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LA BELLEZZA

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sabato 28 maggio 2022

Amélie Nothomb, PRIMO SANGUE

Amélie Nothomb, PRIMO SANGUE, Edizioni Voland. Traduzione di Federica Di Lella.

 

“Primo sangue” è il centesimo libro di Amélie Nothomb. Sì, avete capito bene, il libro numero 100. “Ma ovunque c’è scritto che è il trentesimo”, obietterete voi, “come mai questa incongruenza?” La risposta è che non si tratta di una incongruenza. “In che senso?” domanderete, allora. Nel senso che “Primo sangue” è il trentesimo libro pubblicato su 100 libri effettivamente scritti. [Ad oggi, in realtà, 105.] Dovete sapere, infatti, che la “madre” di questi “figli di carta”, Amélie Nothomb, è una donna estremamente prolifica dal punto di vista letterario: ogni giorno, da molti anni, scrive dalle 4 alle 8 del mattino. Soltanto una volta ha fatto un’eccezione a questa routine ed è stata per lei un’esperienza orribile, da non ripetere. “Primo sangue” è un omaggio di Amélie a suo padre, il diplomatico Patrick Nothomb, morto durante il lockdown imposto a causa del Covid. Patrick, un uomo, un padre, sopravvissuto a innumerevoli sciagure e disgrazie; e Amélie, una donna, una figlia  addolorata per una perdita tanto inaspettata, e incredula perché il fatto di non aver potuto partecipare al funerale le ha reso la notizia dell’accaduto ancor più inverosimile. È dunque il trauma della perdita a scatenare nella scrittrice il desiderio di far rivivere il proprio padre; è il trauma a spingerla e a consentirle di “dare la voce” al padre, tanto è vero che – leggendo “Primo sangue” – il lettore ha l’impressione di sentir parlare Patrick Nothomb. Chi lo ha conosciuto personalmente ha potuto constatarne la “presenza” nelle pagine del romanzo, proprio come se lo avesse scritto lui o, meglio, come se lo avesse raccontato lui stesso, con le proprie parole, con la propria voce. Allo stesso modo, chi non lo ha mai conosciuto, ma ha letto il libro di Amélie, ha l’impressione di aver sentito parlare Patrick. È stato commovente poter ascoltare la scrittrice che, al Salone Internazionale del Libro di Torino di quest’anno, in ben due occasioni ha raccontato cosa ha significato per lei suo padre e cosa ha voluto dire affermando di avergli “dato la voce”. Patrick Nothomb ha avuto un’infanzia durissima, fatta di fame, di freddo, di privazioni e di violenza, ma il suo carattere, forgiato in un ottimismo e in un entusiasmo eccessivi, anzi, esasperati (ed esasperanti per Amélie e i suoi fratelli André e Juliette - che spesso, da piccoli, venivano portati in gita nei lebbrosari o erano costretti a vivere vergognandosi per il solo fatto di aver qualcosa da mangiare mentre intorno a loro regnavano la povertà e la fame), gli ha permesso di conferire un’aura di bellezza anche alle brutture della sua vita. Il libro, però, non ha un assetto cronologico standard, poiché si apre in medias res, in un episodio della vita di Patrick che ha fatto di quest’ultimo un eroe, nel vero senso della parola. È una scena, la prima, che richiama in maniera molto vivida un’esperienza che anche lo scrittore russo Dostoevskij ha vissuto sulla propria pelle: chi legge, infatti, si trova catapultato nello scenario di una fucilazione. C’è un plotone di esecuzione, ci sono dodici fucilieri, c’è la vita che dilata i propri tempi di fronte alla prospettiva della morte. Il condannato è Patrick. Come risulta chiaro dalle prime parole del mio articolo, Patrick si salverà, ma il lettore lo intuirà solamente nell’ultima pagina del romanzo, quando la fine si riunirà al principio, chiudendo il cerchio della giovinezza del protagonista. Amélie ci lascia, infatti, di fronte al plotone d’esecuzione per tutta la durata del suo libro, dando la netta impressione che la vita stia scorrendo davanti agli occhi del padre. [Il romanzo è scritto in prima persona.] D’altronde lo si sente dire spesso: quando ti trovi in prossimità della morte, tutta la vita ti passa davanti in pochi istanti, come in un film. Sarà vero? Beh, che sia vero oppure no, questo detto risulta essere particolarmente efficace come espediente narrativo. Ma che cosa passa davanti agli occhi di Patrick Nothomb mentre attende di essere fucilato? Il corpo centrale del libro racconta proprio questo: 28 anni di vita, dall’infanzia al primo incarico diplomatico, passando per il matrimonio con  Danièle, la nascita dei primi due figli (André e Juliette) e una fobia quasi invalidante chiamata “emofobia”, ovvero la tendenza a svenire alla vista del sangue.

