non aveva più nulla da fare, quasi moriva di noia, e divenne un misantropo convinto”[4].

“La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia, passando per l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia”[5].

“Dico la verità: io, da quando ho finito il mondo, mi annoio. Gli uomini non hanno più bisogno di me, nemmeno per rovinarsi. Si rovinano da soli, […]”[6].

Vassalli, nel suo libro, fa parlare il Diavolo: è lui che – stando alla storia raccontata – ha creato il mondo. Chissà, forse si annoiava e, una volta creato il Creato, è tornato ad annoiarsi. La noia, d’altronde, è il desiderio non appagato di qualcosa che non sappiamo neanche cosa sia, “è il desiderio di desideri”, diceva Tolstoj, e in un certo senso aveva ragione.

“Così io brancolo dal desiderio al piacere e, nel piacere, mi struggo dal desiderio”[7].

La noia è la frustrante sensazione di voler agire, ma di non potere. Un tempo, quando si andava al gabinetto, ci si portava una rivista (o un libro, in caso di forte stitichezza), oggi ci si porta il cellulare, ma il motivo è lo stesso: ci si annoia. Alla fermata del bus? Idem. Il camminare nervosamente su e giù è stato sostituito, ancora una volta, con lo scrollare, ma è sempre questione di noia. Il fatto è, però, che esistono almeno due tipi di noia: quella passiva, improduttiva, infruttuosa (e anche dannosa, perché ci porta a sprecare del tempo prezioso ingurgitando informazioni e dati a caso, e cercando una fonte d’intrattenimento che ci “spenga” momentaneamente) e quella germinativa; con la prima tendiamo ad ammazzare il tempo (o, almeno, cerchiamo di sfuggirgli), mentre con la seconda attiviamo il pensiero; con la prima ci chiudiamo al mondo, con la seconda lo esploriamo e impariamo a “sentirlo”. Ci si annoia nella ripetizione, nella disciplina ferrea e inscalfibile che non ammette eccezioni o evasione dagli schemi. Quella è la noia della fissità, dell’immutabile.

“Il tempo non deve essere impiegato. Non bisogna tenersi occupati, bisogna lasciarsi liberi”[8].

“C’è un verso di Pasolini che dice: «Per essere poeti, bisogna avere molto tempo». Il mestiere di scrittore è un mestiere dove si perde anche tempo. Anzi, perdere tempo è cosa necessaria per chi scrive. Questo concetto, che sembra antitetico alla fatica  creativa, è invece il suo naturale accompagnamento: uno scrittore deve saper perdere tempo, perché è necessario per la ricarica di energia, è necessario per pensare, o per non pensare più a un passaggio ossessivo. Scrivere è faticoso perché bisogna pensare molto, e se uno è sempre indaffarato non può farlo. Bisogna avere il coraggio di oziare. […] Lo scrittore dovrebbe […] svuotare la vita da impegni e lasciare spazio alternativamente alla scrittura e all’ozio.

Proust diceva che il lavoro e l’ozio sono due momenti della creazione”[9].

Sono d’accordo su molti punti, ma non su tutto. Condurre una vita all’esterno  della bolla della scrittura secondo me è necessario per avere un contatto con la materia di cui si scrive. Sono d’accordo sul fatto che sia necessario avere del tempo, molto tempo, e che sia importantissimo anche perderlo, distrarsi, oziare. Le idee migliori mi sono sempre venute mentre ero impegnata a fare qualcos’altro: a volte mentre passeggiavo, altre volte – più spesso di quanto mi piaccia ammettere – mentre ero seduta sulla tazza del gabinetto, altre volte in sogno. La creatività arriva quando meno me lo aspetto: quando parlo al telefono con mia madre, mentre lavo i piatti o stendo i panni o cucino, o mentre mi asciugo i capelli.

“Così risponde Raffaele La Capria a chi gli chiede come trascorre la sua giornata:

«La mia giornata è una continua perdita di tempo in cui cerco di includere qualcosa di creativo. Ma questo qualcosa di creativo che io includo nella perdita di tempo non sarebbe possibile se non perdessi tempo, perché per inventare qualcosa uno deve essere distratto, non essere troppo concentrato»”.[10]

A Henry Miller i pensieri migliori vengono quando non si trova seduto davanti alla macchina per scrivere.

“Su per gli Champs – Élysées le idee mi grondano come sudore. Vorrei essere ricco, da permettermi una segretaria a cui dettare passeggiando, perché i pensieri migliori mi vengono quando non sono alla macchina”.[11]

Neanche Nagib Mahfuz si mette fretta, ma d’altronde, come tutti gli scrittori, scrive anche quando non scrive. Anzi, direi – per esperienza personale – che si scrive più con la mente che con le mani.

