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LA BELLEZZA

mercoledì 21 aprile 2021

IL GABBIANO JONATHAN LIVINGSTON

 

IL GABBIANO JONATHAN LIVINGSTON di Richard Bach, Bur (Rizzoli)

“Il gabbiano Jonathan Livingston non è come tutti gli altri. Là dove i suoi simili, schiavi di becco e pancia, si limitano a composti viaggetti per procurarsi il cibo inseguendo le barche da pesca, lui intuisce nel volo una bellezza e un valore assoluti. Tanto basta per meritargli il marchio dell’infamia e l’allontanamento dallo stormo Buonappetito. Solo, audace, sempre più libero, Jonathan il Reietto scopre l’ebbrezza del volo acrobatico e varca i confini di altri mondi, altre dimensioni abitate da gabbiani solitari simili a lui nella spasmodica fame e sete di perfezione. Ne diventa la guida, il capo indiscusso, e tra i compagni incontrerà chi senza saperlo è pronto a raccogliere la sua eredità”.

 

“Possiamo elevarci dall’ignoranza, possiamo scoprirci creature straordinarie, intelligenti e capaci, Possiamo essere liberi! Possiamo imparare a volare!” [Pag. 27]

Possiamo superare i nostri limiti. Possiamo farlo proprio perché siamo creature meravigliose; perché la perfezione esiste e “il nostro scopo nella vita è trovare quella perfezione e manifestarla”. E perché “scegliamo il nostro prossimo mondo in base a ciò che apprendiamo in questo. Se non impari niente, il prossimo mondo sarà identico a questo, con tutti gli stessi limiti, le stesse zavorre”. [Pag. 55]

Il prossimo mondo non è necessariamente quello in cui avverrà la nostra prossima reincarnazione. Il prossimo mondo può manifestarsi già qui, ora, semplicemente riconoscendo di voler essere liberi. Non è necessario morire fisicamente, per rinascere: ogni cambiamento è una morte. Ogni superamento dei nostri limiti è un superamento di noi stessi perciò davanti a noi si spalanca un nuovo mondo ad ogni mutazione. Per questo, se non cresciamo, se non cerchiamo le nostre aspirazioni, non otterremo mai più  del mondo in cui abbiamo sempre vissuto. Per vivere in un mondo migliore non bisogna aspettare che siano altri a crearlo, bisogna adoperarsi per crearselo da soli, vale a dire in autonomia. E poi, quando si sono superati i propri limiti, “si scompare” (così è scritto nel libro di Bach) perché la terra è diventata troppo limitata per contenerci. “Scomparire” è un altro modo per dire che non siamo più al livello di prima, così chi ha deciso di non “innalzarsi” con noi non è più in grado di vederci. Il gabbiano Jonathan non si limita a sperare che le cose cambino, lui lotta perché il cambiamento avvenga. Dimostra al suo stormo che il volare non è solo  il modo per sopravvivere, ma anche e soprattutto lo scopo della vita. Anzi, è la vita stessa. Si nasce per volare e quella del volo è una bella metafora a sostegno del fatto che sia necessario perseguire alte aspirazioni, tendere al miglioramento e alla crescita, (puntare in alto se preferite), ricercare sé stessi in qualcosa (o Qualcosa) di più grande ed elevato. Da questo deduciamo che esistono due modi di volare: uno è facendo lo stretto indispensabile per sopravvivere e l’altro è votandosi alla libertà per vivere davvero.

“Vede più in là il gabbiano che vola più in alto”. [Pag. 72]

Volare significa mettere le ali al pensiero, significa cambiare il punto di vista, superare i propri limiti, crescere. “Volare è molto più che limitarsi a sbatacchiare le ali da un posto all’altro!” [Pag. 74]

Volare è  qualcosa di intenzionale, è volontà. Non a caso è stato coniato quel famoso detto che recita: “Volere è volare!”

Volare è desiderare di sentirsi liberi e lasciarsi colmare dalle idee così da avere qualcosa da realizzare (e per cui vivere). Guardare in faccia la bellezza con gli occhi di Eros, fino a raggiungere una forma di estasi e ritornare, poi, alla realtà portando “in grembo” un’idea da “partorire”. Come si partorisce? Condividendo, insegnando ciò che si è appreso, o anche semplicemente realizzandolo. L’Iperuranio di Platone, la Maieutica di Socrate…

“Il paradiso non è un luogo, e non è un tempo. Il paradiso è essere perfetti. […] Raggiungerai il paradiso nel momento in cui raggiungerai la velocità perfetta”. Il che non vuol dire volare a una certa velocità (cioè a un certo numero di chilometri/miglia all’ora), “perché qualunque numero è un limite, e la perfezione non ha limiti. La velocità perfetta è esserci”. [Pag. 56-57]

Allora la perfezione che cos’è?