“Ma come ha fatto, Amélie, a scrivere del padre, con la “voce” del padre, se lui non parlava quasi mai?” Ve lo state chiedendo, vero? Se è così, sappiate che la domanda è legittima e la risposta è: dalla moglie (cioè la madre di Amélie) e dagli zii del padre, coetanei dello stesso Patrick. [Sì, è bizzarro, avete ragione ma tant'è.]

Prima di proseguire, vorrei chiarire una cosa: sto scrivendo questo articolo di getto, senza l’ausilio di una scaletta, però adesso mi corre l’obbligo – più che altro per chiarezza espositiva – di argomentare in maniera più approfondita le informazioni a cui fino ad ora ho strizzato l’occhio. Partirei dalla tendenza parsimoniosa di Patrick nell’uso delle parole. Patrick era un diplomatico con una sorta di “schizofrenia del linguaggio” - passatemi questa brutta definizione – per la quale era portato a intrattenere lunghe e complesse conversazioni all’interno del contesto lavorativo, mentre centellinava le parole quando si trovava all’interno del contesto famigliare/privato. La sua non era semplice riservatezza; Patrick Nothomb parlava poco, pesava e soppesava le parole perché credeva nella loro responsabilità, nella loro potenza. A questo si aggiungeva anche, forse, il timore di non saper fare il padre, perché – va detto – lui stesso non ne aveva avuto uno. [Il padre di Patrick, un militare, morì a 25 anni, tentando di sminare un terreno quando lui aveva soltanto otto mesi.] Mancandogli, dunque, un riferimento paterno diretto, le sue fondamenta di padre dovevano sembrargli troppo poco solide per ricoprire in modo adeguato un ruolo tanto importante. Ma è difficile (e complicato) sapere che cosa gli passasse davvero per la testa…

La figlia Amélie ha in parte ereditato questa parsimonia linguistica, che si manifesta nell’attenzione verso le parole da usare e nella scelta oculata di queste ultime. È pur vero che il fatto di aver vissuto per un po’ in Giappone, le ha fatto acquisire maggiormente la consapevolezza della lingua francese. Ad Anna Lombardi, che l’ha intervistata all’Arena Robinson del Salone, racconta di sognare in francese ma con l’inserimento sporadico di alcune parole giapponesi. Fa l’esempio della parola Tokonoma che è il termine giapponese per identificare e definire un particolarissimo spazio della casa in cui si conservano i beni più preziosi che si possiedono. Il Giappone, per i membri della famiglia Nothomb, non è soltanto un luogo in cui hanno trascorso una parte della vita, è anche e soprattutto uno stile di vita. La filosofia di vita di Patrick e di sua moglie Danièle è più simile a quella Orientale che a quella Occidentale. Ciò che invece lega Amélie al Giappone è una particolare esperienza lavorativa: la scrittrice belga ha infatti rivestito per alcuni mesi il ruolo di guardiana dei WC maschili. È stata un’esperienza degradante e umiliante, tuttavia propedeutica al consolidamento della volontà e della capacità di mettersi in gioco di Amélie che, senza di essa, non avrebbe forse mai avuto il coraggio di lanciarsi nel mondo della scrittura. E, a proposito di scrittura, non posso esimermi dal riportare ciò che Amélie ha raccontato durante l’incontro avvenuto in Sala Azzurra.

Nella Sala Azzurra del Salone del Libro di Torino. A sx: Stefano Petrocchi; in centro: Amélie Nothomb; a dx: Daria Galateria. Foto: Manuela Barbagallo.

