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LA BELLEZZA

lunedì 5 giugno 2023

Tasselli del mio Salone

Manuela Barbagallo davanti alla torre dei libri del Salone

 

Al di là dello Specchio del Salone ho trovato tante cose, c’erano temi per tutti gli interessi e per tutti i gusti. Per quanto mi riguarda ho seguito conferenze sull’IA, sui grandi classici della Letteratura, sull’Arte, sulla forza delle donne e sulla bellezza della natura; ma ho anche ascoltato la voce dei traduttori – i cosiddetti “autori invisibili” – che raccontavano le storie di mondi in cui si parlano altre lingue. In questo articolo voglio condensare quasi tutto ciò che ho ascoltato. Ho detto “quasi” perché di alcuni eventi ho già parlato nei tre precedenti articoli e della presentazione di Marco Valsesia parlerò nel prossimo post, dopo che avrò letto il suo libro, “La vita segreta delle api”. Ho inoltre deciso di strutturare questo maxi-articolo non secondo un ordine cronologico bensì secondo un ordine tematico, perciò partirò col parlarvi di uno  dei più grandi artisti del ‘900, ovvero…

 Pablo Picasso 

Luca Beatrice parla di Pablo Picasso

 

Un artista che ha attraversato la storia di quasi un secolo senza farsi fagocitare da nessuna Avanguardia. Fondatore del Cubismo, certo, ma comunque molto “elastico” nelle modalità di espressione artistica. Un uomo carismatico, dall’aspetto fisico particolare e con atteggiamenti da “divo”. Al centro delle attenzioni del Movimento Me Too (così come Paul Gauguin) per il suo rapporto controverso con le tante donne della sua vita. Esatto, Picasso ebbe una vita amorosa intensa: lo apprendiamo  dalla voce di François Gilot  che, oltre ad essere un’artista, fu compagna di Picasso e madre dei suoi figli, Claude e Paloma. Gilot – che, va detto, fu l’unica donna ad aver lasciato Picasso - scrisse un’autobiografia dal titolo “La mia vita con Picasso”, un testo da cui emerge un ritratto alquanto negativo dell’ex-compagno.

   Una sorta di “Pop Star”, immortalato in numerosissimi scatti. Conosciuto per i suoi particolari dipinti, non molti sanno che Picasso si dedicò anche alla scultura…

 [Durante la conferenza tenuta dal critico d’Arte Luca Beatrice, è intervenuta anche  Paola Gribaudo, il cui padre ebbe il privilegio di conoscere personalmente Pablo Picasso.]

Paola Gribaudo e Luca Beatrice

 Fu molto prolifico dal punto di vista artistico, ma non tutte le sue opere furono apprezzate immediatamente; “Le demoiselles d’Avignon”, ad esempio, nonostante sia considerato il caposaldo del Cubismo, restò nelle mani di Picasso per una ventina d’anni prima di essere venduto. Un altro lavoro che ha consacrato l’artista alla Storia dell’Arte è “Guernica”. La cosa strana è che Picasso iniziò a lavorare a quest’opera ben prima che l’omonima città fosse bombardata… Nonostante le controverse circostanze della sua nascita, comunque, “Guernica” rimane un’opera dalla grandezza straordinaria. “Grandezza” in tutti i sensi, date le dimensioni fisiche del quadro; un manifesto, un’opera civile, caratterizzata dall’uso delle tonalità del solo grigio e dei tratti propri del Cubismo. Un’opera che ci permette di interrogarci sui compiti dell’Arte: è possibile veicolare un messaggio attraverso di essa? Ed è possibile farlo a prescindere dalla tecnica utilizzata o quest’ultima è essenziale allo scopo?

  “Self-portrait”

Melania Mazzucco, "Self-portrait"

 

Ma l’arte, al Salone, è stata declinata anche al femminile, grazie a una scrittrice conosciuta soprattutto per aver raccontato la storia di Plautilla ne “L’architettrice”. Con “Self-portrait”[1], Mazzucco ha dato lustro alle donne che hanno arricchito la Storia dell’Arte con grandi opere che ritraevano se stesse o altre donne; donne dalla forza d’animo immensa, donne come  Porzia, ritratta da Elisabetta Sirani nell’atto di ferirsi la coscia per dimostrare di saper sopportare dolore fisico e mentale. Il ritratto di Porzia e quello della fanciulla che compone una poesia sotto i fiori di ciliegio di notte, realizzato da Katsushika Ōi, sono stati scelti da Melania Mazzucco come manifesti della forza femminile e come portavoce di un messaggio molto particolare, ovvero: “Non si sceglie cosa dipingere, ma si può scegliere cosa non dipingere”.