“Spesso è difficile cominciare. Si tende a rimandare il momento del lavoro in ogni modo. Come Sandro Veronesi:

«Quando mi siedo per scrivere, ogni pretesto è buono per distrarmi: mi ricordo di dover pagare certe bollette o di dover fare alcune commissioni. All’inizio avevo paura di questa cosa, poi mi sono abituato»”.[12]

E molti/e scrittori/scrittrici adottano o hanno adottato questo approccio ozioso o procrastinatore alla scrittura (ad esempio Marcello Venturi), ma il guaio è che, come dice Veronesi, può fare paura. In una società in cui conta la performance, la produttività ad ogni costo, la richiesta di essere sempre operativi ed efficienti, chi si abbandona a questi momenti di dolce far niente prova sul collo il fiato del senso di colpa. Bene, ora spero di aver fugato questa paura che ha il solo compito di intralciare i nostri slanci creativi. “Esagerate. Siate sfrenati nei sensi e nell’immaginazione. Buttate via le copie. Dedicatevi agli atti unici”. [13]Annoiatevi, perdete tempo, ricominciate a guardare le cose e le persone come se non le conosceste e poi createvi creando. Perché è l’uso della noia che distingue il genio creativo dallo stupido. Credo lo sapessero bene i vari Faust della Letteratura quando invocavano il Diavolo: voler fare qualcosa di diverso, di più grande, qualcosa che li rendesse speciali rappresentava la molla dei loro accordi demoniaci.

“L’uomo è soggetto a errare sin tanto che lotta e anela”[14].

La noia proviene dal fare sempre le stesse cose, ma anche dalla paura di fare cose diverse, perché guardare in un’altra direzione allontana il nostro sguardo dalle cose note, oltre ad allontanare lo sguardo delle persone da quella parte di noi che gli è nota. Se guardiamo in faccia la noia, se troviamo il coraggio di fidarci e affidarci ad essa per un po’, ci verrà voglia di cambiare qualcosa e quando si cambia qualcosa, quando si va verso una direzione diversa, si corre il rischio di errare. Errare nel senso di vagare senza meta, ma anche nel senso di sbagliare; comunque la si veda, i significati del verbo “errare” si fondono in uno solo, quello della direzione. Gli errori, infatti, sono cartelli stradali che ci invitano a prendere un’altra via.

“I Maestri sono segnali sulla Via, presagi, visitatori angelici, guide. Ma siamo noi a camminare, a fare la Via”[15].

Ecco perché “se ti seduce un lumicino, seguilo. Ti conduce nella palude? Certo tu n’esci; ma se non lo segui, per tutta la vita ti martoria il pensiero ch’esso potesse essere la tua stella”.[16]

La noia, ci spiega invece Moravia (attraverso le parole di Dino), è un’incapacità di uscire da se stessi, ma anche la consapevolezza – solo teorica – che forse si potrebbe uscirne, se solo avvenisse un qualche miracolo. Annoiarsi è guardare gli oggetti con occhi differenti, arrivando a vederli nella loro crudezza, nella loro “nudità” priva di interpretazione, significato e utilità. Ogni oggetto torna ad essere frutto di uno strano agglomerato atomico. Annoiarsi è trovare che, con quegli oggetti, non si riesce a comunicare; è un malessere che dà la sensazione di essere murati vivi dentro se stessi, “come dentro a una prigione ermetica e soffocante”. Un senso di tedio profondo e insondabile che non ci permette di andare fino in fondo alle cose che intraprendiamo: vorremmo fare tutto e niente, vorremmo che tutto fosse già stato fatto – come per una bizzarra forma di impazienza – così da poterne raccogliere i frutti. Vorresti leggere, ma sfogli cento libri e nessuno di quei cento sembra fare al caso tuo; niente ti ispira, niente ti incuriosisce di una curiosità vera, sincera e durevole, perché nemmeno tu sai ciò che vuoi. Vorresti ascoltare della musica, ma le tue orecchie non solo si rifiutano di ascoltare, ma anche di sentire. Tutto ti è estraneo, niente ti tocca. E, se lo fa, ti dà fastidio.

“Ciò che mi colpiva, soprattutto, era che non volevo fare assolutamente niente, pur desiderando ardentemente fare qualche cosa. Qualsiasi cosa volessi fare mi si presentava accoppiata come un fratello siamese al suo fratello, al suo contrario che, parimenti, non volevo fare”[17].

Non vuoi fare una cosa, ma neppure è vero che non la vuoi fare.

“Ogni tanto, tra queste frenesie della noia, mi domandavo se per caso non desiderassi morire; era una domanda ragionevole, visto che vivere mi dispiaceva tanto. Ma allora, con stupore, mi accorgevo che sebbene non mi piacesse vivere, non volevo neppure morire. […] In realtà, come pensavo qualche volta, io non volevo tanto morire quanto non continuare a vivere in questo modo”[18].

“È difficile dire quel che provassi quando pensavo queste cose. Come un senso di stregoneria meschina contro la quale non potevo far niente, perché non potevo sapere quando né come né dove fosse stata praticata la magia che mi irretiva”[19].

Dino, il protagonista de “La noia”, è ricco e fa il pittore, ma niente lo soddisfa. Adduce la colpa di questa sua noia/insoddisfazione alla ricchezza economica di cui gode e si convince che se fosse povero non avrebbe il tempo di annoiarsi e, in più, sarebbe costretto ad accontentarsi di ciò che la vita gli offre, ma scopre che neanche rinunciando agli agi e alle comodità la sua noia scompare. Lacera una tela su cui aveva lavorato per mesi, mettendo fine – almeno per un po’ – alla propria carriera artistica, ma l’alternativa è tornare a vivere con la madre e nemmeno questo lo appagherebbe, anzi. E poi scopre che anche il padre soffriva di una particolare forma di noia e si dedicava ai viaggi per potersene liberare.