 Dialogando con la moderatrice Daria Galateria, ha dichiarato infatti di aver avuto, fin dall’inizio della sua carriera, l’appoggio del padre. Patrick ha letto tutti i suoi romanzi: non appena ne veniva pubblicato uno nuovo, Amélie lo sottoponeva al giudizio meticoloso del genitore che, dopo aver trascorso la notte a leggere, al mattino esprimeva i propri pensieri, le proprie considerazioni e il proprio giudizio alla figlia. Restando in tema di scrittura come filo di collegamento padre-figlia, c’è ancora un episodio che vale la pena di riportare da quell’incontro in Sala Azzurra che ho nominato qui sopra. Amélie ha scoperto per caso che il padre aveva rilasciato un’intervista in cui dichiarava che avrebbe tanto voluto che sua figlia scrivesse un libro su di lui. Così è stato, in effetti, perciò anche se la morte li ha separati, la scrittura li ha riuniti.

All'Arena Robinson del Salone del Libro di Torino. A sx: Amélie Nothomb; in centro: Daniela Di Sora (Voland); a dx: Anna Lombardi. Foto: Manuela Barbagallo.

Veniamo ora al titolo del romanzo. “Premier sang” ha più di una valenza: rappresenta, innanzitutto, il punto debole di Patrick, l’emofobia e il momento in cui sviene per la prima volta alla vista del sangue. Punto debole che Patrick riesce – grazie alla propria astuzia diplomatica e/o linguistica – a trasformare in punto di forza durante il suo primo incarico lavorativo. Ostaggio dei ribelli in Congo, dovette assistere all’omicidio di molte persone [1500 era il numero totale di ostaggi; 1400 quelli che Patrick, grazie alla sua forza di volontà e alle sue facoltà di negoziazione, riuscì a salvare diventando a tutti gli effetti un eroe]. Ogni volta che i ribelli uccidevano qualcuno, lui era costretto a distogliere lo sguardo, destando sospetti negli aguzzini che – se fossero venuti a conoscenza della sua debolezza – avrebbero immediatamente smesso di ammirarlo e rispettarlo per poi ucciderlo. Ad ogni domanda dei ribelli sui motivi del suo comportamento bizzarro lui rispondeva che distoglieva lo sguardo per rispetto dell’anima dei defunti. Che cosa, però, ha fatto di Patrick Nothomb un eroe? Come è riuscito a salvare quelle 1400 persone? La risposta è: con la forza della parola. Ogni giorno – dall’alba a notte fonda – trattava coi ribelli e li rabboniva perché non mettessero in atto le loro minacce di morte. Dovette, per ben 4 mesi, fare appello a tutto se stesso per non crollare sotto il peso delle responsabilità, della paura e della stanchezza che lo schiacciavano, lo opprimevano e lo soffocavano. Persino un attimo prima dell’esecuzione ciò che riuscì a salvargli la vita fu proprio la parola. Ma non vi racconterò questo, che è l’episodio conclusivo del romanzo, perché possiate scoprire quale espediente lo ha risparmiato.

Premier sang, però, è anche un modo per dire “primo cento”. Ci ho messo un po’ a capire cosa volesse intendere l’autrice con “primo cento”, ma poi ho realizzato che effettivamente questo romanzo è il centesimo e – per via della velocità di scrittura di Amélie – probabilmente rappresenta uno spartiacque, una linea di demarcazione che divide i primi cento romanzi dai prossimi cento.

“Primo sangue”, inoltre, ricorda l’espressione usata negli antichi duelli in cui, proprio allo spuntare del primo sangue, i contendenti interrompevano il combattimento.

Arrivati a questo punto, forse, vi starete chiedendo se Primo sangue contiene solo episodi tragici e/o tristi. Beh, posso affermare - con il sorriso sulle labbra per ciò che mi riporta alla mente questa domanda - che “l’autobiografia biografica” [come amo definire questo libro] di cui Amélie è l’autrice e il padre Patrick è il protagonista contiene anche spezzoni di vita teneri e altri addirittura divertenti che, ovviamente, non vi svelerò.

Posso dire altro di questa scrittrice meravigliosa e brillante? Ci sarebbero tante, tantissime cose da dire su di lei, ma mi limiterò a riportarvi quelle che lei stessa ha raccontato al Salone. [Per avvalorare la tesi che, per scrivere bene bisogna prima di tutto leggere tanto] Amélie si dichiara un’attenta e appassionata lettrice, tanto è vero che – sapendo di dover venire a Torino – si è preparata leggendo Natalia Ginzburg. E, quando le hanno domandato il titolo del libro che l’ha spinta in direzione della scrittura, ha risposto che - a segnarla profondamente - è stato “Lettere a un giovane poeta” di Rainer Maria Rilke.