Se ho ben capito, è andare incontro alla libertà. E nel momento in cui decidiamo di voler essere liberi, di voler spezzare le catene dei limiti, siamo già a metà della strada per la perfezione. L’altra metà si percorre facendo del proprio meglio in ogni cosa fino ad arrivare alla pace coi sé  stessi. Non è un atto di egoismo in quanto una buona parte del nostro cammino prevede che condividiamo con gli altri ciò che abbiamo appreso. Ognuno raggiunge la perfezione nel momento in cui sta bene con sé stesso, nel momento in cui sente di essere pervaso dalla pace interiore. Ognuno è perfetto a modo proprio.

Il gruppo è un’agevolazione o un ostacolo?

Il gruppo è un organismo plurivalente: da una parte può fornire appoggio, protezione e compagnia mentre dall’altra può rivelarsi una gabbia di regole, costrizioni e impedimenti. Ma queste non sono le uniche funzioni cui può assolvere un gruppo (o, per restare in tema, uno stormo). Se composto da individui coraggiosi , questo organismo può far crescere i propri membri attraverso la solidarietà e soprattutto la condivisione delle esperienze. Ma alla condivisione torneremo tra un po’.

A un certo punto compare una frase che mi ha lasciata assai perplessa: “Per volare veloce come il pensiero, e andare ovunque devi convincerti che sei già arrivato”. [Pag. 68]

Ho sempre pensato che convincersi di non avere più obiettivi, di sapere già tutto e di non avere più nulla da imparare fosse la peggior forma di ignoranza. Così ho letto e riletto questa frase, preda di un profondo turbamento, e più la rileggevo più mi sembrava di leggere qualcosa come: se vuoi guarire devi pensare di essere già guarito. Provavo un certo fastidio davanti a questo punto di vista. Poi, però, poche righe dopo, ho ribaltato la mia prospettiva quando ho letto queste righe: “Il trucco era sapere che la sua vera natura viveva ovunque nello stesso momento, perfetta come un numero non scritto, nello spazio e nel tempo”. [Pag. 69]

L’insieme dei tuoi tanti “io” fa sì che tu sia unico proprio perché molteplice, speciale proprio perché perfetto e  perfetto dal momento in cui decidi di essere te stesso. Raggiungi la perfezione ogni volta che ti poni un obiettivo in linea con te stesso e lo consegui. Essere te stesso è l’obiettivo più grande  cui tu possa aspirare perché fatto di tante piccole tappe. Se ti accorgi di ogni tappa, le dai il giusto riconoscimento e trovi i coraggio di esserne felice, allora significa che il miracolo della perfezione si è appena manifestato a te, in te e attraverso di te. Per chi ha a cuore la Bibbia,  siamo tutti figli di Dio, creati a Sua immagine e somiglianza; perfetti non perché privi di difetti bensì per merito di quelle caratteristiche che ci rendono unici. Tendere alla perfezione significa ricordarci che siamo nati per essere creature meravigliose, per splendere della nostra vera natura; che possiamo diventare qualsiasi cosa se solo troviamo il coraggio di immaginare che dentro di noi abbiamo il potenziale necessario per esserlo. Il coraggio è fondamentale. Anche quello per capire che il tempo non è un ostacolo perché non esiste e che il passato e il futuro sono fusi in ciò che comunemente chiamiamo “presente” (che potremmo benissimo intendere come “eternità”). D’altronde, quando ricordiamo il passato siamo nel presente e lo stesso accade quando immaginiamo il futuro. Un gioco molto stimolante che vi consiglio col cuore consiste nello stravolgere a tal punto l’idea di tempo da concepire la possibilità di ricordare il futuro e immaginare il passato… Quel “convincersi di essere già arrivati”, dunque, acquista tutta un’altra valenza, non trovate? O, almeno, a me piace pensare che sia così. Difatti:

 “[…] li esortava a non smettere mai di imparare, di esercitarsi, di sforzarsi di capire sempre più a fondo il perfetto principio invisibile di tutta la vita”. [Pag. 71]

“Tutto il vostro corpo […] non è altro che il vostro pensiero stesso in forma visibile. Spezzate le catene del pensiero e spezzerete anche le catene del corpo…” [Pag. 87]