Ma la noia non scompare solo se ci allontaniamo fisicamente: essa ci segue ovunque andiamo, perché vuole dirci qualcosa. E finché non avremo deciso di ascoltarla e capiremo cosa ci serve per appagarla non ce ne libereremo. La noia è come un prurito mentale…

Pensiamo di dover sempre impiegare il tempo facendo qualcosa, invece quel che ogni tanto sarebbe bene facessimo è NIENTE, per dare quel tempo alla noia, per lasciare i pensieri liberi di fluire sereni o di correre impetuosi in tutte le direzioni, come impazziti.

Annoiarsi è forse cercare qualcosa a cui sentiamo di essere destinati e non riuscire a trovarlo. Adamo ed Eva erano sicuramente contenti nel Giardino dell’Eden, ma erano felici? Tutti i Faust vogliono qualcosa che non riescono a identificare; tutti i Faust si annoiano e vendono l’anima al Diavolo che promette sempre di dar loro ciò che cercano. Ma, non potendo accontentarli nelle loro “specificità”, li irretisce con promesse “standard”: sesso, denaro, successo, tempo, potere… La vera ricchezza non può essere quantificata, mai. I desideri sono troppo preziosi, ma – paradossalmente – non c’è bisogno di s-vendersi, per ottenerne la realizzazione. Come ci si s-vende? Mettendo a tacere i propri ideali, l’etica, il rispetto di sé e degli altri, ad esempio. È una forma di prostituzione, insomma. E quando ci si rende conto di aver fatto qualcosa di losco, di meschino, di basso, si vorrebbe tornare indietro, magari, ma a volte è davvero dura. Qualcuno si convincerà persino di non meritare la cosiddetta Grazia Divina e, per questo, non l’avrà. Per presunzione o per avarizia di sé. Che tu pensi di farcela oppure no, hai comunque ragione, perché ti metterai interiormente in una posizione che ti dia ragione.

“Verrà un giorno in cui, spinto dal tedio e dalla noia, lei cercherà di riavere ciò che oggi ha rifiutato, ma sarà troppo tardi; non si sfugge al proprio destino”[20].

Eppure il “diavolo” fa ancora e sempre tante vittime. “Diavolo” tra virgolette, perché spesso, in luogo di questo termine forse sentito come un po’ antiquato, sono emersi nuovi appellativi: “dio denaro”, “raptus di follia”, “schizofrenia”, sono alcuni dei nuovi nomi che ha assunto il Diavolo, per stare al passo coi tempi.

Ma come si resiste alle tentazioni? Gesù ce lo spiega attraverso le parole del Vangelo di Matteo (4, 1-11):

“Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei il Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.

Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei il Figlio di Dio, gettati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra».

Gesù gli rispose: Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».

Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai».

Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto».

Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano”.

Può arrivare un momento nella vita di un individuo in cui ci si trova smarriti; tutto intorno solo sabbia a perdita d’occhio, niente riparo dal clima arido, niente possibilità di ristoro, niente beni essenziali, niente di niente. Il nulla incombe come su Fantàsia. È in quei momenti che occorre prestare attenzione, anche se (anzi, proprio perché) si è debilitati dalla sofferenza (o dalla noia). Il Diavolo è in agguato e forte abbastanza da avanzare proposte: beni materiali, ricchezze terrene, fama e notorietà, potere (o super-poteri, vale a dire capacità fuori dalla norma o talmente straordinarie da sembrarlo). Ci hanno insegnato a scacciare il Diavolo, in queste occasioni, ma a me è parso che Gesù abbia fatto molto di più (o molto di meglio): lo ha, prima di tutto, ascoltato. Ascoltare e controbattere gli ha dato il tempo di raccogliere i pensieri e di comprendere se stesso e il proprio desiderio – ovvero la moralità o l’inconscio diabolico che lo tormentava – così che quest’ultimo, dopo aver fatto ciò che era stato chiamato a fare, lo ha semplicemente lasciato, cedendo il posto alle parti più etiche di sé. È come se avesse la storia dicesse: guàrdati intorno, non accontentarti, le risorse arriveranno: da fuori o da dentro, proprio come angeli pronti a servire il tuo vero desiderio. Scritta come è scritta, la parabola sembra raccontare di un diavolo che sta fuori, una figura altra rispetto a Gesù, ma siamo sicuri che non sia una metafora? Scendere a patti con se stessi e la propria “fame” assomiglia in tutto e per tutto al cedimento nei confronti del Tentatore. E chi può essere questo fantomatico Tentatore se non ciò che di più oscuro e meschino ci portiamo dentro noi come Gesù? Quando ci annoiamo o siamo “affamati” siamo più vulnerabili e tendiamo a volere ciò che vogliono tutti (o che tutti pensano di volere), ci affidiamo a un panopticon interiore - proprio come Francesco Piccolo ne “L’animale che mi porto dentro” - che ci scruta, ci osserva, ci suggerisce soluzioni già viste e già usate. Vuoi fare carriera? Fingi di essere chi non sei e di avere ciò che non hai… Hai bisogno di soldi? Bara, menti, o trasformati in un materialista… Magari potresti usare ciò che hai già, stare fermo nell’azienda di famiglia che non ti piace ma che ti sostenta (se Gesù avesse accettato di trasformare le pietre in pane forse non sarebbe mai uscito dal deserto perché si sarebbe accontentato di quello che aveva sotto i suoi piedi).

 

 

 

 

DA UN DIALOGO CON L’OMBRA

 

-         Gli scienziati si interrogano su quanto concerne la nascita dell’Universo. Tu che mi sai dire?

