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Manuela Barbagallo davanti alla torre dei libri del Salone
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Al di là dello Specchio
del Salone ho trovato tante cose, c’erano temi per tutti gli interessi e per
tutti i gusti. Per quanto mi riguarda ho seguito conferenze sull’IA, sui grandi
classici della Letteratura, sull’Arte, sulla forza delle donne e sulla bellezza
della natura; ma ho anche ascoltato la voce dei traduttori – i cosiddetti
“autori invisibili” – che raccontavano le storie di mondi in cui si parlano
altre lingue. In questo articolo voglio condensare quasi tutto ciò che ho
ascoltato. Ho detto “quasi” perché di alcuni eventi ho già parlato nei tre
precedenti articoli e della presentazione di Marco Valsesia parlerò nel
prossimo post, dopo che avrò letto il suo libro, “La vita segreta delle api”.
Ho inoltre deciso di strutturare questo maxi-articolo non secondo un ordine
cronologico bensì secondo un ordine tematico, perciò partirò col parlarvi di
uno dei più grandi artisti del ‘900,
ovvero…
Pablo Picasso
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Luca Beatrice parla di Pablo Picasso
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Un artista che ha
attraversato la storia di quasi un secolo senza farsi fagocitare da nessuna Avanguardia.
Fondatore del Cubismo, certo, ma comunque molto “elastico” nelle modalità di
espressione artistica. Un uomo carismatico, dall’aspetto fisico particolare e
con atteggiamenti da “divo”. Al centro delle attenzioni del Movimento Me Too
(così come Paul Gauguin) per il suo rapporto controverso con le tante donne
della sua vita. Esatto, Picasso ebbe una vita amorosa intensa: lo
apprendiamo dalla voce di François
Gilot che, oltre ad essere un’artista,
fu compagna di Picasso e madre dei suoi figli, Claude e Paloma. Gilot – che, va
detto, fu l’unica donna ad aver lasciato Picasso - scrisse un’autobiografia dal
titolo “La mia vita con Picasso”, un testo da cui emerge un ritratto alquanto
negativo dell’ex-compagno.
Una sorta di “Pop Star”, immortalato in
numerosissimi scatti. Conosciuto per i suoi particolari dipinti, non molti
sanno che Picasso si dedicò anche alla scultura…
[Durante la conferenza tenuta dal critico d’Arte
Luca Beatrice, è intervenuta anche Paola
Gribaudo, il cui padre ebbe il privilegio di conoscere personalmente Pablo
Picasso.]
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Paola Gribaudo e Luca Beatrice
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Fu molto prolifico dal punto di vista
artistico, ma non tutte le sue opere furono apprezzate immediatamente; “Le
demoiselles d’Avignon”, ad esempio, nonostante sia considerato il caposaldo del
Cubismo, restò nelle mani di Picasso per una ventina d’anni prima di essere
venduto. Un altro lavoro che ha consacrato l’artista alla Storia dell’Arte è
“Guernica”. La cosa strana è che Picasso iniziò a lavorare a quest’opera ben
prima che l’omonima città fosse bombardata… Nonostante le controverse
circostanze della sua nascita, comunque, “Guernica” rimane un’opera dalla
grandezza straordinaria. “Grandezza” in tutti i sensi, date le dimensioni
fisiche del quadro; un manifesto, un’opera civile, caratterizzata dall’uso
delle tonalità del solo grigio e dei tratti propri del Cubismo. Un’opera che ci
permette di interrogarci sui compiti dell’Arte: è possibile veicolare un
messaggio attraverso di essa? Ed è possibile farlo a prescindere dalla tecnica
utilizzata o quest’ultima è essenziale allo scopo?