 “[…] il suo modo di dimostrare amore era donare parte della verità che aveva capito a un gabbiano che cercasse solo il modo di vederla”. [Pag. 72]

Ecco che tutto torna: è possibile crescere da soli, ma senza l’aiuto degli altri non si supereranno mai certi limiti. Siamo allievi e maestri per tutta la vita; non si può imparare senza insegnare e non si può insegnare senza imparare (e senza aver imparato). Il primo passo consiste nel capire chi si è veramente e cominciare a farne pratica, stando a quanto scritto a pagina 94. Poi:

“Tu devi solo continuare a scoprire te stesso ogni giorno di più a scoprire il vero Gabbiano Fletcher, quello privo di limiti. È lui che devi scoprire, è lui che devi esercitarti ad essere”. [Pag. 103]


“Non credere a ciò che ti dicono i tuoi occhi. Tutto ciò che vedono è limitato. Guarda con l’intelletto, scopri ciò che già sai, e troverai il modo di volare”.  [Pag. 103]

Essere è ricordare…

Se leggerete questo libro (magnifico, a parere mio), vi accorgerete sicuramente dei numerosissimi riferimenti alla Bibbia e ai Vangeli. Qui di seguito ve ne suggerisco qualcuno:

·        Jonathan Livingstone è velatamente rappresentato come il Messia, chiamato (non a caso) “il Figlio del Grande Gabbiano in Persona” (pag. 94), “mille anni in anticipo sul suo tempo”. In quest’ottica, i suoi compagni di volo/allievi sono gli Apostoli. Partendo da questo presupposto, si  ravvisano molte somiglianze tra il modo in cui fu trattato Gesù e il modo in cui viene trattato Jonathan… Senza contare il messaggio che entrambi hanno tentato di portare su questa terra: “Quello che è venuto a dirci è che siamo in grado di volare” (pag.112), o – meglio – lo saremmo se solo lo volessimo e, anziché limitarci a teorizzare, ci dedicassimo alla pratica.

·        “[…] un gabbiano è un’idea illimitata di libertà, un’immagine del Grande Gabbiano, e tutto il vostro corpo, […], non è altro che il vostro stesso pensiero”.

Cfr: Gen. 1, 26-27

·        Quando Jonathan guarisce il gabbiano che sostiene di non poter volare perché non riesce a muovere l’ala (pagine 92 e 93), ricorda la guarigione del paralitico di Betesda da parte di Gesù.

Cfr: Gv. 5, 1-16

·        Quando, a pagina 101, Jonathan resuscita il Gabbiano Fletcher, sembra di leggere del miracolo della resurrezione di Lazzaro.

Cfr: Gv. 11, 1-46

·        Vedere per credere… [Cfr. pagine 124 e 125 con Gv. 20, 24-29 e Gv. 4, 43-54]

·        “Ma io non chiedo onori. Non desidero essere il capo. Voglio solo condividere ciò che ho scoperto, mostrare gli orizzonti che si aprono davanti a tutti noi”. [Pag. 34] Cfr: Mc. 10, 42-45

·        A pagina 118 c’è una replica perfetta del comportamento dei fedeli in Chiesa, ad ascoltare sermoni e prediche su un uomo che non ha mai voluto (esattamente come il Gabbiano J.L.) essere venerato! Il problema è che la Chiesa ha innalzato Gesù a livelli tali che se l’uomo provasse a seguire il suo esempio sarebbe considerato blasfemo o eretico. La Chiesa in quanto Istituzione religiosa gradisce e predilige maggiormente umani imperfetti e peccatori penitenti rispetto a individui consapevoli del fatto che - in quanto figli di Dio, fatti a Sua immagine e somiglianza – si può aspirare alla perfezione anche in terra. Abbiamo creato degli “alibi terminologici” per sperimentare la libertà: dicendo che cerchiamo di “scoprire ciò che è vero” ci permettiamo di nascosto qualcosa che avremmo tutto il diritto di attuare alla luce del sole. È facile e comodo parlare di bontà, amore, gentilezza, fratellanza e solidarietà, ma praticare questi valori è tutta un’altra faccenda. È facile e comodo attribuire la bellezza dei miracoli e la responsabilità della loro realizzazione a Dio o a Suo Figlio; tutt’altra cosa è impegnarsi a diventare miracoli o, ancor meglio, a essere miracoli viventi. La Fede è diventata uno sforzo; sono subentrate le superstizioni (pag.119); Gesù è diventato un Mito, una Leggenda, una favola da raccontare anziché da sperimentare nella pratica. Tutti i gabbiani possono fare ciò che fa J.L. e Giovanni, nel capitolo 14 del suo Vangelo (vv 11 e 12), parlava negli stessi termini.