-         Dicono sia avvenuta una forte esplosione – il Big Bang – e da lì sia nato tutto.

-         Mi suona strano: se tutto è nato col Big Bang, cosa c’era prima?

-         È la stessa domanda che mi sono fatta io, leggendo la Genesi… Se tutto è stato creato da Dio, chi ha creato Dio?

-         Dio non è stato Creato: Dio è sempre, da sempre e per sempre.

-         Ma, a un certo punto, questo Dio che è sempre, da sempre e per sempre, ha creato l’Universo, che ha dato i natali all’essere umano, che a sua volta ha inventato l’idea di Dio…

-         Ma hai detto che l’Universo è nato col Big Bang: dunque il Big Bang è Dio? Oppure Dio è l’Universo stesso?

-         No, il Big Bang riguarda la Scienza, mentre Dio riguarda la Religione.

-         Non è una risposta, ma vedo che sei in difficoltà, perciò ti farò un’altra domanda: cosa c’era prima della Creazione? Voglio dire: cosa ha usato Dio per creare la luce? Che poi è come dire: cosa è esploso nel Big Bang?

-         Non sono un fisico, non so rispondere neanche a questa domanda.

-         Allora proviamo con questa: se Dio è sempre, da sempre e per sempre, dovrebbe esserlo anche l’Universo, invece l’Universo è stato creato… Che cosa ha fatto Dio per tutto il tempo in cui non c’era l’Universo?

-         La maggior parte delle persone sostiene che l’Universo sia stato creato, ma se invece si fosse creato?

-         Che vuoi dire?

-         Voglio dire che, come scrisse John Keats, “Chi è creativo deve creare se stesso” . Magari l’Universo si annoiava…

-         Oh, no! Ci risiamo con la storia della noia!

-         Pensa all’Universo come una gigantesca massa informe, immobile fuori ma in fermento dentro: una situazione del genere non può durare in eterno, prima o poi qualcosa deve “esplodere”, ed ecco che l’esplosione, lo scoppio, libera energia creativa e nasce la Terra e tutto il resto. Creare è la conseguenza di un bisogno, è lo stadio successivo alla (e della) noia, per l’appunto. Che ne dici?

-         Dico che è un’idea assurda: il mio intestino non fa la cacca perché si annoia, fa la cacca perché ha bisogno di espellere le scorie accumulatesi al suo interno. In parole povere: l’intestino non crea un bel niente, si libera solamente di un peso!

-         Sì, ma lo fa dopo averlo plasmato. Esattamente come ha fatto Dio.

-         Sento di nuovo il bisogno di contraddirti: Dio non crea l’Universo da cose già esistenti, perché prima di crearle deve inventarle…

-         Non riesco a immaginare un Dio che crea gli atomi e poi li aggrega a formare cose, un Dio che gioca con le molecole… Per me, c’erano già i fondamentali: gli atomi. Dio li ha solo assemblati.

-         Comunque stiano le cose, se si vuole contrastare la noia in modo efficace bisogna dedicarsi ad attività che diano riscontri tangibili e immediati.

-         E su questo sono d’accordo con te.

 

 “Ti noiavi miseramente con la tua pudica intelligenza?”[21]

Dio sapeva già tutto, ecco perché si è esercitato nella noia; ha cominciato a guardare le cose in maniera diversa e poi ha iniziato a vederle in modo diverso ed è così che ha potuto creare. Ha creato un linguaggio visivo nuovo. Forse la luce c’era già, andava solo “rivista”; o forse era il buio che per essere notato andava messo in contrasto con qualcosa che fosse l’assenza di buio. Ogni opposto, se ci faccio caso, è l’assenza momentanea di qualcosa. Il giorno è l’assenza (momentanea) della notte, ad esempio. Ma nel ciclo della vita è previsto l’arrivo della notte, dopo il giorno, e così ecco che la notte arriva e poi di nuovo se ne va, per lasciare il posto al giorno… Tutto è un passaggio – più o meno graduale – da uno stato all’altro. Anche la vita e la morte sono contrapposte eppure non lo sono: sono passaggi, sono assenze momentanee l’una dell’altra e nello stesso tempo non sono mai del tutto assenti l’una nell’altra. C’è un po’ di vita nella morte e c’è un po’ di morte nella vita… E il diluvio faceva parte del ciclo naturale di rinnovamento, un ciclo che aveva e ha lo scopo di mantenere l’equilibrio universale, lo stesso equilibrio che c’è (o dovrebbe esserci) tra bene e male. In un’epidemia – che è male – c’è anche del bene: la morte porta via degli individui, ma la malattia rafforza chi sopravvive; la natura tenta di ristabilire un equilibrio tra le risorse disponibili e la conta degli esseri viventi presenti sul pianeta… Sempre che l’epidemia abbia origini naturali.

“Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo e vede ora. La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il cuore più ferito della terra. […] Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura”[22]. Queste parole di Candiani hanno molto in comune con quelle di Moravia: lasciare andare concetti, significati, giudizi e pregiudizi e concentrarsi sul sentire; prendersi una pausa dalla convinzione di sapere e conoscere e dedicarsi al non sapere, concentrarsi sul cosa ci trasmette la tal cosa, su come ci fa sentire la tal altra; guardarsi attorno “con gli occhi grandi dei bimbi piccoli” [23]e lasciarsi guidare dalle sensazioni. Praticare la noia a livello avanzato, l’osservazione senza l’ausilio di parole, senza le gabbie delle definizioni verbali. E una volta trovata la sensazione che ci fa stare bene, concentrarsi su di essa e lentamente riprendere contatto con la realtà, come svegliandosi da un lungo sonno ristoratore. A quel punto anche le paure che prima disturbavano i nostri desideri si saranno diradate e saremo liberi di creare un mondo in cui sia presente quella cosa che ci ha fatti star bene, nel modo in cui vogliamo. Mi guardo intorno, nella stanza in cui sto scrivendo e, senza pretesa alcuna, mi lascio andare alle sole sensazioni. Il mio sguardo vaga annoiato e nel campo visivo entrano: un oggetto sferico decorato con disegni colorati, molte scritte e tanto azzurro, passo oltre e vedo un rettangolo bianco fermato su una cornice di legno da delle graffette metalliche, vado avanti e scorgo un tronco di cono nero tenuto in piedi da un’asta montata su una base, poi una boccetta trasparente con all’interno un liquido nero che la riempie per due terzi e all’esterno un’etichetta con due parole; e ancora, un pezzo di metallo intagliato in forma umana che regge qualcosa in una mano e qualcos’altro nell’altra e alle cui spalle spuntano due cose, una testa dorata con uno strano spuntone tra gli occhi, altri oggetti di vari materiali tutti di figure umane, dei cilindri colorati composti da due parti; poi mi volto e la mia vista si perde in una distesa di parallelepipedi disposti in piedi e sdraiati, uno in fila all’altro e uno sopra l’altro: qualcuno di essi mi cattura più a lungo o mi fa tornare a osservarlo. Ci metto un bel po’ per liberarmi dai significati del loro uso. È veramente difficile accantonare il fatto che la sfera sia un mappamondo, il rettangolo bianco sia una tela ancora da dipingere, il tronco di cono una lampada da tavolo, la boccetta un calamaio con su scritto ‘Inchiostro nero’, la figura in metallo una statuetta di un angelo che suona il violino, la testa dorata una testa di Buddha, altre statuette soprammobili, dei pennarelli da lavagna magnetica, dei libri disposti sia in verticale sia in orizzontale, vicini gli uni agli altri. Prima o poi capita che gli occhi si posino su qualcosa che non ricordiamo o non capiamo cosa sia e allora vediamo l’essenza di quella cosa, senza attribuirle usi o significati o ricordi specifici. Per qualcuno è una bella sensazione, di sorpresa e meraviglia, per qualcun altro invece potrebbe essere spaventoso perché sa di aver perso il controllo su ciò che lo circonda. Ma potrebbe anche accadere che qualcosa attragga la nostra attenzione e ci faccia stare inaspettatamente bene: coccoliamo quella sensazione, crogioliamoci in essa, lasciamo che ci avvolga e ci parli senza parole. La comunicazione avverrà attraverso le sensazioni. Potreste essere attirati da quello che scoprirete in seguito, quando tornerete alla realtà, potrebbe trattarsi di un fiore, oppure potreste soffermarvi su di un abito, su una particolare scodella, sulla testiera del letto, su un ricamo di un cuscino, sul dettaglio di una scarpa o sulla scarpa in sé, o magari vi potreste incantare a guardare una figura umana che sorride mentre voi sorridete e spalanca gli occhi alla vostra stessa meraviglia: scoprendo che siete voi nello specchio potreste provare un moto di compassione, un’ondata di schifo, un bisogno di affetto, una piacevole sorpresa o qualsiasi altra cosa. Accogliete tutto e prima o poi avverrà una magia: scoprirete che volete saperne di più, volete approfondire quella cosa che vi ha colpiti. Siete stati folgorati (in bene o in male) da quelli che avete scoperto essere i vostri capelli? Forse vi verrà in mente di cambiare look o addirittura di studiare da parrucchieri e cambiare il look anche ad altri/e. Siete rimasti incantati dal fascino imponente di un armadio? Avete mai pensato di intraprendere una carriera come ebanisti, intagliatori o interior designer (arredatore d’interni)? Forse è il sogno della vostra vita e neanche lo sapevate! Come vi fa sentire quel CD sullo scaffale? E quel quadro appeso alla parete? E il luccichio di quella collana? Ci vogliono tanto tempo e tanto esercizio per cominciare a guardare le cose senza vederle (e proprio per questo vederle veramente), ma ne vale la pena. Forse può aiutarvi immaginare di essere degli alieni venuti da un altro pianeta. Una forchetta come farebbe sentire un extraterrestre? E una tenda? E una moto? Un alieno non sa cosa sia una forchetta, né che si chiami così, né a cosa serva, né di quale materiale sia fatta, ma mentre la osserva potrebbe provare sensazioni piacevoli o spiacevoli o potrebbe semplicemente essere indifferente e passare oltre. Fatelo, poi ditemi com’è andata.