“Self-portrait”
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Melania Mazzucco, "Self-portrait"
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Ma l’arte, al Salone, è
stata declinata anche al femminile, grazie a una scrittrice conosciuta
soprattutto per aver raccontato la storia di Plautilla ne “L’architettrice”. Con
“Self-portrait”,
Mazzucco ha dato lustro alle donne che hanno arricchito la Storia dell’Arte con
grandi opere che ritraevano se stesse o altre donne; donne dalla forza d’animo
immensa, donne come Porzia, ritratta da
Elisabetta Sirani nell’atto di ferirsi la coscia per dimostrare di saper
sopportare dolore fisico e mentale. Il ritratto di Porzia e quello della fanciulla
che compone una poesia sotto i fiori di ciliegio di notte, realizzato da
Katsushika Ōi, sono stati scelti da Melania Mazzucco come manifesti della forza
femminile e come portavoce di un messaggio molto particolare, ovvero: “Non si
sceglie cosa dipingere, ma si può scegliere cosa non dipingere”.
Poi Mazzucco ci ha
parlato di Plautilla Nelli di cui Vasari – che ne curò la biografia – scrisse
una dolorosa verità, specchio di un costume sociale che ha impedito per tanto
tempo alle donne di studiare e di affermarsi professionalmente. Vasari scrisse,
infatti, che se Plautilla avesse potuto studiare, avrebbe prodotto opere
meravigliose. Suor Plautilla Nelli, infatti, si era formata grazie alle opere
giunte fino a lei, in convento, opere che avevano plasmato il suo stile su
un’impronta classica, o – addirittura – arcaica. Vasari scrisse questo assunto
nel 1568, ciò significa che già a quel tempo c’era la consapevolezza
socialmente diffusa di un dislivello tra maschi e femmine…
E che dire di Berthe
Morisot, ossia forse la più celebre artista dopo Artemisia Gentileschi e Frida
Kahlo? Lei e la sorella, Edma, presero entrambe la via dell’Arte, ma poi la
carriera di quest’ultima si interruppe in seguito al matrimonio con Adolphe
Pontillon. A quel tempo, per le donne, sposarsi era un po’ come appendere le
ali al muro…
Per Antonia Eiriz,
invece, le cose andarono diversamente. Ammalatasi in giovanissima età, ebbe
l’occasione di studiare e arrivò così a dipingere un’Annunciazione particolare
in cui si percepisce l’inscindibilità di vita e morte.
“Self-portrait” contiene
moltissime altre storie di donne che hanno fatto la Storia dell’Arte (passatemi
il gioco di parole), ma Melania Mazzucco ha voluto soffermarsi sulla questione
dell’istruzione, facendo intuire che se certe donne – pur non avendo avuto la
possibilità di studiare - sono riuscite a produrre tali capolavori, studiando
avrebbero creato opere ancor più straordinarie. Lo studio dell’anatomia, ad
esempio, era loro precluso e dipingere un nudo maschile in un’epoca di
restrizioni e tabù era praticamente impossibile! Senza contare che una donna
artista sarebbe sempre stata derisa oltre che ostacolata, come nel caso di
Giulia Lama…
Dacia
Maraini
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Dacia Maraini
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Ma ci sono state anche
donne che si sono distinte nel mondo della Letteratura… È il caso di Dacia
Maraini, che è venuta al Salone per festeggiare insieme a noi i 60 anni della
sua scrittura e portarci un pezzo di
Storia del Teatro. Maraini, infatti, ha iniziato a scrivere opere teatrali
prima ancora che opere di narrativa! Ha cominciato con “Cicche”, per via di un
suo personale interesse nei confronti degli esclusi e degli emarginati. Ma che
cosa rappresenta il teatro, per questa grande artista? Innanzitutto Maraini ci
rammenta che un’opera teatrale è sempre il frutto di un lavoro collettivo: gli
attori e le attrici, il drammaturgo, i tecnici… tutti sono tasselli
importantissimi. Poi, il Teatro è un’occasione di confronto - a differenza
della narrativa – un confronto tra gli individui, un confronto tra diverse
realtà, un confronto tra la vita e l’opera. Purtroppo, però, anche il Teatro ha
un retaggio di esclusione femminile… Perché è vero che i testi greci avevano
tante donne tra i loro personaggi, ma i loro ruoli erano interamente
interpretati da uomini. C’è stato un momento nella storia – il periodo del
matriarcato - in cui le donne erano tenute in grande considerazione, ma c’è
stato anche un periodo – il periodo del patriarcato - in cui le donne hanno
cessato di essere considerate generatrici di vita e hanno cominciato ad essere
trattate alla stregua di meri contenitori. Da sempre (o quasi) le donne lottano
per i loro diritti e per conquistarsi uno spazio all’interno della società e,
per quanto riguarda il Teatro proposto da Maraini, possiamo dire che si tratta
di un teatro che non esclude gli uomini, bensì esalta il diritto delle donne
alla creatività.