·        “Tu devi solo continuare a scoprire te stesso ogni giorno di più a scoprire il vero Gabbiano Fletcher, quello privo di limiti. È lui che devi scoprire è lui che devi esercitarti ad essere”. [Pag. 103]

Cfr: Gv. 14, 1-14  Vado a prepararvi un posto…

“Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio  abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: «Vado a prepararvi un posto»? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado conoscete la via. Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?» Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto”.

Sei stato, sei e sarai molte cose. Dentro di te convivono tanti “io”; le strade che ti si parano davanti sono numerose. Seguire il proprio “vero io” non è cosa facile né semplice… “Io sono la via, la verità e la vita” è un po’ come dire che l’Io è la Via che devi percorrere (seguendoTi) per arrivare alla Verità che sei e che alberga in Te. Il fondamento della Vita risiede proprio in questa scoperta di sé. Segui il tuo istinto e le tue intuizioni e non sbaglierai (come Vassilissa seguiva la propria bambola e non sbagliava mai).

Mc. 10, 17-22   Lascia tutto e seguiti…

“Gesù gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni”.

Ma qual è il bene più prezioso che possiedi? Te stesso, esatto. E i beni materiali, per quanto numerosi o preziosi possano essere, non saranno mai minimamente paragonabili a te. L’avarizia (soprattutto quella nei confronti di se stessi) è un vizio terribile!

Segui il tuo Io…

Franco Battiato, nella canzone  composta insieme a Manlio Sgalambro e intitolata “Il mantello e la spiga”, cantava: “Lasci un’orma attraverso cui tu stesso ti segui nel tempo e ti riconosci”. “Lascia tutto e seguiti”.

Ma abbiamo già visto che il tempo e lo spazio sono concetti relativi, per cui decidere di abbandonare le zavorre e iniziare a seguire se stessi è già essere se stessi. Immersi come siamo nell’eternità, ogni cosa scritta nel futuro è già avvenuta, potrebbe già essere avvenuta o – magari - sta accadendo proprio adesso... È complicato, lo so, ma è fondamentale allargare l’orizzonte spaziale tanto da contemplare l’infinito e allargare l’orizzonte temporale tanto da contemplare la già citata eternità. Solo così avverranno i miracoli…

Bellissima, a questo proposito, la citazione  di pagina 74:

“Se la nostra amicizia dipendesse da cose come lo spazio e il tempo, quando finalmente supereremo lo spazio e il tempo avremo distrutto la nostra fratellanza! Superiamo lo spazio, e tutto quello che ci resta  è il Qui. Superiamo il tempo, e tutto ciò che ci resta è l’Ora. E nel bel mezzo del Qui e dell’Ora non credi che potremmo vederci qualche volta?”

Ci sarebbero ancora tantissime cose da dire su questo testo, riferimenti da fare, concetti da approfondire, ma per adesso è meglio fermarsi qui. Per chiudere, vi consiglio caldamente la nuova edizione della Bur (Rizzoli), quella col capitolo inedito e le magnifiche immagini di gabbiani disseminate tra le pagine. E che dire, poi, della splendida nota finale, a cura dello stesso autore, sul dono dell’immaginazione e sul potere dello scrittore, ovvero le parole.

Volate, amici e amiche! Siate liber* di essere voi stess*!

 

 



sabato 19 settembre 2020

LA BELLEZZA

 


Mentre lavoravo al mio ultimo saggio (“NUOVI MONDI”, qui sul blog), mi sono resa conto che sulla bellezza c’erano tantissime cose da dire, troppe, e – proprio per questo – ho deciso di scrivere un articolo a parte, così ecco qua un’appendice del suddetto tema. Buona lettura!