Amélie Nothomb all'Arena Robinson del Salone del Libro di Torino. Foto: Manuela Barbagallo.



Ho amato tutti i libri di Amélie che ho letto fino ad ora e “Primo sangue” non ha costituito un’eccezione, perciò speravo con tutto il cuore che vincesse il Premio Strega Europeo per il quale era candidata proprio con questo libro. La Casa Editrice Voland, che da anni ormai pubblica i suoi romanzi qui in Italia, aveva già portato a casa una vittoria l’anno scorso grazie a Georgi Gospodinov e al suo splendido “Cronorifugio” [di cui potete trovare la recensione sul mio profilo Instagram]. Ed è stata una bellissima sorpresa poter festeggiare la “doppietta” perché quest’anno Amélie Nothomb – e, con lei, la Voland – ha vinto ex aequo insieme a Michail Shishkin e il suo “Punto di fuga” (21lettere).

L'autografo e la dedica di Amélie Nothomb.
Daniela Di Sora, Direttrice della Casa Editrice Voland, ha certamente avuto occhio quando ha assunto il carico di pubblicare Amélie Nothomb in Italia. Per poterlo fare, dovette accettare di pubblicare ben quattro titoli in un colpo solo, perché come abbiamo già appurato Amélie scrive moltissimo e al momento di stipulare il contratto con la Voland aveva già prodotto quattro libri. Fu una sfida ardua, in quanto la Casa Editrice italiana era agli albori, ma io – e, con me, tutti/e coloro che amano i romanzi di Amélie – le sono/siamo immensamente grata/i per aver portato il grande talento letterario e la grande sensibilità di questa artista nel nostro Paese.

 

mercoledì 25 maggio 2022

Elena Loewenthal, BIBBIA SELVAGGIA

 


 

Elena Loewenthal (foto di Manuela Barbagallo)
“Bibbia Selvaggia – Dire di no a Dio. Rifiutare la vocazione” è il titolo della conferenza tenuta da Elena Loewenthal in data 20/05/22, titolo  che riprende il tema della XXXIV edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino: “Cuori Selvaggi”. L’incontro comincia dunque con un ossimoro che ha come protagonista la Voce di Dio. Nella Bibbia, infatti, il rapporto tra Dio e Uomo è basato proprio sull’ascolto. La Creazione stessa è un fenomeno interamente vocale.

[Per inciso: affinché possa avvenire la Creazione del Mondo, è necessario che Dio si ritiri, ma – così facendo, poiché con Dio si ritira anche la Sua Bontà – insieme al Mondo viene al Mondo il Male.]

La Voce di Dio si fa Mondo prima attraverso dicotomie (es. Luce/Buio) e successivamente attraverso atti di moltiplicazione. Tutto viene creato per mezzo della Parola, ma - quando arriva il momento di creare l’Uomo – la modalità cambia.

 Infatti l’essere umano:

1.     È l’unica cosa creata indirettamente, “di seconda mano”, vale a dire con l’uso della polvere della terra.

2.     È l’unica creatura che non scaturisce dalla Parola.

3.     È l’unico essere creato singolo e poi sdoppiato.

4.     È l’unico a non essere Parola, ma ad avere la Parola, in quanto – appena “nato” – possiede già la missione di attribuire il nome alle cose.

Ma il tema principale dello studio di Elena Loewenthal è – come annunciato dal titolo della conferenza - la mancata risposta dell’Uomo alla chiamata di Dio. Perché la Bibbia è interamente binomiale/dicotomica: Voce-Silenzio, Chiamata-Risposta, ecc.

Tutto ha inizio con il Peccato Originale, trasgressione senza la quale la storia (e, aggiungerei, la Storia) non proseguirebbe. La Bibbia stessa ha bisogno di quell’atto di disobbedienza per poter avanzare nella sua narrazione. L’Albero della Conoscenza rappresenta un Tabù per l’Uomo. Il divieto di Dio si accompagna ad una “minaccia” di morte, ma – pur avendo mangiato il frutto proibito – i due occupanti del Giardino non trovano la morte… Non muoiono, ma si accorgono di essere nudi, parola che in ebraico si traduce anche con “furbi” e ben presto capiremo l’utilità di questa doppia valenza di significato. Adamo ed Eva provano infatti un disagio che prima del Peccato non provavano e capiscono di essere fragili e – soprattutto - mortali; capiscono che la vita è un cammino ineluttabile verso l’assenza. Questa consapevolezza – che oggi è innata in noi – non ci sarebbe se Adamo ed Eva non avessero disobbedito, ed ecco spiegato il motivo per il quale la loro trasgressione era necessaria.