Per Dacia Maraini, come
per Bergson, la memoria è costituita dalla coscienza: non impariamo niente
dalla Storia se non abbiamo memoria! E la scrittrice ha lavorato molto per
mantenere viva la memoria, attraverso le sue opere e il suo operato. Si è
dedicata a un Teatro sperimentale che univa l’immagine alla parola; si è
dedicata al Teatro di strada, ovvero una grande novità, per il suo tempo; è
sempre stata aperta al dialogo (e allo scambio di idee) e ha sempre saputo
tenere distinte le persone dalle loro opere; per lei il rispetto dell’altro è
essenziale.
Maraini ci ha parlato di
come la condizione femminile è cambiata (in peggio) nel tempo, ma ci ha anche
esposto il suo pensiero sul ruolo della scuola nell’ambito dell’evoluzione.
Riassumendo: la scuola non dovrebbe essere trattata come un’azienda in cui
produrre, bensì come un luogo di formazione in cui non solo gli studenti
andrebbero aiutati, ma anche gli insegnanti!
Per concludere, Maraini
invita tutti e tutte a leggere tanto perché leggere sviluppa l’immaginazione e
ci aiuta a capire gli altri.
Stefania
Auci, Francesca Giannone e Alessandra Selmi: tre scrittrici raccontano la
Storia
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Stefania Auci, Francesca Giannone e Alessandra Selmi
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Restando sulla Letteratura
al femminile, ma spostandoci in un’altra sala incontriamo tre autrici che – nei
loro romanzi – hanno raccontato la Storia.
Come si scrive un romanzo
storico? Come si crea un personaggio e come lo si inserisce nel contesto di
riferimento? Cosa ci dicono i libri di queste tre scrittrici a proposito del
mondo del lavoro?
Innanzitutto c’è da dire
che un romanzo storico può contenere solo personaggi realmente esistiti, oppure
personaggi interamente inventati, o – ancora - una equilibrata commistione di
personaggi reali e personaggi inventati perché un romanzo storico deve essere
sì aderente a fatti accaduti davvero e coerente con la Storia, ma non è un
saggio. Un saggio ha il compito di istruire il lettore, mentre un romanzo
(anche un romanzo storico) deve intrattenerlo. Ed è per questo che, per farlo,
può anche contenere personaggi nati dall’immaginazione… L’ispirazione può
arrivare da ricordi ed esperienze
personali di chi scrive, oppure può essere totalmente inventato, ma – in
entrambi i casi, perché sia credibile - è necessario ricordarsi di dargli
caratteristiche che rispecchino il contesto storico in cui verrà inserito e di
“sentirlo”, ovvero di dargli uno spessore e una rotondità tali da renderlo
vero, oltre che realistico. Ma ne “La portalettere”, Francesca Giannone ha
fatto una operazione assai strana: è partita da personaggi reali per
trasformarli in personaggi letterari e calarli in un mondo letterario che però
non è né completamente reale né completamente inventato, bensì è una
miscellanea di luoghi salentini.
Cosa non fare quando si
dà vita ai personaggi? Giudicarli, perché se si perde tempo a giudicarli poi
non se ne ha più per amarli.
Scrivere, quindi, è un
lavoro individuale, ma il libro che ne verrà fuori sarà un prodotto corale,
fatto di tanti elementi basati su studi approfonditi di ogni dettaglio che
vanno a formare un equilibrio perfetto.