Questo gioco è un esercizio di perdita che può essere fatto anche con le persone: come ti senti al cospetto di quella creatura, dopo esserti dimenticato il suo nome, il suo ruolo e quello che ha fatto e detto in passato? Guarda tuo marito come se non lo conoscessi, come se lo vedessi per la prima volta… Cosa provi? Prendere le distanze da cose e persone significa perdere il punto di vista su di loro, imparare a vederle con occhi nuovi, notare ciò che non avevamo mai notato o che avevamo cercato di ignorare. Spesso mi sono trincerata dietro una vecchia immagine di qualcuno per la paura di lasciar andare quel qualcuno, ma facevo solo male a me stessa e a quella persona. Un po’ come sforzarsi di restare innamorati del coniuge guardando e riguardando le fotografie del passato. Rimanere attaccati ai ricordi per paura che le cose cambino (o per paura di ammettere che siamo cambiati noi) è da stupidi e non porta bene.

Nel libro di Chandra Candiani, “Questo immenso non sapere” (p. 148) ho trovato una citazione molto azzeccata, a tal proposito:

«La perdita è un’esperienza che porta a una strada nuova. Una nuova occasione per pensare in modo diverso. Perdere non è la fine di tutto ma la fine di un certo modo di pensare. Chi cade in un punto, in un altro si rialza. Questa è la legge della vita».[24]

Perdere le staffe, la trebisonda, la pazienza; perdere il senno, la cognizione del tempo, l’orientamento. L’elenco è più lungo, ma questi esempi già possono bastare a raccontare cosa sia la perdita. Smarrire i punti di riferimento è destabilizzante, sempre, ma segue un rinvigorimento che dà nuova linfa ai nostri giorni su questa Terra. Arrabbiarsi, spazientirsi, imboccare una strada diversa, vagare in uno spazio senza tempo fanno paura, sia a noi sia a chi sta vicino a noi, ma possono essere anche cose utili. Arrabbiarsi, ad esempio, può voler significare che non siamo più disposti ad accettare qualcosa che consideriamo tossico; spazientirsi è simile e può darci la misura dei nostri limiti perché possiamo superarli; perdere l’orientamento è un’opportunità per trovare nuove strade, forse strade che nessuno ha mai percorso prima… Perdere qualcuno che amiamo è doloroso e lo so bene anch’io che, negli ultimi otto anni, ho perso ben sei elementi di sostegno, nella mia vita, ma – a volte – scatena un mastino interiore…a me ha dato la forza di scrivere questo libro

“E se fa molto male?

Traduci tutto su scala cosmica, prendi il cuore tra i denti, scrivi un libro”.[25]

e di intraprendere un percorso differente. Ho pianto come mai prima, ho bestemmiato, ho provato un dolore così lacerante da farmi maledire il giorno della mia nascita (come Giobbe) e da farmi desiderare di morire per poter riabbracciare coloro che avevo perso. Non è ancora finita, sto ancora attraversando l’inferno, le ferite sono aperte e sanguinano, bruciano, dolgono tanto da farmi urlare, ma ora sono in grado di guardare in faccia la sofferenza. Devo ancora imparare ad ascoltare il male senza considerarlo male, ma almeno posso guardarlo negli occhi.

“Starò con il male come male, senza infiorarlo né velarlo, lascerò che passi in me come una tempesta e gli domanderò cosa sente, perché percuote furiosamente tutto, perché non si lascia ascoltare. E ho un’indomabile fiducia. In cosa? Non lo so, è senza nome”. [26] “Non concederò più tempo alle voci che profetizzano solo il crollo senza sentire la necessità di cadere per potersi rialzare”. [27]

Mi sto allenando ad ascoltare il male fin da quando ho iniziato le mie ricerche per scrivere questo libro, vale a dire da circa otto anni, ma non sono riuscita a ritrovare la fiducia che riponevo in quella cosa senza nome di cui parla Candiani. Una volta ce l’avevo, ma tutto il male che mi è piovuto addosso nel tempo ha corroso la sensazione di roseo futuro che avevo da bambina. Quando ero piccola ero convinta che avrei cambiato il mondo, che avrei fatto cose grandi e meravigliose, che sarei stata una figura di riferimento per tanti, ma poi, una notte, mi hanno rubato la bacchetta magica. E parlo seriamente, non per metafora.

“Forse la perdita più grande nella vita di una persona è la perdita della magia. […] Bisogna fare grande attenzione al rischio degli assassini di magia”. [28]

Quando ho letto questa frase sul libro di Candiani ho ripensato a quando l’hanno rubata a me, la magia. Avrò avuto sei anni o giù di lì e stavo dormendo. Forse influenzata dai cartoni animati dell’epoca, forse preda del mio Daimon o forse solo della speranza più ingenua, dovuta all’età, la mia mente stava producendo un bellissimo sogno. Uno stato onirico talmente vivido da sembrare reale. E forse lo era davvero. Stavo sognando di avere grandi poteri magici che derivavano dalla mia portentosa bacchetta. E quella bacchetta era poggiata lì, davanti a me, nel mio sogno/realtà. Poi, qualcuno o qualcosa nel sogno mi ha distratta svegliandomi. Ho aperto gli occhi e mi sono alzata di scatto a sedere sul letto, buttando le braccia in avanti, sulla coperta, per afferrare la bacchetta (che credevo fortemente di avere anche nella realtà vera), ma quella era sparita. Non ho pensato neanche per un attimo che non l’avessi mai avuta e che tutto fosse stato solo e soltanto il frutto della mia fervida immaginazione, ho pensato (e penso tuttora) che mi abbiano derubata. Lo so perché lo sento e lo sento perché da quell’istante ho cominciato a provare la paura di non farcela, di non avere successo, nella vita. Che cos’era quella bacchetta? Chi me l’ha rubata e perché? Dove si trova, adesso? E posso recuperarla? Come si cambia un mondo? Come si cambia il Mondo? Che differenza c’è tra mondo e Mondo? In questo caso  la noia rappresenta il differenziale tra aspettativa e realtà: ciò accade, come è accaduto a me, quando ci si scontra con una realtà che non rispecchia i desideri. Ed è noto che una bacchetta magica è un mezzo assai poetico e misterioso per trasformare la realtà.