Poi Mazzucco ci ha parlato di Plautilla Nelli di cui Vasari – che ne curò la biografia – scrisse una dolorosa verità, specchio di un costume sociale che ha impedito per tanto tempo alle donne di studiare e di affermarsi professionalmente. Vasari scrisse, infatti, che se Plautilla avesse potuto studiare, avrebbe prodotto opere meravigliose. Suor Plautilla Nelli, infatti, si era formata grazie alle opere giunte fino a lei, in convento, opere che avevano plasmato il suo stile su un’impronta classica, o – addirittura – arcaica. Vasari scrisse questo assunto nel 1568, ciò significa che già a quel tempo c’era la consapevolezza socialmente diffusa di un dislivello tra maschi e femmine…

E che dire di Berthe Morisot, ossia forse la più celebre artista dopo Artemisia Gentileschi e Frida Kahlo? Lei e la sorella, Edma, presero entrambe la via dell’Arte, ma poi la carriera di quest’ultima si interruppe in seguito al matrimonio con Adolphe Pontillon. A quel tempo, per le donne, sposarsi era un po’ come appendere le ali al muro…

Per Antonia Eiriz, invece, le cose andarono diversamente. Ammalatasi in giovanissima età, ebbe l’occasione di studiare e arrivò così a dipingere un’Annunciazione particolare in cui si percepisce l’inscindibilità di vita e morte.

“Self-portrait” contiene moltissime altre storie di donne che hanno fatto la Storia dell’Arte (passatemi il gioco di parole), ma Melania Mazzucco ha voluto soffermarsi sulla questione dell’istruzione, facendo intuire che se certe donne – pur non avendo avuto la possibilità di studiare - sono riuscite a produrre tali capolavori, studiando avrebbero creato opere ancor più straordinarie. Lo studio dell’anatomia, ad esempio, era loro precluso e dipingere un nudo maschile in un’epoca di restrizioni e tabù era praticamente impossibile! Senza contare che una donna artista sarebbe sempre stata derisa oltre che ostacolata, come nel caso di Giulia Lama…

Dacia Maraini

Dacia Maraini

 

Ma ci sono state anche donne che si sono distinte nel mondo della Letteratura… È il caso di Dacia Maraini, che è venuta al Salone per festeggiare insieme a noi i 60 anni della sua scrittura e  portarci un pezzo di Storia del Teatro. Maraini, infatti, ha iniziato a scrivere opere teatrali prima ancora che opere di narrativa! Ha cominciato con “Cicche”, per via di un suo personale interesse nei confronti degli esclusi e degli emarginati. Ma che cosa rappresenta il teatro, per questa grande artista? Innanzitutto Maraini ci rammenta che un’opera teatrale è sempre il frutto di un lavoro collettivo: gli attori e le attrici, il drammaturgo, i tecnici… tutti sono tasselli importantissimi. Poi, il Teatro è un’occasione di confronto - a differenza della narrativa – un confronto tra gli individui, un confronto tra diverse realtà, un confronto tra la vita e l’opera. Purtroppo, però, anche il Teatro ha un retaggio di esclusione femminile… Perché è vero che i testi greci avevano tante donne tra i loro personaggi, ma i loro ruoli erano interamente interpretati da uomini. C’è stato un momento nella storia – il periodo del matriarcato - in cui le donne erano tenute in grande considerazione, ma c’è stato anche un periodo – il periodo del patriarcato - in cui le donne hanno cessato di essere considerate generatrici di vita e hanno cominciato ad essere trattate alla stregua di meri contenitori. Da sempre (o quasi) le donne lottano per i loro diritti e per conquistarsi uno spazio all’interno della società e, per quanto riguarda il Teatro proposto da Maraini, possiamo dire che si tratta di un teatro che non esclude gli uomini, bensì esalta il diritto delle donne alla creatività.

Per Dacia Maraini, come per Bergson, la memoria è costituita dalla coscienza: non impariamo niente dalla Storia se non abbiamo memoria! E la scrittrice ha lavorato molto per mantenere viva la memoria, attraverso le sue opere e il suo operato. Si è dedicata a un Teatro sperimentale che univa l’immagine alla parola; si è dedicata al Teatro di strada, ovvero una grande novità, per il suo tempo; è sempre stata aperta al dialogo (e allo scambio di idee) e ha sempre saputo tenere distinte le persone dalle loro opere; per lei il rispetto dell’altro è essenziale.

