In
un mondo in cui tutti sono traslucidi ed evanescenti, Cincinnatus C. è opaco.
“Io non sono uno qualunque – io sono l’unico vivo tra voi…” P.
58
A causa di questa sua caratteristica viene
condannato a morte per decapitazione e rinchiuso in una fortezza in cui sembra
essere l’unico prigioniero. La data dell’esecuzione gli è ignota e la mancanza
di questa informazione produce – sia nel protagonista sia nel lettore –
un’angoscia quasi tangibile. Nabokov gioca al teatro dell’assurdo con grande
maestria, sfidando implicitamente il lettore a distinguere la realtà dalla
finzione, all’interno del racconto stesso.
Il surrealismo che cade nell’assurdo può ricordare i quadri di Dalì, di
Magritte e, addirittura, quelli di De Chirico.
“Nel frattempo continuavano ad arrivare mobili, utensili
domestici, perfino singoli pezzi di parete. C’era un armadio con relativo
specchio dotato di un proprio personale riflesso (vale a dire: l’angolo di una
camera da letto matrimoniale con una striscia di sole sul pavimento, un guanto
caduto a terra e, più lontano, una porta aperta)”. P. 102
È un espediente letterario davvero ben
congegnato per trattare temi di importanza cruciale nella vita di tutti noi. Il
tema del “doppio” è la colonna portante di tutto il romanzo perché, prendendo
in esame il personaggio di Cincinnatus, l’autore ha modo di svelare la doppia
natura insita in ogni essere umano. Altri temi fondamentali sono sicuramente
quello della morte, quelli dello spazio e del tempo, nonché quello della
contrapposizione tra singolo individuo e collettività e quello della libertà
personale.
“Quando ero un bambino […] altri bambini venivano preparati
insieme a me alla sicura non-esistenza dei manichini adulti in cui tutti i miei
coetanei si sono trasformati senza sforzo o sofferenza; […] io sapevo senza
sapere, sapevo senza stupore, sapevo come uno sa di se stesso, sapevo quello
che è impossibile sapere – e, credo, lo sapevo più chiaramente di quanto non lo sappia oggi. Perché la vita
mi ha logorato: il perenne disagio, la dissimulazione di ciò che sapevo, la
finzione, la paura, una dolorosa tensione di tutti i nervi - non lasciarsi andare,
non emettere risonanze… e ancora oggi sento dolere quella parte della memoria
in cui è rimasto impresso il momento iniziale di tale sforzo, vale a dire la
prima volta in cui ho capito che le cose che mi erano sembrate naturali in
realtà erano proibite, impossibili, e che il solo pensarle era un atto
criminoso”. P. 98-99
È
un romanzo onirico, “Invito a una decapitazione”, in quanto ci parla di una
realtà talmente assurda e grottesca da sembrare un incubo ad occhi aperti.
“Sono circondato da una sorta di squallidi spettri, non da
persone. Mi tormentano come possono farlo solo visioni insensate, brutti sogni,
sedimenti di delirio, assurdità da incubo e tutto quello che qui passa per vita
vera. In teoria uno avrebbe voglia di svegliarsi. Ma svegliarsi per me è
impossibile senza un aiuto dall’esterno, e io ho un terrore atroce di questo
aiuto, la mia stessa anima si è impigrita, si è assuefatta alle sue strette
fasce”. P. 42
A questo proposito è necessario sottolineare
che Cincinnatus è condannato a morte non tanto per qualcosa che ha fatto, quanto
per ciò che è! È opaco, ma – paradossalmente – quell’opacità sembra conferirgli
l’esistenza, sembra donargli consistenza.
“Tratteremo ora della preziosa qualità di Cincinnatus; la sua
incompiutezza carnale; il fatto che gran parte di lui si trovava in tutt’altro
luogo, mentre solo una porzione insignificante del suo essere vagava lì,
perplessa – un povero, confuso Cincinnatus, un Cincinnatus relativamente
stupido, fiducioso, debole e sciocco come si è nel sonno. Ma anche durante quel
sonno – nonostante quel sonno – la sua vita autentica era fin troppo visibile”.
P. 121
Cincinnatus è diverso, si distingue da tutti
gli altri: ha in sé due nature in lotta tra loro e incarna, pertanto,
l’individuo che vorrebbe soltanto essere lasciato libero di esprimere se stesso
e la propria personalità; imprigionato in una fortezza all’apparenza
inespugnabile, costruita in modo tale che – ovunque decida di andare e qualunque direzione possa
prendere – tornerebbe inevitabilmente alla propria cella: l’autore ha così
creato una perfetta metafora delle gabbie mentali e delle costrizioni cui siamo
sottoposti da una società che ci vuole tutti uguali e obbedienti. In quanto
costruzione mentale, la fortezza è
solida fintanto che lo sono le pressioni e i condizionamenti da cui si è soliti
lasciarsi soggiogare. Nel mondo di Cincinnatus tutto potrebbe sgretolarsi e
dissolversi in un istante soltanto se lui lo volesse davvero, ma il punto è
proprio questo: il protagonista avrà il coraggio di guardare in faccia la
realtà e di far svanire le scenografie?