Una bacchetta magica è, solitamente, uno strumento molto potente che i maghi hanno a disposizione per far apparire e scomparire le cose, per far del bene ma anche del male, per modificare gli eventi. La mia, forse, era la fiducia nelle mie capacità, oppure la fortuna, o – ancora – la connessione con l’Universo. L’immaginazione e la creatività non mi mancano, perciò non credo fosse quella la funzione della mia bacchetta. Ho fatto un inventario di ciò che avevo e non ho più e mi sono accorta che la sicurezza e la sensazione di avere tutti i tasselli del puzzle mancano all’appello. È un male a tutti gli effetti? Forse no, ora che ci penso attentamente. In fondo, anche nel film “L’apprendista stregone” il protagonista, Dave, (allarme spoiler!) può fare a meno, alla fine, dell’anello di Merlino per sconfiggere Morgana. L’anello era solo un mezzo esterno, così come probabilmente lo era la mia bacchetta. Il fatto che me l'abbiano rubata, mi ha spinta a farmi crescere una forza intrinseca che prescinde dal possesso di un arnese. Mi sono fatta crescere la magia dentro, così che nessuno potesse più portarmela via e io non avessi più bisogno di mezzi che non fossero le mie sole forze.

 

LA NOIA

La noia è con me

come un’espressione d’impotenza,

come di certezze una mancanza,

come un re

senza il suo regno,

come il vuoto di una stanza

piena di caos.

 

Come la voglia di far qualcosa,

non si sa cosa;

come la volontà di agire

o aver agito

e finalmente gustare

i frutti di quell’operato.

 

La noia è con me

con frustrazione

e con fermento,

mi separa dal godimento

della passione,

dal desiderio di essere azione

e mi fa essere agita

dal tormento.

 

La noia è con me, adesso.

La noia è con me, sempre.

 

06/09/24

 

“La noia è il fenomeno che accompagna tutto quanto viviamo senza tradurlo in atto. In quello che avrebbe potuto essere e non è, nelle prefigurazioni dell’esistenza, risiede il pregiudizio. La virtualità che non si compie più, come una gemmazione assurda nel corso di una stagione senza fine – è da qui che proviene lo stato di possibile della noia. È l’indefinito senza contenuto che contiene tutto, è il vago come unico timoniere sulle onde di un’anima che avrebbe potuto esistere…”[29]

DA UN DIALOGO CON L’OMBRA

- La noia è un senso.

- È una sensazione, volevi dire.

- E se invece fosse anch’essa un senso, alla stregua dell’olfatto, del gusto, del tatto, della vista e dell’udito?

- Hai dimenticato di citare il sesto senso…

- Hai ragione! In effetti, forse, la noia è più simile al sesto senso che agli altri cinque. Potrei azzardare dicendo che la noia è il settimo senso.

- E in base a cosa lo diresti?

- In base al fatto che entrambi – il sesto e il settimo – sono legati a cose come l’istinto, il desiderio e l’intuizione. Il sesto è la capacità di captare segnali invisibili o codificati e di applicarli alle scelte di vita. Il sesto senso è il sapere una cosa ma non essere in grado di spiegare, usando la logica, di spiegare il perché si sappia quella cosa. È allora che si è soliti dire cose come: “lo so e basta” oppure “sento che è così”.

- E la noia?

- La noia è ciò che fa dire “questo non mi va, non so per quale ragione, ma non mi interessa”.

- Resto dell’idea che ciò che hai appena descritto assomigli più alla definizione di “sensazione” che a quella di “senso”.

- Perché pensi che ci sia una grande differenza tra le due, ma non è così.

- Guarda che l’una – la sensazione – è soggettiva, mentre l’altra – il senso – è oggettivo.

- Questo non è sempre vero: a volte ci sono degli “sconfinamenti”.

- Fammi un esempio.

- Qual è il profumo più famoso al mondo?

- Chanel n° 5

- Bene, e ammetterai che oltre ad essere molto conosciuto è anche molto apprezzato dalla maggior parte delle persone.

- Sì, è così, ma…

- Ma cosa?

- Ma a me non piace. Inoltre non credo che spanderebbe un aroma gradevole se lo usassi su di me: molti profumi cambiano odore quando entrano in contatto con la mia pelle.

- Vedi? Ciò che per alcuni è profumo, per altri è puzza; ciò che per alcuni è una cosa deliziosa, per altri è una porcheria. Eppure, Chanel n° 5 è universalmente noto e catalogato come profumo, non come puzza. Il gorgonzola, tanto per fare un altro esempio, è riconosciuto come formaggio prelibato, eppure quel latticino ammuffito non è buono per tutti. Esempio ancor più calzante è il Casu Marzu, il tipico formaggio sardo coi vermi…

- Bleah, al solo pensiero mi sento male.

- Ecco, come volevasi dimostrare.

- Parli bene tu, ma una cosa marcia o putrefatta fa schifo a tutti.