Maraini ci ha parlato di come la condizione femminile è cambiata (in peggio) nel tempo, ma ci ha anche esposto il suo pensiero sul ruolo della scuola nell’ambito dell’evoluzione. Riassumendo: la scuola non dovrebbe essere trattata come un’azienda in cui produrre, bensì come un luogo di formazione in cui non solo gli studenti andrebbero aiutati, ma anche gli insegnanti!

Per concludere, Maraini invita tutti e tutte a leggere tanto perché leggere sviluppa l’immaginazione e ci aiuta a capire gli altri.

Stefania Auci, Francesca Giannone e Alessandra Selmi: tre scrittrici raccontano la Storia

Stefania Auci, Francesca Giannone e Alessandra Selmi


 

Restando sulla Letteratura al femminile, ma spostandoci in un’altra sala incontriamo tre autrici che – nei loro romanzi – hanno raccontato la Storia.

Come si scrive un romanzo storico? Come si crea un personaggio e come lo si inserisce nel contesto di riferimento? Cosa ci dicono i libri di queste tre scrittrici a proposito del mondo del lavoro?

Innanzitutto c’è da dire che un romanzo storico può contenere solo personaggi realmente esistiti, oppure personaggi interamente inventati, o – ancora - una equilibrata commistione di personaggi reali e personaggi inventati perché un romanzo storico deve essere sì aderente a fatti accaduti davvero e coerente con la Storia, ma non è un saggio. Un saggio ha il compito di istruire il lettore, mentre un romanzo (anche un romanzo storico) deve intrattenerlo. Ed è per questo che, per farlo, può anche contenere personaggi nati dall’immaginazione… L’ispirazione può arrivare  da ricordi ed esperienze personali di chi scrive, oppure può essere totalmente inventato, ma – in entrambi i casi, perché sia credibile - è necessario ricordarsi di dargli caratteristiche che rispecchino il contesto storico in cui verrà inserito e di “sentirlo”, ovvero di dargli uno spessore e una rotondità tali da renderlo vero, oltre che realistico. Ma ne “La portalettere”, Francesca Giannone ha fatto una operazione assai strana: è partita da personaggi reali per trasformarli in personaggi letterari e calarli in un mondo letterario che però non è né completamente reale né completamente inventato, bensì è una miscellanea di luoghi salentini.

Cosa non fare quando si dà vita ai personaggi? Giudicarli, perché se si perde tempo a giudicarli poi non se ne ha più per amarli.

Scrivere, quindi, è un lavoro individuale, ma il libro che ne verrà fuori sarà un prodotto corale, fatto di tanti elementi basati su studi approfonditi di ogni dettaglio che vanno a formare un equilibrio perfetto.

A questo punto della conferenza si è parlato di lavoro, un tema che accomuna tutti e tre i romanzi protagonisti dell’evento in questione, così Alessandra Selmi ha raccontato la storia del primo villaggio operaio d’Italia, a Crespi d’Adda. Fondato nel 1877 da Cristoforo Crespi, il complesso residenziale doveva servire ad agevolare gli operai (e, di conseguenza, la produttività) tenendoli vicini – con le loro famiglie – al posto di lavoro, ovvero il cotonificio. Il villaggio fu ideato e realizzato  nel rispetto dei canoni di bellezza e funzionalità: fu costruita persino una piscina perché i bambini – la cui entrata nel mondo del lavoro fu ritardata di due anni – potessero non soltanto divertirsi ma anche lavarsi.

Poi si è parlato dei Florio, protagonisti de “I leoni di Sicilia”. Il loro lavoro può addirittura essere analizzato da un duplice punto di vista: il lavoro dei Florio e il lavoro che i Florio danno alla città.

L’analisi di Stefania Auci ci permette di capire come era strutturato il mondo lavorativo nell’Italia meridionale nel 1800.

Durante la conferenza si è poi parlato d’amore; d’amore fraterno oltre che coniugale. Ma la cosa più importante che è emersa dall’ora trascorsa in sala è che le donne non solo sono in grado di fare la Storia, ma anche di raccontarla, con professionalità ma soprattutto sensibilità.

“Ragazzi di vita”

Margherita Oggero

 

Per raccontare una storia sono fondamentali la lingua e il linguaggio adatti; lo sapeva bene anche Pier Paolo Pasolini. le cui sperimentazioni linguistiche (sue e di altri grandi autori) sono state prese in esame da Margherita Oggero durante la conferenza dedicata a “Ragazzi di vita”.