SULLA BELLEZZA PERFETTA

“Devo assolutamente rivederla; voglio vederla, e non per amarla, no, guardarla, guardarla tutta, guardare i suoi occhi, le su mani, le sue dite, i suoi splendenti capelli. Non già baciarla, vorrei soltanto contemplarla. E che? Così dev’essere, così è scritto nelle leggi della natura; ella non ha il diritto di tener nascosta e d’involarci la sua bellezza. La bellezza perfetta è concessa al mondo al solo scopo che ciascuno possa vederla e ne conservi nel proprio cuore eternamente l’idea. Se ella fosse soltanto bella, e non una tale sublime perfezione, avrebbe allora diritto d’appartenere ad un solo, e quegli potrebbe trarsela nel deserto, nasconderla agli occhi del mondo. Ma la bellezza perfetta deve invece restare a tutti visibile. Forseché il buon architetto edifica un tempio fastoso in un’angusta viuzza? Per contro egli lo leva su un’aperta piazza perché d’ogni parte ciascuno possa vederlo e ammirarlo. Forseché s’accende una lampada, ha detto il Divino Maestro, per nasconderla e metterla sotto la tavola? No, la lampada s’accende perché stia sulla tavola, perché tutti possano vederci e muoversi alla sua luce. No, devo assolutamente rivederla!”[1]

La bellezza, non una bellezza qualunque, ma la bellezza perfetta crea dipendenza e inviterei chiunque intendesse – giustamente – obiettare che la perfezione non esiste a sostituire la parola “perfetta” con la parola “divina”. Questo non significa affermare che le due parole si equivalgano, bensì che non esistono perfezione e imperfezione ma caratteristiche umane e qualità divine, perciò innanzitutto c’è da operare una distinzione tra la bellezza come qualità terrena e la bellezza come qualità divina. Per cominciare dirò che la prima non è altro che una reminiscenza della seconda. La reminiscenza è il raggiungimento di un’idea, ovvero l’unità ottenuta con il ragionamento fatto a partire dalla molteplicità delle sensazioni provate in determinate circostanze. È il ricordare o – meglio – il desiderare, cioè l’aspirare a rivedere “ciò che la nostra anima vide una volta, quando era al seguito di un dio e, guardando dall’alto gli enti a cui noi sulla terra attribuiamo l’esistenza, si ergeva verso ciò che esiste veramente. […] L’uomo che impiega correttamente tali reminiscenze, sempre iniziato a perfette iniziazioni, è il solo che diventa veramente perfetto. Ma poiché si estrania dalle preoccupazioni umane e si accosta al divino, i più lo rimproverano di essere fuori di sé, non accorgendosi che invece è ispirato da un dio. […] qualcuno, vedendo la bellezza di quaggiù e ricordandosi di quella vera, mette le ali e così alato arde dal desiderio di levarsi in volo, ma non riuscendovi, guarda verso l’alto come un uccello senza curarsi di quanto avviene quaggiù, e guadagnandosi in tal modo l’accusa di essere pazzo. Ebbene, […] fra tutte le forme di entusiasmo, questa è la migliore e ha le migliori origini, sia per colui che  ne è preda, sia per colui al quale si comunica; […] chi ama i belli, […] viene chiamato innamorato. […] ogni anima umana, per sua natura, ha contemplato i veri esseri, altrimenti non avrebbe assunto questa forma. Ma ricordarsi di quegli esseri partendo dalla realtà terrena non è facile per nessuna delle anime, né per quante allora videro brevemente ciò che stava lassù, né per quante, cadute qui, furono così sfortunate da farsi indurre all’ingiustizia da qualche cattiva compagnia e da dimenticarsi in tal modo delle sacre visioni contemplate un tempo. Restano dunque poche anime che ne conservino un sufficiente ricordo; queste, secondo scorgono qualcosa che assomiglia a ciò che stava lassù, ne restano colpite e non sono più padrone di se stesse. Ma non capiscono ciò che provano, perché non ne hanno una chiara percezione.

Ora, della giustizia, della temperanza e di tutte  le altre virtù che sono preziose per le anime non c’è nessuna luce nelle rassomiglianze terrene, ma in pochi e a stento, avvicinandosi alle immagini di quelle virtù mediante organi imperfetti, riescono a contemplare il genere di ciò che vi è stato rappresentato. La bellezza invece era splendida a vedersi a quel tempo, quando un coro felice (noi seguendo Zeus, altri seguendo chi un dio chi un altro dio), si contemplava il beato spettacolo che essa offriva alla vista e si era iniziati a quella che è lecito chiamare la più beata delle iniziazioni, che noi celebravamo in condizione di assoluta perfezione e immuni da tutti quei mali che ci attendevano successivamente. Perfette, semplici, immutabili e beate erano le visioni a cui eravamo iniziati e che contemplavamo in una luce pura, anche noi puri e senza questo sepolcro che ora portiamo in giro chiamandolo corpo, legati ad esso come ostriche.