- Tu credi? Pensa alle mosche e a dove si appoggiano…

- Sì, ma io non sono una mosca!

- Questo è vero, ma considera un altro esempio: tutte le materie scolastiche sono belle e interessanti, ma non a tutti piace la matematica. La Storia, la geografia, la lingua latina, sono bellissime, ma per alcuni è un piacere studiarle e non fanno fatica a farlo, mentre per altri, il dover imparare le capitali del mondo, la lunghezza dei fiumi, i motivi della Rivoluzione francese e i verbi latini è una tortura e non c’è verso di fargli entrare in testa certe nozioni.

- Dove vuoi arrivare?

- I sensi possono dirti se una cosa è buona o no, invece le sensazioni ti dicono se una cosa è buona o no PER TE.

- Allora, tornando alla noia, diresti che è un senso o una sensazione?

- Se partiamo dal presupposto che tutte le sensazioni derivino dai sensi, non ci resta che domandarci: cosa nasce dalla noia?

- Probabilmente nascono quelle cose che chiamiamo “prurito interiore”, “frustrazione”, “sonnolenza ingiustificata”, “iperattività”, “deficit dell’attenzione”, “disagio”…

- Sì, basta grazie, ho compreso il punto. Perciò ecco che la noia potrebbe essere un senso. Potrebbe, ma non è cosa certa. Chiediamoci ora: la noia ha origine da qualcosa?

- Anche in questo caso la risposta è affermativa: la noia è il prodotto di una mancanza (oppure di una sovrabbondanza) di stimoli e/o di tempo sufficiente per approfondirli (sebbene, in questo caso, si tratti più che altro di frustrazione); la noia deriva da un senso di vuoto interiore, da un bisogno che non sappiamo come colmare. La noia arriva quando ti sembra di non fare niente di utile.

- Utile per sé o per gli altri?

- Dipende dalla persona che la sperimenta e dalle circostanze che l’hanno spinta a sperimentarla.

- Riassumendo: se la noia deriva da qualcosa e qualcos’altro deriva dalla noia, essa è sia una sensazione che un senso. E, se è entrambe le cose, è sia oggettiva che soggettiva. Dico bene?

- Sì, è esatto. Ciò che senti coi sensi influenza le sensazioni che provi. Ma non dimenticare che non tutti hanno la stessa sensibilità, vale a dire che tutti possiedono la capacità di annoiarsi, ma non tutti la sviluppano o sanno riconoscerla quando la provano. Lì subentra l’esperienza, sempre che ci sia.

- E dove manca l’esperienza?

- Allora è l’istinto a prendere la parola…



[1] Pag. 127 di Giuseppe Ungaretti, “Visioni di William Blake”, Mondadori

[2] Sandro Penna, “Solfeggio”, Mondadori (“Poesie”), p. 147

[3] Pp. 9 e 10 de “La noia” di Alberto Moravia, ed. Bompiani.

[4] Pag. 150 de “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde, ed. Mondadori.

[5] Arthur Schopenhauer

[6] Pag. 57 Sebastiano Vassalli, “Dio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni”, Einaudi

[7] W, Goethe, “Faust”, Feltrinelli, p. 167

[8] A. Nothomb, “Causa di forza maggiore”, Voland

[9] Francesco Piccolo, “Scrivere è un tic”, ed. Einaudi, pp. 76 e seg.

[10] Francesco Piccolo, “Scrivere è un tic”, ed. Einaudi, pp. 76 e seg.

[11] Francesco Piccolo, “Scrivere è un tic”, ed. Einaudi, pp. 76 e seg.

[12] Francesco Piccolo, “Scrivere è un tic”, ed. Einaudi, pp. 76 e seg.

[13] Franco Arminio, “Contro la noia”, da “La cura dello sguardo”, ed. Bompiani, p. 116

[14] Goethe, “Faust”, Feltrinelli, p. 17

[15] p. 123 di Chandra Candiani, “Questo immenso non sapere”, Einaudi

[16] Christian Friedrich Hebbel, 1912, traduzione di Scipio Slataper.

[17] A. Moravia, “La noia”, Bompiani, p. 18

[18] P. 18 de “La noia” di Alberto Moravia, Bompiani

[19] P. 15 de “La noia” di Alberto Moravia, Bompiani

[20] A. von Chamisso

[21] Thomas Mann, “Doctor Faustus”, Mondadori,  p. 359

[22] Chandra Candiani, “Questo immenso non sapere”, Einaudi, p. 9

 

[23] Psico e Ortiz feat. Rula e Mary Vee - DREAMS

[24] Mohammad Mogtari, poeta iraniano, citato in K. Abdolah, “Scrittura cuneiforme”, trad. it. di E. Svaluto Moreolo, Iperborea, Milano 2003, p. 203

[25] [Candiani, p. 154, da V. Šklovskij, “Zoo o Lettere non d’amore”, trad. it. di S. Leone e S. Pescatori, Einaudi, Torino 1966, p. 28]

 

[26] Chandra  Candiani, “Questo immenso non sapere”, Einaudi, p. 152.

[27] Chandra  Candiani, “Questo immenso non sapere”, Einaudi, p. 152

 

[28] Chandra  Candiani, “Questo immenso non sapere”, Einaudi, p. 144

 

[29] Pp. 84-85 di “Finestra sul nulla” di E. M. Cioran, Adelphi.

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