Da sx: Elena Varvello, Marcella Filippa, Rosella Postorino |
Da sx: E. Varvello, M. Filippa, R. Postorino e Marco Pautasso |
Sabato 19 gennaio 2019 si è aperta
la seconda edizione di Giorni Selvaggi, al Polo del ‘900 (a Torino) che ha
visto protagonista Rosella Postorino col suo maggiore successo letterario
intitolato Le assaggiatrici (Edizioni
Feltrinelli). Il libro, vincitore della 56esima edizione del Premio Campiello,
è stato al centro di un dialogo dai toni profondi e mai scontati tra l’autrice
e la poetessa Elena Varvello, introdotto da Marcella Filippa (Direttrice della
Fondazione Vera Nocentini) e da Marco Pautasso (Vicedirettore editoriale del
Salone del Libro).
La prima suggestione emersa durante
l’intervista/dialogo ha riguardato un confronto tra l’imponente lavoro di
ricerca (storica, sociale, culturale, ecc.) compiuto da Postorino per
scrivere Le assaggiatrici e le altrettanto accurate ricerche fatte da Truman
Capote per la stesura di A sangue freddo.
La scrittrice si è, infatti, dedicata a ricerche minuziose, concentrandosi
anche sui minimi dettagli per garantire al proprio romanzo la verosimiglianza
di cui necessitava. Si è avvalsa di studi personali, di consulenze tecniche
specialistiche e – addirittura – di visite, dal vivo, ai luoghi di cui si parla
nel libro.
La parola chiave, quella che - fin dai primi
minuti di conversazione – ha conquistato la scena è stata “desiderio”. A ben vedere, infatti, Le assaggiatrici nasce dal forte desiderio di Rosella Postorino di
conoscere la donna da cui ha tratto l’ispirazione per il suo libro: Margot
Wӧlk, una delle assaggiatrici di Hitler, l’ultima sopravvissuta, deceduta –
però – poco prima che Postorino potesse avere l’opportunità di incontrarla.
È stata un’ardua impresa, per la
scrittrice, parlare di Wӧlk, verso la quale si sentiva eticamente in
difetto: come si può raccontare la storia di qualcuno che non si conosce
personalmente? Come si può scrivere di cose che non sono state vissute sulla
propria pelle? Paradossalmente è stato proprio questo mancato incontro tra le
due donne a decretare la riuscita del romanzo perché Rosella Postorino – su
consiglio della propria agente letteraria – ha preso in considerazione non
tanto Margot Wӧlk quanto, piuttosto, ciò che la figura di Margot Wӧlk
rappresenta: è per tale motivo che, nel romanzo di Postorino, la
protagonista viene chiamata Rosa Sauer. Ed è più che comprensibile, poiché la
cornice è – sì – storica, ma le vicende umane, quelle intime e personali dei
protagonisti sono soltanto ISPIRATE a persone realmente esistite. Le assaggiatrici è un romanzo storico,
ma unicamente per ciò che concerne l’ambientazione.
Allora perché Rosa Sauer è una
figura tanto interessante? Per la sua umanità; perché è una vittima, ma una
vittima particolare, “ambivalente” – come viene definita dalla stessa autrice –
in quanto “scivolata nella colpa”, suo malgrado. Tutti i personaggi de Le assaggiatrici sono, in fondo,
ambivalenti. Rosa Sauer, in particolare, vive la propria storia essendo
vittima, ma sentendosi spesso colpevole, come se – con il suo comportamento –
avesse contribuito ad alimentare, a tener vivo quello stesso Sistema che la
rendeva vittima. E il periodo storico in cui si svolgono le vicende (quello
della Germania di Hitler, per intenderci) ben si adatta ad ospitare questa
ambivalenza, questo dualismo Bene/Male, dai confini tutt’altro che netti o
definiti.
Durante il dialogo tra Postorino
e Varvello emergono, a questo proposito, le due categorie in cui si scinde
la colpa: la colpa volontaria e quella involontaria; ed ecco che il riferimento
a I sommersi e i salvati di Primo
Levi si fa evidente, soprattutto nel passaggio in cui lo stesso Levi dichiara
che i salvati non erano – necessariamente – i migliori, ma più che altro coloro
che meglio si erano adattati al Sistema. Rosa Sauer è costretta a convivere con
il fatto di essere tedesca – non
nazista, è vero, ma pur sempre tedesca – e con il senso di colpa di chi
sopravvive a grandi sventure.
Varvello sostiene che conoscere
la fine della storia impedisca allo scrittore di scrivere quella stessa storia
e – sebbene il mancato incontro tra Postorino e Wӧlk sia stato decisivo
per la stesura del romanzo – la scrittrice
ha, impigliate nella gola, delle domande per la donna che ha ispirato il suo
libro: “Perché hai taciuto tanto a lungo? Perché non hai raccontato prima la
tua storia? È per la vergogna di ciò che hai subito o di ciò che hai visto
accadere?”
