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LA BELLEZZA

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venerdì 17 gennaio 2020

DALLA POSTA ORDINARIA ALLA POSTA ELETTRONICA


Con l’avvento della posta elettronica sono cambiate molte cose: innanzitutto la percezione dello scorrere del tempo e in seconda battuta la sua fruizione/gestione; poi sono cambiate le modalità di scrittura,  la nostra concezione dello spazio e, infine, anche quella delle immagini. In realtà, anche il “parco sentimenti/sensazioni/emozioni” è mutato gradualmente, soprattutto con la nascita dei Social e, in particolare, con l’arrivo di WhatsApp. Analizziamo, ora, ogni cosa nel dettaglio.
Quando Internet e le sue meraviglie erano ancora un miraggio, si era soliti scrivere lettere a mano o – al massimo – a macchina e spedirle a mezzo posta ordinaria. Erano, per chi li ricorda, i tempi delle cartoline, dei francobolli e degli indirizzi “fisici”, vale a dire quelli senza chioccioline o punti, ma con vie, corsi, piazze, numeri civici e codici di avviamento postale. La scrittura a mano implicava il fatto di doversi dotare di materiali quali, ad esempio, carta per la brutta copia, carta da lettera, buste per le spedizioni, penne varie e – come già detto – francobolli. Naturalmente tutto questo aveva dei costi che oggi non sono stati annullati, ma sono diventati prerogativa dei gestori telefonici. Scrivere lettere a mano significava selezionare con cura le informazioni da trasmettere (vivendo con il timore costante di  dimenticare qualcosa), armarsi di pazienza per scrivere in bella grafia (altrimenti il destinatario avrebbe dovuto lavorare all’interpretazione dello scritto come Champollion coi geroglifici) , trovare il tempo di spedire (all’epoca non bastava un click), attendere i tempi di consegna  (tenendo presente il rischio, non così remoto, di disguidi postali) sommati a quelli che ci avrebbe messo il destinatario a leggere, rispondere e spedire, a sua volta, e a quelli del servizio postale per far recapitare la missiva. Selezionare le informazioni voleva dire mettere in ordine i pensieri, fare chiarezza nelle idee e scriverle in modo corretto e comprensibile con il metodo “buona la prima”: spedire qualcosa di sbagliato (con il T9 e i vari correttori/suggeritori automatici oggi il rischio dovrebbe essere scongiurato, o quasi, ma – chissà perché – gli errori campeggiano numerosi nei nostri scritti), incompleto o astruso, infatti, avrebbe comportato l’impossibilità di un’immediata correzione. Proprio per questo, spesso, si redigevano le brutte copie… La grafia, in tutto ciò, era – dunque – fondamentale: permetteva di trasmettere non soltanto messaggi espliciti, ma anche impliciti, in quanto – dalla grafia di una persona – si possono evincere parecchie cose… Per non parlare dell’emozione di ricevere qualcosa che era stato scritto a mano!  Oggi, con la scrittura al computer, con gli SMS, le chat, le e-mail e – addirittura – i messaggi vocali e le videochiamate, abbiamo snellito tutto questo procedimento guadagnando qualcosa in termini di praticità, ma perdendo la pazienza dell’attesa, la capacità di scrivere bene a mano, l‘attenzione nella selezione e nella comunicazione delle informazioni. Possiamo correggere subito un errore, possiamo rettificare immediatamente un pensiero formulato male, possiamo giustificarci o controbattere in tempo reale. Tutto questo è sia