Cincinnatus
rappresenta l’uomo con le sue paure più grandi: la principale è, sicuramente,
la paura della morte. Come tutti, non conosce il giorno esatto in cui cesserà
di vivere e, inizialmente, nutre la speranza che qualcuno lo salvi
dall’esecuzione; spera di poter evadere, ma –
nello stesso tempo – non ha le forze per tentare la fuga. Esistono, d’altronde,
svariate tipologie di comportamenti di fronte alla certezza della morte: ci si
può abbandonare ad uno stato di ansia e angoscia, si può coltivare la speranza
di essere graziati da qualcuno o da qualcosa, ci si può rassegnare, accettando
apaticamente l’inevitabile, si può lottare per essere artefici della propria
salvezza, si può sfruttare proficuamente il tempo che rimane, oppure è
possibile addirittura arrivare a tradirsi, a rinnegare se stessi, in vista di
chissà quale futuro. Cincinnatus, dal canto suo, resosi conto che nessuno lo
salverà e che ha a disposizione un tempo estremamente limitato per lasciare una
traccia del suo passaggio su questa Terra, decide (dopo aver sprecato gran
parte dei giorni trascorsi in carcere) di sfruttare quel poco che gli rimane da
vivere scrivendo quei pensieri che gli attanagliano la mente. Perché, in fondo,
la paura della morte ci prende quando sentiamo di non avere tempo a sufficienza
per realizzare i nostri desideri e quando pensiamo che forse non abbiamo fatto
abbastanza per essere ricordati da coloro che resteranno.
“L’orribile ‘qui’, l’oscura segreta in cui è incarcerato un
cuore che ulula senza posa, questo ‘qui’ mi trattiene e mi limita. […] Esiste,
il mio mondo di sogni, deve esistere, perché certo dev’esserci un originale di
questa copia malriuscita. […] È da una simile sensazione che trae origine il
mio mondo: […] e la mia anima si espande così liberamente nel suo regno natio.
[…] Là il tempo si modella a
piacimento”. P. 96-97
D’altra
parte, se la vita in prigione non può essere considerata una vera vita, neanche
il fatto di nascondere continuamente il proprio “Io” può esserla. Egualizzarsi
agli altri, omologarsi agli standard, fingere di essere ciò che non si è fino
ad annullarsi completamente non
rappresenta uno stile di vita dignitoso… Così come ne “La morte di Ivan Il’ič” di Tolstoj il protagonista Ivan si
libera della paura della morte nel momento esatto in cui capisce che tutta la
sua vita è stata una farsa, una messinscena, anche a Cincinnatus basterebbe
“aprire gli occhi” e l’incubo svanirebbe. Lo farà?
Direttamente
collegato al tema della morte c’è quello del tempo.
«Quando esce,» disse Cincinnatus «osservi l’orologio in
corridoio. Il quadrante non ha i numeri; eppure la guardia va e viene ogni ora
per lavare via la lancetta vecchia e spennellarne malamente una nuova – ed ecco
come viviamo, in base a un tempo dipinto col catrame, e i rintocchi sono opera
del guardiano, che infatti è colui che lo “guarda”, il tempo»”. P. 135
Il tempo che si percepisce durante una
qualsiasi forma di prigionia (che sia mentale o fisica, poco importa) è molto
diverso dal tempo che si percepisce in libertà. Così come la fortezza è uno
spazio distorto, anche il tempo all’interno è soggetto a distorsione. Ogni cosa
– nel libro - è come la si percepisce, pertanto basterebbe cambiare lo sguardo
sulle cose e le cose stesse cambierebbero… Una cosa simile accade anche con il
tempo: il tempo scorre, è vero, il giorno e la notte si inseguono
incessantemente ma a volte capita di avere la sensazione che scorra via troppo
in fretta, altre volte – invece – ci sembra che vada al rallentatore.
“Sono dispostissimo ad ammettere la loro natura illusoria, ma in
questo momento credo talmente alla loro esistenza da contagiarli con il virus
della verità”. P. 139
“C’era il piccolo, noioso compagno di prigionia […] e gli altri,
i non meglio precisati guardiani e soldati e nell’evocarli – forse senza
neppure credere alla loro esistenza, ma ciò nonostante evocandoli – Cincinnatus
dava loro il diritto di esistere, li convalidava, li alimentava con tutto se
stesso”. P. 156
A
donare un effetto più marcatamente onirico e surreale sono anche le figure
retoriche che Nabokov utilizza nella narrazione: sineddoche, ossimori,
metafore, similitudini e soprattutto sinestesie. Si dice, infatti, che lo
stesso Nabokov fosse sinestesico.
“Immagino che il dolore della separazione finale sarà rosso e
chiassoso”. P. 193
Compaiono,
inoltre, riferimenti all’entomologia (grande passione di Nabokov). Le
descrizioni sono – nello stesso tempo – nitide e sfumate, tanto che dalle
parole dell’autore traspare una sensibilità quasi struggente.
Molte
altre cose dovrebbero esser dette su “Invito a una decapitazione”, ma mi
fermerò qui per non togliervi il piacere della lettura e – soprattutto – la possibilità
di scoprire nuove chiavi di interpretazione.
Ostico, all’apparenza, ma estremamente
scorrevole in realtà. La suspense (o tensione emotiva) che l’autore ha saputo
creare sono funzionali allo scopo di tenere viva l’attenzione del lettore
dall’inizio alla fine.
Testo
di riferimento: “Invito a una decapitazione” di Vladimir Nabokov, Edizioni
Adelphi.
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