Postorino ha dichiarato di non
avere avuto alcun intento pedagogico tra le motivazioni che l’hanno spinta a
scrivere Le assaggiatrici, ma
solamente l’esigenza di raccontare una storia fatta di momenti quotidiani e –
soprattutto – umani che non sarebbero (e – di fatto – non sono) mai entrati nei
libri di storia. Le domande che Rosa si pone sono quelle che la stessa Rosella
si è posta e si pone ancora oggi. Sì,
ancora oggi, perché un romanzo non ti dà mai le risposte (tantomeno quelle
giuste in assoluto), semmai alimenta domande.
L’intervista si è chiusa con la
stessa parola chiave con cui si era aperta, vale a dire con la parola
“desiderio”, solo che – questa volta – il pensiero della Postorino è andato a
Marguerite Duras (scrittrice di cui ha tradotto e curato alcune opere), la
quale definiva il desiderio un “gesto politico”, una rivendicazione
dell’esistenza.
Le due autrici hanno toccato molti
altri argomenti, oltre quelli qui riportati, tra cui il modo in cui sono
cambiati, nel corso di pochi anni, il clima politico e quello sociale dell’Europa.
Si è parlato degli orrori compiuti in tempo di guerra e del tipo di relazioni
umane che si instaurano, a volte, sotto un comune denominatore. Sotto il segno
di uno stesso destino, ad esempio, può nascere un’amicizia… Anche se, nel caso
specifico del romanzo in questione, tutte le amicizie che nasceranno si troveranno
in un luogo ostile (la “Tana del Lupo”), fondato sul sospetto; è chiaro,
dunque, che presto le protagoniste saranno costrette a fare i conti con
sentimenti agli antipodi: da una parte la solidarietà e dall’altra la rivalità.
Un incontro davvero toccante, ricco di spunti di
riflessione terminato – però – troppo presto. Ogni argomento trattato avrebbe
avuto bisogno di molto più tempo; parlando a titolo personale, ho trovato il
libro estremamente profondo e avrei volentieri posto delle domande all’autrice,
domande che voglio condividere qui, sul mio blog:
1. Una delle
numerose parole chiave del suo romanzo è “FAME”: oltre che di un bisogno di
cibo può trattarsi di una metafora per indicare il bisogno di affetto, di
contatto umano, di aria (e – per estensione - di libertà), di protezione, di
condivisione, di fiducia e di considerazione? E, a proposito: è vero che
parlare di fame in questo libro è più che appropriato (considerato il periodo
storico cui fa riferimento), ma se dovesse parlare del periodo attuale,
userebbe ancora “FAME” o propenderebbe – piuttosto – per “APPETITO”?
2. Nel suo
libro c’è la netta distinzione tra “VIVERE” e “SOPRAVVIVERE”: cosa distingue
queste due modalità di vita l’una dall’altra? La differenza può essere
rappresentata dalla libertà?
3. “Ogni
lavoro implica dei compromessi. Ogni lavoro è una schiavitù: il bisogno di
avere un ruolo nel mondo, di essere incanalati in una direzione precisa, per
sottrarsi al deragliamento, alla marginalità”. Ma davvero è il ruolo che
svolgiamo a determinare chi siamo?
4. La
protagonista del suo libro, Rosa Sauer, associa spesso le proprie funzioni
corporali a quelle espletate dal Fürer, perché questo espediente glielo rende
più “umano”: secondo lei, cosa occorre all’uomo di oggi perché veda nell’altro
la stessa “umanità” presente in se stesso?
5. Come sono
cambiati (se sono cambiati) i sentimenti delle persone, dal periodo della
Seconda Guerra Mondiale ad oggi? La paura, il “terrore cosciente” – come lo
chiama lei – è ancora la stessa paura/terrore o quando cambia l’oggetto della
nostra paura cambia anche la paura stessa? L’affetto, la solidarietà, la
fratellanza, l’amore e l’odio sono ancora gli stessi? Sono ancora radicati in
noi allo stesso modo? Penso, ad esempio, alla crescente paura/odio per lo
straniero che oggi vediamo allargarsi a macchia d’olio.
6. In certi
punti del suo romanzo si evince l’importanza che assume – talvolta – la
dipendenza tra gli individui: secondo lei, è necessario fare affidamento sugli
altri, per poter sopravvivere, o – al contrario – la fiducia può rivelarsi una
trappola da cui sarebbe meglio guardarsi?
7. È il
desiderio di qualcosa a creare le condizioni perché quel qualcosa si verifichi
o – al contrario – è il verificarsi di determinate circostanze a dare origine
al desiderio?
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