A questo punto della
conferenza si è parlato di lavoro, un tema che accomuna tutti e tre i romanzi
protagonisti dell’evento in questione, così Alessandra Selmi ha raccontato la
storia del primo villaggio operaio d’Italia, a Crespi d’Adda. Fondato nel 1877
da Cristoforo Crespi, il complesso residenziale doveva servire ad agevolare gli
operai (e, di conseguenza, la produttività) tenendoli vicini – con le loro
famiglie – al posto di lavoro, ovvero il cotonificio. Il villaggio fu ideato e
realizzato nel rispetto dei canoni di
bellezza e funzionalità: fu costruita persino una piscina perché i bambini – la
cui entrata nel mondo del lavoro fu ritardata di due anni – potessero non
soltanto divertirsi ma anche lavarsi.
Poi si è parlato dei
Florio, protagonisti de “I leoni di Sicilia”. Il loro lavoro può addirittura
essere analizzato da un duplice punto di vista: il lavoro dei Florio e il
lavoro che i Florio danno alla città.
L’analisi di Stefania
Auci ci permette di capire come era strutturato il mondo lavorativo nell’Italia
meridionale nel 1800.
Durante la conferenza si
è poi parlato d’amore; d’amore fraterno oltre che coniugale. Ma la cosa più
importante che è emersa dall’ora trascorsa in sala è che le donne non solo sono
in grado di fare la Storia, ma anche di raccontarla, con professionalità ma
soprattutto sensibilità.
“Ragazzi
di vita”
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Margherita Oggero
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Per raccontare una storia
sono fondamentali la lingua e il linguaggio adatti; lo sapeva bene anche Pier
Paolo Pasolini. le cui sperimentazioni linguistiche (sue e di altri grandi
autori) sono state prese in esame da Margherita Oggero durante la conferenza
dedicata a “Ragazzi di vita”.
Ludwig Wittgenstein
sosteneva che esistono due lingue: la propria (quella materna) e tutte le
altre. E da questo stesso assunto è partita Oggero per analizzare le scelte
linguistiche di Pasolini.
Innanzitutto bisogna
precisare che Pasolini nacque a Bologna, ma Casarsa –paese di origine della
madre – divenne per lui la terra delle radici, anche di quelle linguistiche. La
“lingua madre” di P.P. Pasolini è dunque il dialetto friulano, ecco perché quando
decide di utilizzare il romanesco per
scrivere “Ragazzi di vita” il risultato appare come qualcosa di “forzato” e –
in un certo senso – “schizofrenico”, dato che il romanzo ha due voci: una è la
voce d’autore (in Italiano) e l’altra è
quella dei dialoghi (in dialetto
romanesco).
Sicuramente più simile a
lui e alle sue origini è, invece, “La meglio gioventù”, una raccolta di poesie
scritte in friulano dove la forza comunicativa dell’autore emerge in tutto il
suo splendore.
Specularmente a “Ragazzi
di vita” troviamo “Una vita violenta”, un altro romanzo scritto in dialetto
romanesco. Sia l’uno che l’altro sono il risultato di esperimenti linguistici
sicuramente interessanti, ma – forse - poco riusciti.
I dialetti offrono
copiose sfumature di significati grazie al loro lessico vario e specifico: lo
avevano capito Franco Loi, Carlo Porta e Luigi Meneghello. Entrando nello
specifico, possiamo dire che Loi fu davvero un grande artista della parola: usò
il meneghino (dialetto milanese), ma essendo molto aperto alle contaminazioni,
lo intrecciò con neologismi, arcaismi e molto altro, ottenendo un impasto
linguistico originale e fortemente espressivo.
Anche Carlo porta fece
del dialetto milanese il punto di forza delle proprie poesie (così come
Gioacchino Belli lo fece del romanesco).
Mentre Luigi Meneghello,
nato a Malo (un paesino in provincia di Vicenza) giocò molto col proprio
dialetto mescolandolo magistralmente all’Italiano (emblematica, a questo
proposito, è l’opera intitolata “Libera nos a malo”). Ma Meneghello si spinse
ancora oltre, operando addirittura una distinzione tra la lingua che viene
insegnata a scuola e il proprio dialetto. La prima, stando al suo pensiero, è
la lingua utilizzata dai grandi poteri: quello politico quello religioso; la seconda, invece, è la
lingua di tutti, più diretta e comunicativa.
