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lunedì 7 maggio 2018

"RIPARARE I VIVENTI" di Maylis de Kerangal. Feltrinelli.


“Tre adolescenti di ritorno da una sessione di surf su un pullmino tappezzato di sticker, tre big wave rider, esausti, stralunati ma felici, vanno incontro a un destino che sarà fatale per uno di loro. Incidente stradale, trauma cranico, coma irreversibile, e Simon Limbres entra nel limbo macabramente preannunciato dal suo cognome. Da quel momento, una macchina inesorabile si mette in moto: bisogna salvare almeno il cuore. La scelta disperata dell’espianto, straziante, è rimessa nelle mani dei genitori. Intorno a loro, come in un coro greco, si muovono le vite degli addetti ai lavori che faranno sì che il cuore di Simon continui a battere in un altro corpo. Tra accelerazioni e pause, ventiquattr’ore di suspense, popolate dalle voci e le azioni di quanti ruotano attorno a Simon: genitori, dottori, infermieri, equipe mediche, fidanzata, tutti protagonisti dell’avventura, privatissima e al tempo stesso collettiva, di salvare un cuore, non solo organo ma sede e simbolo della vita”.

Leggendo “Riparare i viventi” ci si accorge che i personaggi non sono soltanto quelli in carne ed ossa, ma anche “entità” astratte quali il tempo e lo spazio, l’angoscia e la speranza, la vita e la morte. Persino  il cervello e il cuore possono essere considerati dei personaggi a tutti gli effetti, pur essendo soltanto degli organi.
 Il cuore, l’organo che – nell’immaginario collettivo – è la sede dei sentimenti (e, per qualcuno, anche della memoria) qui acquista un’importanza ancora maggiore, un’intensità e un ruolo ancor più rilevanti. Il cuore è descritto come la “scatola nera” del corpo, non solo il motore, dunque, ma quasi una creatura dotata di vita propria, una vita nella vita, pertanto l’emblema della vita stessa. Si è indotti a pensare: è possibile che il cuore abbia un’anima? E – allo stesso tempo – ci si può trovare a indulgere sul concetto di vita: è davvero corretto pensare che, se il cuore batte, si è in presenza di un organismo vivente? Da qui, l’eterna lotta tra cuore e cervello e – perdonate il gioco di parole – la nascita di un nuovo tipo di morte: la morte cerebrale. “Non penso, dunque non sono” scrive l’autrice, e continua asserendo: “Deposizione del cuore e consacrazione del cervello. Un colpo di stato simbolico, una rivoluzione”. Quale ruolo giocano cuore e cervello nel mantenimento di ciò che chiamiamo “vita”? E ancora: tecnica e sentimenti possono andare d’accordo? Può – cioè – un cuore artificiale sostituire in toto un cuore di carne? E infine la questione più spinosa: cosa accade quando si trapianta il cuore di un individuo in un altro individuo? Cambia qualcosa nella personalità del ricevente? D’altronde il momento in cui si espianta il cuore dal donatore e lo si trapianta nel petto del ricevente, rappresenta un elemento di transizione, un punto di continuità tra la vita e la morte. E questo accade “Perché il cuore va al di là del cuore”, è “[…] la chiave di volta […], l’analogia stessa della vita”.
Dunque, se il cuore è la vita, quale faccia ha la morte? Com’è fatta questa acerrima –benché necessaria – nemica della vita? E’ un passaggio di stato, un mutamento della materia, la “[…] contingenza di questo mondo, la fragilità  delle vite umane”. Una “temporalità dislocata” e una “continuità spezzata”, ci dice Maylis de Kerangal; un evento, una condizione inevitabile.
Questo libro in sé rappresenta non tanto una corsa contro il tempo, quanto – piuttosto – un avanzamento verso quell’inevitabile affinché si salvi il salvabile e si riparino i viventi. Ed ecco che assistiamo al mutare dello spazio e del tempo, al contrarsi e al dilatarsi di questi due pilastri delle nostre vite proprio come  il contrarsi e il dilatarsi del cuore. L’infinito e l’eternità (rispettivamente lo spazio e il tempo) che pulsano a seconda delle nostre percezioni, ci dimostrano come – col pensiero – si possano alterare o – perfino – superare i confini dello spazio-tempo. Questo ci porta a riflettere sulla possibilità che, ciò che qui non esiste, sia presente in un universo o in una realtà parallela, e viceversa. Ma l’autrice fa di più: svela ai suoi lettori l’inganno