Ludwig Wittgenstein sosteneva che esistono due lingue: la propria (quella materna) e tutte le altre. E da questo stesso assunto è partita Oggero per analizzare le scelte linguistiche di Pasolini.

Innanzitutto bisogna precisare che Pasolini nacque a Bologna, ma Casarsa –paese di origine della madre – divenne per lui la terra delle radici, anche di quelle linguistiche. La “lingua madre” di P.P. Pasolini è dunque il dialetto friulano, ecco perché quando decide di utilizzare  il romanesco per scrivere “Ragazzi di vita” il risultato appare come qualcosa di “forzato” e – in un certo senso – “schizofrenico”, dato che il romanzo ha due voci: una è la voce d’autore  (in Italiano) e l’altra è quella dei dialoghi  (in dialetto romanesco).

Sicuramente più simile a lui e alle sue origini è, invece, “La meglio gioventù”, una raccolta di poesie scritte in friulano dove la forza comunicativa dell’autore emerge in tutto il suo splendore.

Specularmente a “Ragazzi di vita” troviamo “Una vita violenta”, un altro romanzo scritto in dialetto romanesco. Sia l’uno che l’altro sono il risultato di esperimenti linguistici sicuramente interessanti, ma – forse - poco riusciti.

I dialetti offrono copiose sfumature di significati grazie al loro lessico vario e specifico: lo avevano capito Franco Loi, Carlo Porta e Luigi Meneghello. Entrando nello specifico, possiamo dire che Loi fu davvero un grande artista della parola: usò il meneghino (dialetto milanese), ma essendo molto aperto alle contaminazioni, lo intrecciò con neologismi, arcaismi e molto altro, ottenendo un impasto linguistico originale e fortemente espressivo.

Anche Carlo porta fece del dialetto milanese il punto di forza delle proprie poesie (così come Gioacchino Belli lo fece del romanesco).

Mentre Luigi Meneghello, nato a Malo (un paesino in provincia di Vicenza) giocò molto col proprio dialetto mescolandolo magistralmente all’Italiano (emblematica, a questo proposito, è l’opera intitolata “Libera nos a malo”). Ma Meneghello si spinse ancora oltre, operando addirittura una distinzione tra la lingua che viene insegnata a scuola e il proprio dialetto. La prima, stando al suo pensiero, è la lingua utilizzata dai grandi poteri: quello politico  quello religioso; la seconda, invece, è la lingua di tutti, più diretta e comunicativa.

E, dato che ci siamo addentrati nei temi di lingua e linguaggio, non posso che collegarmi ad altre due conferenze a cui ho assistito: una riguarda Paolo Nori e il mestiere dell’autore “invisibile” (ovvero il traduttore), mentre l’altra ha a che fare con un testo molto antico – “Il Cantico dei Cantici” – testo di cui ci ha parlato Elena Loewenthal, soffermandosi sulla trattazione dell’aspetto linguistico e di quello tematico.

L’autore “invisibile”

Paolo Nori

 

Una traduzione può influire tanto sulla resa del significato quanto sulla resa della potenza comunicativa? La risposta è “sì”. Quella del traduttore  è l’arte di scegliere le parole e di disporle in modo tale che non solo ci facciano capire il significato di un testo, ma ci facciano anche provare emozioni e sensazioni intense quando leggiamo. Perché leggere vuol dire vivere un’esperienza e questo può accadere soltanto se chi ha tradotto il testo che stiamo leggendo ha saputo trovare le parole giuste per poi ordinarle in maniera comunicativa.

Paolo Nori ci ha illustrato efficacemente, con esempi concreti, quale differenza intercorra tra una traduzione semplicemente corretta e una traduzione in grado di far provare al lettore quell’esperienza emotivo-sensoriale di cui parlavo prima.

Il primo esempio riguarda una sua (di Paolo Nori) vicenda personale che per un certo periodo di tempo lo ha visto ricoverato in ospedale, nel reparto dei grandi ustionati. Il suo dolore fisico era tanto intenso che continuava a tornargli in mente una frase di Boris Pasternak: “Vivere una vita non è attraversare un campo”. Una volta tornato a casa scoprì che la nuova traduzione di quella frase, a cura di Serena Prina, recitava: “Vivere una vita non è un gioco”. Nori la ritenne più “corretta”, ma mentre la vecchia traduzione lo ricollegava prepotentemente al dolore provato in ospedale, quella nuova non gli dava lo stesso “brivido”.