E, dato che ci siamo
addentrati nei temi di lingua e linguaggio, non posso che collegarmi ad altre
due conferenze a cui ho assistito: una riguarda Paolo Nori e il mestiere
dell’autore “invisibile” (ovvero il traduttore), mentre l’altra ha a che fare
con un testo molto antico – “Il Cantico dei Cantici” – testo di cui ci ha
parlato Elena Loewenthal, soffermandosi sulla trattazione dell’aspetto
linguistico e di quello tematico.
L’autore
“invisibile”
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Paolo Nori
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Una traduzione può
influire tanto sulla resa del significato quanto sulla resa della potenza
comunicativa? La risposta è “sì”. Quella del traduttore è l’arte di scegliere le parole e di disporle
in modo tale che non solo ci facciano capire il significato di un testo, ma ci
facciano anche provare emozioni e sensazioni intense quando leggiamo. Perché
leggere vuol dire vivere un’esperienza e questo può accadere soltanto se chi ha
tradotto il testo che stiamo leggendo ha saputo trovare le parole giuste per
poi ordinarle in maniera comunicativa.
Paolo Nori ci ha
illustrato efficacemente, con esempi concreti, quale differenza intercorra tra
una traduzione semplicemente corretta e una traduzione in grado di far provare
al lettore quell’esperienza emotivo-sensoriale di cui parlavo prima.
Il primo esempio riguarda
una sua (di Paolo Nori) vicenda personale che per un certo periodo di tempo lo
ha visto ricoverato in ospedale, nel reparto dei grandi ustionati. Il suo
dolore fisico era tanto intenso che continuava a tornargli in mente una frase
di Boris Pasternak: “Vivere una vita non è attraversare un campo”. Una volta
tornato a casa scoprì che la nuova traduzione di quella frase, a cura di Serena
Prina, recitava: “Vivere una vita non è un gioco”. Nori la ritenne più “corretta”,
ma mentre la vecchia traduzione lo ricollegava prepotentemente al dolore
provato in ospedale, quella nuova non gli dava lo stesso “brivido”.
Anche l’incipit di
“Memorie dal sottosuolo” nella nuova traduzione di Tommaso Landolfi, per quanto
corretta, non rende la “trottola” letteraria creata dalle parole in lingua
originale.
A scuola ci hanno
insegnato che per evitare le ripetizioni di parole è bene usare dei sinonimi.
Ecco, questo assunto è, nell’ambito delle traduzioni, una strategia pericolosa.
Ad esempio, ne “La morte di Ivan Il’ič”, la parola “morte” viene usata come
un’arma, perciò non avrebbe senso tradirla con “dipartita”.
Perché i suoi allievi e
le sue allieve comprendano bene questo concetto, Paolo Nori è solito assegnar
loro degli esercizi di scrittura più che degli esercizi di traduzione; per
tradurre bene il Russo devi saperlo scrivere come un russo. Anche perché, nel vocabolario
di lingua russa, ci sono parole talmente specifiche (per noi intraducibili dato
che non disponiamo del corrispettivo nella nostra lingua) che bisogna sapersi
destreggiare davvero molto bene tra le lingue per essere in grado di renderle
al meglio in traduzione. C’è una parola per rendere il concetto di “postumi
della sbronza” e c’è persino una parola per definire l’azione del bere dopo
essersi sbronzati, per contrastare i sintomi dell’ubriacatura. (Una pratica che
viene ben spiegata ne “Il Maestro e Margherita”). A quanto pare c’è
persino una maledizione legata in maniera specifica a questa pratica, che
recita: “Possa tu non trovare la vodka dopo la sbronza”. Stando così le cose,
il russo può essere considerato l’equivalente dei dialetti italiani…
E, infine, ecco una frase
nota più o meno a tutti: “La bellezza salverà il mondo”. È una traduzione
corretta, certo, ma non vi suona meglio: “Il mondo lo salverà la bellezza”? Per
Paolo Nori, sì.