un fatto positivo (perché ha accorciato i tempi e le distanze, modificando – probabilmente – anche le nostre attività cerebrali) sia un fatto negativo (in quanto ci ha resi tutti “schiavi” della tecnologia e della velocità). Quante volte vi è capitato di pensare o di essere accusati: “Hai visualizzato, ma non hai ancora risposto. Perché?” Oppure: “Sta scrivendo… A chi”? Costantemente performanti, sempre connessi, perennemente vittime del controllo (sia di quello che esercitiamo sugli altri, sia di quello che gli altri esercitano su di noi).  La trepidazione, l’attesa, la cura dei dettagli, la speranza o – al contrario – la disperazione che si provavano ai tempi delle lettere sono state soppiantate dall’ansia, dal nervosismo, dal senso di irritazione e dalla perdita della sfera privata; dobbiamo avere la risposta pronta, anche quando siamo in bagno, anche quando siamo a letto, anche quando stiamo male. Risparmiamo del tempo? Sì e no. O, meglio, lo risparmiamo, ma – poi – lo sprechiamo in conversazioni inutili, in messaggi di cui potremmo fare a meno, in liti che potrebbero essere evitate. Anche le immagini, i simboli e le emoticon di cui costelliamo i nostri discorsi scritti hanno doppia valenza: da una parte aiutano l’immediatezza di espressione, ma dall’altra ci sottraggono la fatica di pensare alle parole più adatte a esprimere ciò che sentiamo. Il valore positivo o negativo di un’invenzione dipende sempre dall’uso che se fa. A questo proposito, è bene esporre un altro dato di fatto: l’azzeramento di tempo e spazio (con le videochiamate possiamo parlare col cugino in Australia pur stando comodamente seduti sul divano di casa nostra, in Italia) ha prodotto un cambiamento anche nelle nostre relazioni sociali. Abbiamo sempre più tempo, ma sempre meno tempo; siamo sempre più interconnessi, ma sempre più frettolosi e superficiali nelle nostre relazioni. Molti pensano: “Perché devo uscire per andare a trovare il mio vicino di casa, quando posso starmene comodamente spaparanzato sulla poltrona, in pigiama, e videochiamarlo?” Questo atteggiamento si chiama “pigrizia” ed è molto pericoloso perché è in grado di estendersi in modo subdolo e rapido. È vero, posso veder crescere mio nipote in Germania come se fosse qui in Italia, accanto a me, senza dover attendere settimane per vedermi recapitare una lettera con una sua fotografia. E non ho più la necessità di lavorare di fantasia per rielaborare le immagini relative al suo volto perché lo vedo crescere quasi “in tempo reale”. Ma nulla di tutto questo potrà mai sostituire il contatto umano… Sentire il profumo della persona amata, poterla abbracciare, percepire il suo calore, non ha prezzo… Per questo non riesco a capire chi si tappa nella comodità e nella sicurezza di casa propria e rinuncia così a cuor leggero all’incontro con gli amici vicini, che potrebbe incontrare se solo mettesse il naso fuori dalla porta e facesse due passi…
Ancora un appunto nostalgico sulla scrittura a mano: chi ricorda i famosi “bigliettini” che ci si scambiava tra i banchi di scuola? L’entusiasmo di scriverne uno, magari con grafia incerta e tremolante, piegarlo e passarlo al vicino perché lo passasse alla vicina e così via fino al destinatario; la complicità o l’imbarazzo nell’incrociare il suo sguardo,  la trepidazione per l’attesa della risposta e il terrore di essere scoperti dall’insegnante. Emozioni che rimangono dentro…