Una volta compiuto il misfatto, i due umani vanno a nascondersi, e noi che leggiamo la Bibbia vediamo un Dio Onnipotente che cerca l’Uomo, lo chiama. Quando, alla fine, escono dal loro nascondiglio, Adamo pronuncia due parole importantissime per lo svolgimento della storia (e, ancora una volta, della Storia). Egli dice: “Io ero”. In queste due parole sono contenute due grandi invenzioni dell’Uomo:

1.     Io: prima di allora mai era esistita la prima persona singolare.

2.     Ero: prima di allora non c’era mai stato neanche il verbo al passato.

Si tratta della prima autobiografia della Storia, se vogliamo. Ma come hanno fatto Adamo ed Eva a raggiungere questo stato di consapevolezza? Rifiutando la Voce di Dio…

Mosè è un’altra delle “identità in bilico” presenti nella Bibbia. Nato da una trasgressione, abbandonato per necessità, scopre di non essere figlio del Faraone, uccide un uomo per sete di giustizia… Dio è costretto a usare altri mezzi che non siano la Voce per convincere Mosè ad accettare e ad abbracciare la propria Vocazione.

Il bastone di Mosè, la manna, ecc. sono tutte “armi” supplementari nell’opera di convincimento. L’intera storia dell’Esodo è una storia di “lotte” per farsi ascoltare.

Il roveto ardente è un’altra dimostrazione che Dio si trova costretto a dare perché la Voce non ottiene l’effetto voluto. Mosè vuole delle informazioni, chiede conferme e – ricolto a Dio - domanda: “Chi sei Tu? Come Ti chiami?” E la risposta di Dio a quest’ultima domanda è straordinaria… Egli dice: “Io sarò quello che sarò” (tradotto erroneamente “Io sono Colui che sono”). Ma non è la prima risposta… Inizialmente, Dio aveva risposto: “Il Signore”. Cosa che non aveva convinto molto Mosè…

Ecco, Mosè – e, con lui, tutti noi – vuole/vogliamo capire chi è quel Dio che ci chiama e qual è il Suo nome. Mosè ha una missione, ma ritiene di non poterla compiere senza sapere chi è il mandante di tale missione. Neanche questo, però, gli basta, così domanda ancora: “E io? Chi sono io?” È allora che Dio trasforma il bastone di Mosè in serpente. Ma a Mosè non basta ancora. Allora Dio gli affianca suo fratello Aronne. Possiamo dire che Aronne è stato il primo Ufficio Stampa della Storia…

Anche la storia del profeta Giona è una storia di rifiuto della chiamata. E mentre Mosè aveva Aronne, Giona ha ben due aiutanti accanto a sé: uno è il pesce e l’altro è l’albero di ricino. Entrambi lo salveranno… Sì, perché Giona corre nella direzione opposta a quella impostagli da Dio. Giona è un “Ivrì”, un ebreo, “colui che sta dall’altra parte”, per l’appunto. Attraverso la fuga, però, Giona cresce, capisce delle cose che lo portano a Ninive (che è proprio il posto in cui doveva andare fin dall’inizio), fa quel che doveva fare già molto tempo prima (cioè convertire il popolo di Ninive), ma poi si offende nuovamente pensando che tutto ciò che gli è accaduto sarebbe successo comunque, qualunque cosa avesse fatto, in quanto tutto è preordinato; allora fugge di nuovo e si rifugia all’ombra di un alberello. Dio brucerà quell’albero per far comprendere al profeta che lui è uno “strumento”, pertanto non deve ritenersi inutile.

Anche il profeta Geremia rifiuta la Vocazione, così Dio gli dice: “Tu eri quello che eri ancor prima di nascere”. Ma Geremia è intimidito; come Mosè, pensa di non essere in grado di comunicare il messaggio di Dio, di non saper parlare. Allora Dio gli dona la facoltà di parlar bene, toccandogli la bocca.

Per concludere: il tema/simbolo della bocca è presente anche nella storia di Mosè, al quale Dio dà la morte attraverso un bacio…