Anche l’incipit di “Memorie dal sottosuolo” nella nuova traduzione di Tommaso Landolfi, per quanto corretta, non rende la “trottola” letteraria creata dalle parole in lingua originale.

A scuola ci hanno insegnato che per evitare le ripetizioni di parole è bene usare dei sinonimi. Ecco, questo assunto è, nell’ambito delle traduzioni, una strategia pericolosa. Ad esempio, ne “La morte di Ivan Il’ič”, la parola “morte” viene usata come un’arma, perciò non avrebbe senso tradirla con “dipartita”.

Perché i suoi allievi e le sue allieve comprendano bene questo concetto, Paolo Nori è solito assegnar loro degli esercizi di scrittura più che degli esercizi di traduzione; per tradurre bene il Russo devi saperlo scrivere come un russo. Anche perché, nel vocabolario di lingua russa, ci sono parole talmente specifiche (per noi intraducibili dato che non disponiamo del corrispettivo nella nostra lingua) che bisogna sapersi destreggiare davvero molto bene tra le lingue per essere in grado di renderle al meglio in traduzione. C’è una parola per rendere il concetto di “postumi della sbronza” e c’è persino una parola per definire l’azione del bere dopo essersi sbronzati, per contrastare i sintomi dell’ubriacatura. (Una pratica che viene ben spiegata ne “Il Maestro e Margherita”[2]). A quanto pare c’è persino una maledizione legata in maniera specifica a questa pratica, che recita: “Possa tu non trovare la vodka dopo la sbronza”. Stando così le cose, il russo può essere considerato l’equivalente dei dialetti italiani…

E, infine, ecco una frase nota più o meno a tutti: “La bellezza salverà il mondo”[3]. È una traduzione corretta, certo, ma non vi suona meglio: “Il mondo lo salverà la bellezza”? Per Paolo Nori, sì.

Il “Cantico dei Cantici”

Elena Loewenthal

 

Per chiudere in bellezza questa sezione dedicata alle lingue e alle loro traduzioni, ritengo che il modo migliore sia riportandovi un sunto dell’intervento di Elena Loewenthal sul “Cantico dei Cantici”. In questo testo complesso, enigmatico e intenso compaiono infatti moltissime parole HAPAX, ossia termini che sono stati riscontrati solo su quelle pagine. Non disporre di altri testi che contengano quelle parole ci impedisce di confrontarne i significati, ci priva dei termini di paragone. Il “Cantico dei Cantici” è un testo ermetico e conturbante perché il tema di fondo è l’amore, tema che è stato interpretato in molti modi tra cui i seguenti:

-          Secondo un commentatore filologico medievale preciso e attendibile il testo andrebbe interpretato come un’allegoria dell’amore tra l’uomo (il popolo di Israele) e Dio. [Secondo questa visione, i seni rappresenterebbero le Tavole della Legge].

-          Come una sfida intellettuale di prim’ordine. Quando si dice “Ti amo”, in ebraico, va specificato sia il sesso di chi ama sia quello di chi è amato. In questo caso il popolo d’Israele è maschile e Dio è femminile (Shekinah), ma nel testo c’è una continua inversione dei ruoli che rende ardua ma stimolante l’interpretazione.

-          Come un testo profondamente fisico, ma anche stranamente etereo perché non viene raccontato l’atto d’amore in sé, bensì la speranza dell’amore, lo slancio amoroso di chi ama ma anche il desiderio di essere amati. È una storia di sensualità, ma è allo stesso tempo la storia di una sensualità che non può essere consumata in quanto c’è un ostacolo rappresentato dalla lontananza. “Il Cantico dei Cantici” è un testo struggente che sfida l’amore attraverso la lontananza, la stessa lontananza di cui però l’Amore si nutre, dando vita ad una storia che si autoalimenta…

IT IS NOT THE END OF THE WORLD

 

Oltre agli eventi di cui vi ho parlato fino ad ora ci sono state altre conferenze nel “mio” Salone del Libro: una mi ha permesso di ascoltare il Direttore uscente Nicola Lagioia e la Direttrice entrante Annalena Benini, mentre si confrontavano sui libri e le letture che li hanno formati[4];  un’altra mi ha portata a conoscere Guia Soncini - autrice del libro intitolato “Questi sono i 50” - e Cristina Fogazzi, anche nota come “L’estetista cinica”;

