Con l’avvento della
posta elettronica sono cambiate molte cose: innanzitutto la percezione dello
scorrere del tempo e in seconda battuta la sua fruizione/gestione; poi sono cambiate
le modalità di scrittura, la nostra
concezione dello spazio e, infine, anche quella delle immagini. In realtà,
anche il “parco sentimenti/sensazioni/emozioni” è mutato gradualmente,
soprattutto con la nascita dei Social
e, in particolare, con l’arrivo di WhatsApp.
Analizziamo, ora, ogni cosa nel dettaglio.
Quando Internet e le sue meraviglie erano
ancora un miraggio, si era soliti scrivere lettere a mano o – al massimo – a
macchina e spedirle a mezzo posta ordinaria. Erano, per chi li ricorda, i tempi
delle cartoline, dei francobolli e degli indirizzi “fisici”, vale a dire quelli
senza chioccioline o punti, ma con vie, corsi, piazze, numeri civici e codici
di avviamento postale. La scrittura a mano implicava il fatto di doversi dotare
di materiali quali, ad esempio, carta per la brutta copia, carta da lettera,
buste per le spedizioni, penne varie e – come già detto – francobolli.
Naturalmente tutto questo aveva dei costi che oggi non sono stati annullati, ma
sono diventati prerogativa dei gestori telefonici. Scrivere lettere a mano significava
selezionare con cura le informazioni da trasmettere (vivendo con il timore
costante di dimenticare qualcosa),
armarsi di pazienza per scrivere in bella grafia (altrimenti il destinatario
avrebbe dovuto lavorare all’interpretazione dello scritto come Champollion coi geroglifici) , trovare
il tempo di spedire (all’epoca non bastava un click), attendere i tempi di consegna (tenendo presente il rischio, non così
remoto, di disguidi postali) sommati a quelli che ci avrebbe messo il
destinatario a leggere, rispondere e spedire, a sua volta, e a quelli del
servizio postale per far recapitare la missiva. Selezionare le informazioni
voleva dire mettere in ordine i pensieri, fare chiarezza nelle idee e scriverle
in modo corretto e comprensibile con il metodo “buona la prima”: spedire
qualcosa di sbagliato (con il T9 e i vari correttori/suggeritori automatici
oggi il rischio dovrebbe essere scongiurato, o quasi, ma – chissà perché – gli
errori campeggiano numerosi nei nostri scritti), incompleto o astruso, infatti,
avrebbe comportato l’impossibilità di un’immediata correzione. Proprio per
questo, spesso, si redigevano le brutte copie… La grafia, in tutto ciò, era –
dunque – fondamentale: permetteva di trasmettere non soltanto messaggi
espliciti, ma anche impliciti, in quanto – dalla grafia di una persona – si
possono evincere parecchie cose… Per non parlare dell’emozione di ricevere
qualcosa che era stato scritto a mano! Oggi,
con la scrittura al computer, con gli
SMS, le chat, le e-mail e – addirittura – i messaggi vocali e le videochiamate,
abbiamo snellito tutto questo procedimento guadagnando qualcosa in termini di
praticità, ma perdendo la pazienza dell’attesa, la capacità di scrivere bene a
mano, l‘attenzione nella selezione e nella comunicazione delle informazioni.
Possiamo correggere subito un errore, possiamo rettificare immediatamente un
pensiero formulato male, possiamo giustificarci o controbattere in tempo reale.
Tutto questo è sia un fatto positivo (perché ha accorciato i tempi e le
distanze, modificando – probabilmente – anche le nostre attività cerebrali) sia
un fatto negativo (in quanto ci ha resi tutti “schiavi” della tecnologia e
della velocità). Quante volte vi è capitato di pensare o di essere accusati:
“Hai visualizzato, ma non hai ancora risposto. Perché?” Oppure: “Sta scrivendo…
A chi”? Costantemente performanti, sempre connessi, perennemente vittime del
controllo (sia di quello che esercitiamo sugli altri, sia di quello che gli
altri esercitano su di noi). La
trepidazione, l’attesa, la cura dei dettagli, la speranza o – al contrario – la
disperazione che si provavano ai tempi delle lettere sono state soppiantate
dall’ansia, dal nervosismo, dal senso di irritazione e dalla perdita della
sfera privata; dobbiamo avere la risposta pronta, anche quando siamo in bagno,
anche quando siamo a letto, anche quando stiamo male. Risparmiamo del tempo? Sì
e no. O, meglio, lo risparmiamo, ma – poi – lo sprechiamo in conversazioni
inutili, in messaggi di cui potremmo fare a meno, in liti che potrebbero essere
evitate. Anche le immagini, i simboli e le emoticon
di cui costelliamo i nostri discorsi scritti hanno doppia valenza: da una parte
aiutano l’immediatezza di espressione, ma dall’altra ci sottraggono la fatica
di pensare alle parole più adatte a esprimere ciò che sentiamo. Il valore
positivo o negativo di un’invenzione dipende sempre dall’uso che se fa. A
questo proposito, è bene esporre un altro dato di fatto: l’azzeramento di tempo
e spazio (con le videochiamate possiamo parlare col cugino in Australia pur
stando comodamente seduti sul divano di casa nostra, in Italia) ha prodotto un
cambiamento anche nelle nostre relazioni sociali. Abbiamo sempre più tempo, ma
sempre meno tempo; siamo sempre più interconnessi, ma sempre più frettolosi e
superficiali nelle nostre relazioni. Molti pensano: “Perché devo uscire per
andare a trovare il mio vicino di casa, quando posso starmene comodamente
spaparanzato sulla poltrona, in pigiama, e videochiamarlo?” Questo
atteggiamento si chiama “pigrizia” ed è molto pericoloso perché è in grado di
estendersi in modo subdolo e rapido. È vero, posso veder crescere mio nipote in
Germania come se fosse qui in Italia, accanto a me, senza dover attendere
settimane per vedermi recapitare una lettera con una sua fotografia. E non ho
più la necessità di lavorare di fantasia per rielaborare le immagini relative al
suo volto perché lo vedo crescere quasi “in tempo reale”. Ma nulla di tutto
questo potrà mai sostituire il contatto umano… Sentire il profumo della persona
amata, poterla abbracciare, percepire il suo calore, non ha prezzo… Per questo
non riesco a capire chi si tappa nella comodità e nella sicurezza di casa propria
e rinuncia così a cuor leggero all’incontro con gli amici vicini, che potrebbe
incontrare se solo mettesse il naso fuori dalla porta e facesse due passi…
Ancora un appunto
nostalgico sulla scrittura a mano: chi ricorda i famosi “bigliettini” che ci si
scambiava tra i banchi di scuola? L’entusiasmo di scriverne uno, magari con
grafia incerta e tremolante, piegarlo e passarlo al vicino perché lo passasse
alla vicina e così via fino al destinatario; la complicità o l’imbarazzo
nell’incrociare il suo sguardo, la
trepidazione per l’attesa della risposta e il terrore di essere scoperti
dall’insegnante. Emozioni che rimangono dentro…
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