venerdì 23 settembre 2016

PIRANDELLO AL TEMPO DEI MEDIA




Con l’avvento della tecnologia abbiamo assistito alla creazione di un panorama mediatico chiamato informatizzazione. Nel corso degli anni, però – al contrario  di ciò che si potrebbe pensare -   è cambiata non tanto la tecnologia in sé quanto lo scopo per cui si tenta di farla progredire a ritmi incessanti e in tempi brevissimi. La tecnologia è passata, infatti, dall’essere stata adottata e riadattata per semplificarci la vita all’essere sfruttata – più che messa al servizio – per permetterci di soddisfare bisogni tipici dell’era moderna quali, ad esempio, la curiosità e la ricerca di consensi e attenzione. In realtà il fenomeno della curiosità c’è sempre stato, ma  si è evoluto anch’esso assieme all’uomo, partendo da  quel tipo di curiosità tesa all’elevazione della coscienza e della conoscenza di sé e del “tutto” fino ad arrivare ad un genere di curiosità dai tratti palesemente morbosi. A tale scopo facciamo un uso spropositato dei più famosi Social Networks. All’inizio anche Facebook era nato per avvicinare e ri-avvicinare le persone, mentre ora questo strumento tanto solidale un tempo - ma pur sempre potente - è stato piegato alle bassezze della quotidianità. E così Facebook ha assunto molteplici valenze diventando la vetrina in cui esporre la nostra identità o ciò che crediamo sia la nostra identità. Il punto cruciale è proprio questo: chi è rappresentato realmente in ogni profilo pubblicato sui Social? Se ponessimo tale domanda al celeberrimo Luigi Pirandello, avremmo come risposta: “Uno, nessuno e centomila”; Pirandello sarebbe portato a considerare la bacheca di ogni singolo utente iscritto a Facebook, o a qualsiasi altro Social, come una maschera. Ognuno di noi è, infatti, la personificazione di qualcun altro; ognuno di noi recita un ruolo a seconda delle circostanze, delle esigenze, delle persone con cui vuole o deve interagire, o a seconda dell’effetto che vuole sortire. Quando andiamo a lavoro indossiamo la maschera dell’impiegato modello, quando siamo a casa mettiamo quella della casalinga perfetta, per uscire con gli amici ne mettiamo un’altra ancora, e così via. Allo stesso modo, per compilare il nostro profilo, pubblichiamo cose che forniscono un’immagine di come vorremmo essere o, nei casi più gravi, di come gli altri vorrebbero che fossimo. In ogni caso, quel profilo non racconta alcunché di noi né di come siamo fatti veramente. Siamo addirittura convinti che ciò che enunciamo nei post sia ciò che pensiamo davvero, ma non ci accorgiamo di scrivere solo quello che pensiamo otterrà un maggiore indice di gradimento. Tutta la nostra vita ruota attorno al numero di like. Pochi pollici in su e ci sentiamo perduti, smarriti messi in disparte. Scattano, dunque, subdoli meccanismi di difesa degni di un Vitangelo Moscarda dei giorni nostri. Attacchiamo gli altri per innalzare noi stessi e ci eleviamo abbassando il piedistallo, già fragile, su cui gli altri poggiano. E’ semplice far vacillare delle credenze dal basamento instabile, e dal bullismo fisico a quello morale il passo è breve. E’ questione di attimi smontare delle identità quando queste ultime non hanno radici solide, non sono saldamente ancorate a qualcosa. Ad ogni profilo creato corrisponde la distruzione della vera personalità di quell’individuo. Ogni foto in posa ritrae una di quelle famose maschere pirandelliane citate sopra; da quella che dice: “Io c’ero!”, passando per quella che urla: “Io ho fatto questo!”, fino ad arrivare a quella fatta tanto per avere qualcosa da pubblicare. Far parlare di sé o dire la propria su qualsiasi argomento – tanto meglio se si sa poco su di esso – inonda l’universo telematico di false informazioni, instilla credenze fuorvianti, pianta i semi dell'insicurezza patologica e accresce la massificazione, l’appiattimento e l’omologazione delle menti. L’involuzione è già iniziata e se ne notano gli effetti: teste chine su uno schermo, occhi inebetiti e calore umano soppresso e soppiantato dal costante scambio di file multimediali come unica forma di comunicazione. Gli stati d’animo si esprimono attraverso gli smile, gli emoticon, ci si nasconde dietro pseudonimi, si elevano tablet a barriere per il terrore di “contagiarsi” con le emozioni, di “sporcarsi” con troppa umanità. Se vogliamo sapere cosa sta facendo il vicino di casa o di scrivania, basta consultare “l’Oracolo di Cellulandia” e ogni mistero sarà svelato, ma guai a bussare a una porta o ad alzare lo sguardo! Così, oltre ad aver indossato delle maschere, abbiamo anche relegato in un angolo le relazioni interpersonali.
Fieri di come vanno le cose e inebriati dal potere che i media ci danno, non ci siamo ancora posti una domanda fondamentale: “E se i media sparissero domani?”.