Il romanzo inizia in medias res: ci troviamo catapultati
nell’aula della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America. L’imputato è un uomo
di colore soprannominato Bonbon. Bonbon è un nero sui generis accusato nientemeno che di aver reintrodotto la
schiavitù e la segregazione razziale nella sua cittadina, Dickens. E’
interessante analizzare come e perché sia arrivato a compiere un gesto
all’apparenza tanto folle. Bonbon è figlio di un sociologo/psicologo
soprannominato “L’uomo che sussurrava ai negri” per la sua straordinaria
capacità di influenzare - con le proprie parole – le azioni dei propri
concittadini di colore. Anche Bonbon è stato influenzato dalla figura paterna,
che conduceva su di lui ogni genere di esperimento. Una volta venuto a
mancargli il padre, Bonbon si trova pressato da una doppia eredità: portare
avanti l’opera di "sussurrare ai negri", nonché il compito di presiedere alle
riunioni dei Dum Dum Donut Intellectuals (un
circolo di stampo sociologico fondato dal padre stesso). Bonbon sembra
disattendere tutte le aspettative paterne fino a quando scopre che Dickens
(cinque anni dopo la morte del padre) è stata cancellata dalle carte
geografiche dalle autorità della Contea. “La
scomparsa di Dickens colpì alcuni più duramente di altri, ma l’abitante più
bisognoso dei miei servigi era il vecchio Hominy Jenkins”. Hominy è un
uomo instabile, nonostante il glorioso passato da attore, e rappresenta forse “il primo negro a cui abbia mai sussurrato” Bonbon.
Bonbon salva, infatti, Hominy da un tentato suicidio e quest’ultimo si
autoproclama suo schiavo in segno di riconoscenza. Bonbon non è d’accordo e tenta
più volte di liberarlo, senza avere successo. Ed ecco quindi spiegata a grandi
linee la rinascita della schiavitù; ma ancora un nodo resta da sciogliere,
ossia come e perché sia avvenuta la reintroduzione della segregazione razziale.
Primario obiettivo di Bonbon è infatti quello di ridare vita alla ormai
scomparsa cittadina di Dickens. Dal creare di suo pugno cartelli stradali al
partorire l’idea di una scuola aperta solo ai neri, al fare dell’autobus di
zona un vero e proprio “quartiere” con leggi e regolamenti ben precisi, Bonbon
riporta in auge il razzismo. Il paradosso sta nel fatto che con la reintroduzione di schiavitù e segregazione razziale la
cittadina sembra migliorare…
“Lo schiavista” tenta di dimostrare
quanto debole sia il concetto di uguaglianza tanto declamato a gran voce dagli
americani. L’intento non è quello di “sputare” sul diritto alla libertà di ogni
essere umano, conquistato col sangue e col dolore di gente innocente, ma – al
contrario – quello di farci comprendere che il razzismo non è mai stato
debellato. Tutti, in modi e quantità differenti sono razzisti. “Lo schiavista”
non è un “inno” al “si stava meglio quando si stava peggio”, ma la
chiarificazione che un tempo il razzismo e la paura del “diverso” erano
dichiarati e “professati alla luce del sole”, mentre ora il cinismo e
l’ipocrisia nascondono questi problemi che, purtroppo, non hanno mai smesso di
esistere.
Ogni frase, una potente critica.
Ogni frase svela un tassello di
quel gigantesco puzzle che è l’America.
Ogni frase è un riferimento ad un
concetto più ampio e complesso.
Il linguaggio è ricco, denso e
ricercato, ma - nonostante ciò – lo stile è scorrevole, fluente, veloce, dal
dinamismo impressionante. Il ritmo è incalzante.
Il concetto di confine viene
trattato come una metafora. Il desiderio di ripristino della cittadina equivale
al desiderio di riconquistarsi un’identità, un posto nel mondo. E’ importante
per chiunque sentirsi appartenente ad un gruppo sociale. Il senso di identità e
quello di appartenenza sono essenziali nella vita di ogni uomo.
E’ un libro complesso e articolato.
In 369 pagine, Paul Beatty[1]
ci spiega cosa significhi essere una persona di colore, svelando cliché e stereotipi della vita “nera”.
Beatty smonta pezzo per pezzo quella che è la società americana, ogni
“altarino”, ogni “scheletro nell’armadio” con ironia, sfociando spesso nel più
duro sarcasmo. Un umorismo pungente, quindi; un libro da gustarsi ridendo,
diventando ad ogni pagina più consapevoli della realtà in cui viviamo.
Vi
lascio con due citazioni – per me significative - tratte dal libro:
“E’ illegale gridare
‘al fuoco’ in un cinema pieno di gente, giusto?”
“Sì”.
“Be’, io ho
sussurrato ‘razzismo’ in un mondo post razziale”.
“Nel tentativo di
riportare in vita la propria comunità attraverso la reintroduzione di norme,
come la segregazione razziale e la schiavitù, che, data la storia culturale
dell’imputato stesso, hanno finito, nonostante la loro pretesa
incostituzionalità e inesistenza, con il definire tale comunità, l’imputato ha
fatto emergere una debolezza fondamentale nel modo in cui noi, in quanto
americani, sosteniamo di considerare l’uguaglianza. ‘Non mi importa se sei
nero, bianco, marrone, giallo, rosso, verde o viola’. L’abbiamo detto tutti. In
teoria questa affermazione doveva dimostrare che la nostra visione delle cose
era priva di pregiudizi, eppure chiunque di noi, se venisse dipinto di viola o
di verde, sarebbe fuori di sé dalla rabbia. Ed è questo ciò che sta facendo
l’imputato. Ci sta dipingendo tutti, sta dipingendo questa comunità di viola e
di verde, per vedere chi ancora crede nell’uguaglianza”.
[1] Paul
Beatty: nato nel 1962 a Los Angeles, ha
studiato Scrittura creativa al Brooklyn College e Psicolgia alla Boston
University. Oltre a “Lo schiavista”, Fazi Editore ha pubblicato “Slumberland”
nel 2010. Beatty ha tre figli, vive a New York e con “Lo schiavista” si è
aggiudicato il prestigiosissimo Man
Booker Prize.
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