ordito dalla morte, inganno per il quale Simon sembra vivo – pur essendo cerebralmente morto – mentre Claire (la ricevente) sembra morta, pur essendo viva. Il confine tra la vita e la morte, in questo libro, è appeso al filo del trapianto e il lettore avverte in maniera tangibile la tensione creata dalla necessità dei protagonisti di preservare e consolidare questo filo tramite un continuum spazio-temporale tra donatore e ricevente. Tutti i protagonisti sono vicini e distanti contemporaneamente; tutti, quindi – persino i vivi e i morti – sono strettamente collegati tra loro. Ogni vita è un mondo e ogni mondo si interseca o si accosta a innumerevoli altri. E il tempo sembra adattarsi a quelle vite, così che un secondo può durare un’eternità o – al contrario – un’eternità può durare un solo istante.
La scrittura di Maylis de Kerangal è “visiva”, “cinematografica” e – come tale – contempla numerosi cambi di inquadratura, descrizioni minuziose di eventi, luoghi, cose, personaggi e sensazioni, tese a eguagliare le vivide immagini di una pellicola. E’ una scrittura “empatica” grazie alla quale il lettore arriva a vedere, sentire e provare le stesse cose che vedono, sentono e provano i protagonisti. Persino l’aspetto di paesaggi e tempo atmosferico tende a mutare al mutare delle sensazioni e delle emozioni dei personaggi. Tensione, paura, ansia, angoscia, incredulità, consapevolezza, illusione e disillusione, speranza e disperazione, inquietudine, rassegnazione, sensi di colpa, rimorsi, amore e affetto sono solo alcuni di quei sentimenti e di quelle sensazioni che emergono da “Riparare i viventi”. La brevità dei capitoli e la parsimonia nell’utilizzo della punteggiatura rendono il ritmo della narrazione incalzante, sottolineano l’urgenza dei pensieri. E’ un crescendo emotivo reso possibile anche dal sapiente uso delle figure retoriche come le sinestesie, le sineddoche, le similitudini, le metafore e  gli ossimori. I dialoghi non si distinguono a colpo d’occhio dalla narrazione perché non ci sono virgolette né trattini e non si va neppure a capo per segnalarli: i discorsi diretti sono perfettamente integrati all’interno della prosa. Grazie a questo stile ricco di virgole, ma povero di punti fermi (fatta eccezione per alcuni contesti in cui l’autrice ha voluto canalizzare l’attenzione del lettore) spazio e tempo vengono azzerati, dando vita ad una scrittura ansiogena che ben si adatta alla storia e alle tematiche affrontate. Frequente è l’uso dei “forse”, dei “probabilmente” e degli “è possibile”, tanto da far sorgere il dubbio al lettore che chi sta narrando le vicende non sia al corrente di tutto o che – al contrario – lo sia, ma voglia lasciare la giusta dose di privacy ai protagonisti. Questo espediente crea suspense e fa vacillare quello che è già un precario equilibrio dei pensieri. Lo stile di Maylis de Kerangal è in grado di trasportare il lettore da un capo all’altro del mondo in pochi istanti; spesso ci si trova catapultati nei dettagli più intimi delle vite dei personaggi in una continua alternanza di presente e flashback, un’alternanza talmente frequente, ma così ben strutturata, da apparire quasi come contemporaneità.
E’ impossibile non commuoversi ed è altrettanto impossibile non porsi domande sulla vita leggendo questo libro meraviglioso seppur estremamente doloroso che – forse – è meraviglioso proprio per la sua capacità di toccare il cuore.

N.B.: [La traduzione dal francese è di Maria Baiocchi con Alessia Piovanello].
 Non deve essere stato un compito facile quello di tradurre questo libro mantenendone intatta tutta l’intensità; per tale motivo mi sembra doveroso riportare qui sotto le parole di Maria Baiocchi:
“Ringrazio di cuore le mie amiche che mi hanno aiutato in questa seconda prova del fuoco con la lingua ardente di Maylis de Kerangal. Ester Coen, preziosa per risolvere l’impasse dell’incipit, Anna Tagliavini, che ha passato tutto il resto al setaccio della sua attenzione esigente e competente, Lise Chapuis, che ha dedicato ore ad ascoltare e risolvere i miei tanti dubbi. E infine grazie a Ecla Aquitaine che ha voluto sostenere questa impresa, assegnandomi una residenza di traduzione a Bordeaux”.

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