Il
“Cantico dei Cantici”
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Elena Loewenthal
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Per chiudere in bellezza
questa sezione dedicata alle lingue e alle loro traduzioni, ritengo che il modo
migliore sia riportandovi un sunto dell’intervento di Elena Loewenthal sul
“Cantico dei Cantici”. In questo testo complesso, enigmatico e intenso
compaiono infatti moltissime parole HAPAX, ossia termini che sono stati
riscontrati solo su quelle pagine. Non disporre di altri testi che contengano
quelle parole ci impedisce di confrontarne i significati, ci priva dei termini
di paragone. Il “Cantico dei Cantici” è un testo ermetico e conturbante perché
il tema di fondo è l’amore, tema che è stato interpretato in molti modi tra cui
i seguenti:
-
Secondo un commentatore filologico
medievale preciso e attendibile il testo andrebbe interpretato come
un’allegoria dell’amore tra l’uomo (il popolo di Israele) e Dio. [Secondo
questa visione, i seni rappresenterebbero le Tavole della Legge].
-
Come una sfida intellettuale di
prim’ordine. Quando si dice “Ti amo”, in ebraico, va specificato sia il sesso
di chi ama sia quello di chi è amato. In questo caso il popolo d’Israele è
maschile e Dio è femminile (Shekinah),
ma nel testo c’è una continua inversione dei ruoli che rende ardua ma
stimolante l’interpretazione.
-
Come un testo profondamente fisico, ma
anche stranamente etereo perché non viene raccontato l’atto d’amore in sé,
bensì la speranza dell’amore, lo slancio amoroso di chi ama ma anche il
desiderio di essere amati. È una storia di sensualità, ma è allo stesso tempo
la storia di una sensualità che non può essere consumata in quanto c’è un
ostacolo rappresentato dalla lontananza. “Il Cantico dei Cantici” è un testo
struggente che sfida l’amore attraverso la lontananza, la stessa lontananza di
cui però l’Amore si nutre, dando vita ad una storia che si autoalimenta…
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IT IS NOT THE END OF THE WORLD
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Oltre agli eventi di cui
vi ho parlato fino ad ora ci sono state altre conferenze nel “mio” Salone del
Libro: una mi ha permesso di ascoltare il Direttore uscente Nicola Lagioia e la
Direttrice entrante Annalena Benini, mentre si confrontavano sui libri e le
letture che li hanno formati; un’altra mi ha portata a conoscere Guia
Soncini - autrice del libro intitolato “Questi sono i 50” - e Cristina Fogazzi,
anche nota come “L’estetista cinica”;
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Guia Soncini, Annalena Benini e Cristina Fogazzi
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poi, come ho accennato nelle prime righe
di questo articolo, ho ascoltato aneddoti e curiosità sulla vita delle api
direttamente dalla voce di Marco Valsesia, autore de “La vita segreta delle
api” e – naturalmente – apicoltore appassionato e appassionante. Poi ho ascoltato le proposte delle migliori scuole di scrittura creativa. E, infine, ho
assistito alla conferenza stampa di chiusura del Salone in cui c’è stato il
passaggio di consegne dall’ex Direttore Lagioia alla nuova Direttrice Benini.
Quest’ultimo, in particolare, è stato un evento molto commovente: abbiamo
ringraziato Nicola Lagioia che – durante i sette anni del suo mandato - ha
saputo far crescere e fiorire il Salone Internazionale del Libro di Torino in
maniera esponenziale. Anni di duro lavoro, anni faticosi, anni intensi per lui
ma anche per tutti e tutte coloro che con lui hanno lavorato. È grazie a tutte
queste persone e al loro impegno che migliaia o forse milioni di lettori e
lettrici hanno potuto incontrare scrittori e scrittrici di tutti i tempi e di
tutti i luoghi. Solo questa XXXV edizione ha contato ben 215.000 visitatori!
Annalena Benini ha d’ora
in avanti il grande onore ma anche l’enorme responsabilità di accompagnare il
Salone verso nuovi traguardi, perciò le auguro con tutto il cuore di riuscire
nell’impresa e approfitto dell’occasione per lanciare ancora un “grazie”
sincero a Nicola Lagioia.
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Nicola Lagioia e Annalena Benini
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