Guia Soncini, Annalena Benini e Cristina Fogazzi
 poi, come ho accennato nelle prime righe di questo articolo, ho ascoltato aneddoti e curiosità sulla vita delle api direttamente dalla voce di Marco Valsesia, autore de “La vita segreta delle api” e – naturalmente – apicoltore appassionato e appassionante. Poi ho ascoltato le proposte delle migliori scuole di scrittura creativa. E, infine, ho assistito alla conferenza stampa di chiusura del Salone in cui c’è stato il passaggio di consegne dall’ex Direttore Lagioia alla nuova Direttrice Benini. Quest’ultimo, in particolare, è stato un evento molto commovente: abbiamo ringraziato Nicola Lagioia che – durante i sette anni del suo mandato - ha saputo far crescere e fiorire il Salone Internazionale del Libro di Torino in maniera esponenziale. Anni di duro lavoro, anni faticosi, anni intensi per lui ma anche per tutti e tutte coloro che con lui hanno lavorato. È grazie a tutte queste persone e al loro impegno che migliaia o forse milioni di lettori e lettrici hanno potuto incontrare scrittori e scrittrici di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Solo questa XXXV edizione ha contato ben 215.000 visitatori!

Annalena Benini ha d’ora in avanti il grande onore ma anche l’enorme responsabilità di accompagnare il Salone verso nuovi traguardi, perciò le auguro con tutto il cuore di riuscire nell’impresa e approfitto dell’occasione per lanciare ancora un “grazie” sincero a Nicola Lagioia.

 



[1] Un autoritratto della donna artista, ovvero un nuovo Museo del mondo in cui la donna è "soggetto due volte": perché concepisce e realizza l'opera e perché ritrae se stessa o un'altra donna. Da Artemisia Gentileschi a Plautilla Briccia ("l'architettrice"), da Frida Kahlo a Georgia O'Keeffe, fino a Carol Rama, Louise Bourgeois e Marlene Dumas, Mazzucco disegna un percorso collettivo, tutto femminile, nel quale le donne rivendicano il diritto di realizzarsi nell'arte, superando i ruoli che la società e la cultura del tempo hanno sempre assegnato loro.

[2] di Michail Bulgakov

[3] Frase di Fëdor Dostoevskij

[4] Annalena Benini è una lettrice da sempre. Nei libri cerca un cammino di avvicinamento alla realtà, perché la realtà cambia sempre… Per lei i libri servono ad aprire porte e non a costruire recinti. Quando legge cerca qualcosa di simile all’innocenza, innocenza che nulla ha a che vedere con l’ingenuità. Attraverso la lettura cerca di entrare in contatto con le cose che non conosce. Ha amato molto i libri di Natalia Ginzburg perché attraverso di essi ha capito che esiste una forma ibrida di scrittura, vale a dire che in un romanzo puoi leggere anche qualcosa di lo ha scritto. La lettura, per Benini, può rassicurare ma può anche turbare. A.B. dichiara di essere stata una lettrice “disordinata”, casuale: voleva tutto perché tutto la incuriosiva, e ancora oggi è così. Una frase può darle lo spunto per leggere una storia, può invogliarla a conoscere altri autori e altre autrici. La lettura è per lei uno sfogo, un modo per essere libera e per “vedere” (nel senso di “percepire”) le scrittrici attorno a sé. Cerca l’intimità, nei libri che legge, anche se l’intimità non sempre conforta…

Nicola Lagioia e Annalena Benini

Nicola Lagioia racconta che nel mezzanino di suo nonno c’erano tre libri: “Peter Pan”, la “Divina Commedia” e il “Paradiso perduto”, perciò il suo primo contatto con il mondo della Letteratura è avvenuto proprio attraverso quei testi. Inizialmente il suo gusto era orientato sui fumetti, ma poi, in seguito ad una esperienza scolastica particolare, divenne simile al guerriero di cui parla Borges in uno dei suoi racconti, un guerriero che prima scelse di assediare Ravenna, ma poi decise di difenderla. Per lui la Letteratura va spesso a braccetto con il problema del Male. La vita è fatta di cose positive e negative e così è anche per la Letteratura, ma i due elementi non possono essere scissi in maniera netta. C’è il grigio oltre al bianco e al nero…

2 commenti:

  1. E' MERAVIGIOSO EMOLTO ISTRUTTIVO

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  2. Grazie mille! Fa sempre piacere sapere di aver fatto qualcosa di bello e utile.

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