Di tutto ciò bisogna dunque ringraziare la memoria, a causa della quale, per rimpianto delle visioni di quei tempi, ci siamo ora dilungati eccessivamente. La bellezza, come dicevamo, risplendeva fra di esse e noi, una volta giunti qui, l’abbiamo colta per mezzo del più chiaro dei nostri sensi poiché essa risplende con la massima chiarezza. La vista infatti, è il più acuto dei sensi che giungono a noi attraverso il corpo, ma non ci consente di vedere la sapienza: essa infatti susciterebbe incredibili amori se offrisse un’immagine altrettanto chiara di sé presentandosi alla vista, e lo stesso vale per tutte le altre realtà degne d’amore. Invece solo la bellezza ha avuto questa sorte, di essere evidentissima e amabilissima.

[…] chi è stato iniziato recentemente e chi ha a lungo contemplato le visioni passate, quando vede un volto di aspetto divino, che imita bene la bellezza, o un corpo, per prima cosa ha un fremito e qualcuno dei timori passati si insinua in lui. Quindi, lo guarda e lo onora come un dio e, se non temesse di apparire completamente folle, offrirebbe sacrifici all’amato come a una statua sacra o a un dio. Poi, come è naturale che avvenga dopo il fremito, alla vista di quello, un cambiamento, un sudore e un calore insolito si impadroniscono di lui. Egli infatti, avendo ricevuto l’effluvio della bellezza attraverso gli occhi , si riscalda e così l’ala viene irrorata. Per effetto di questo calore, si sciolgono le parti circostanti al germoglio che, indurite e chiuse da tempo, gli impedivano di crescere. Una volta che l’alimento ha preso ad affluire, la nervatura dell’ala si inturgidisce e comincia a spuntare dalla radice, sotto tutta la superficie dell’anima, che infatti un tempo era tutta alata”.[2]

In questo consiste l’innamoramento o – quantomeno – una parte di esso. L’innamoramento, infatti, è una passione necessaria alla nostra crescita spirituale e passa proprio attraverso la contemplazione della bellezza. Questa passione è, pertanto, un tormento ma anche il balsamo per lenirlo.

“Questa passione, […] gli uomini la chiamano eros, ma quando sentirai come la chiamano gli dei, probabilmente riderai a causa della stranezza del suo nome. […]

 «I mortali lo chiamano Eros alato,

gli immortali invece Pteros, perché costringe a mettere le ali»”[3]

La bellezza, dunque, fa mettere le ali e anelare ad essa, perciò anelare ad essa significa provare un forte sentimento di nostalgia nei confronti di un tempo in cui avevamo le ali e stavamo con gli dei. Il ricordo è il desiderio e il desiderio è ricordo e non può esserci ascesa/crescita senza questa magnifica – e, allo stesso tempo, tormentosa – sensazione che è appunto il desiderio. La bellezza, però, non è l’unica qualità divina di cui l’anima ha nostalgia. Nel “Fedro”, infatti, si parla di altre virtù che, molto probabilmente, vi suoneranno familiari in quanto sono le stesse presenti nell’Albero della Vita.

“Le anime chiamate immortali, una volta giunte sulla sommità e uscite all’esterno, si fermano ritte sulla volta del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù né canterà mai degnamente la regione sovraceleste. È così, perché bisogna avere il coraggio di dire la verità, specialmente quando si parla di verità. Infatti, la realtà vera, che non ha colore né forma e non si può toccare, che può essere contemplata. Soltanto dal nocchiero dell’anima, cioè l’intelletto, e su cui verte la vera scienza, occupa questa regione. Dunque la mente divina, dal momento che, come quella di ogni anima che stia per accogliere ciò che le conviene, si nutre di intelligenza e di scienza pura, gioisce quando dopo un certo tempo vede l’essere, e trae nutrimento e beneficio dalla contemplazione della verità, fino a che il movimento circolare non l’abbia riportata al punto di partenza. Durante la rotazione essa contempla la giustizia in sé contempla la saggezza, contempla la scienza, ma non quella soggetta al divenire e neppure quella che muta a seconda che si occupi dell’uno o dell’altro dei cosiddetti esseri, bensì quella che è la vera scienza del vero essere. E allo stesso modo dopo aver contemplato gli altri veri esseri fino a saziarsene, si tuffa di nuovo nel cielo e ritorna alla sua dimora. Una volta che essa vi abbia fatto ritorno, l’auriga, posti i cavalli davanti alla mangiatoia, getta loro l’ambrosia e, dopo questa, dà loro da bere il nettare. Questa è la vita degli dèi.

Quanto alle altre anime, quella che segue il dio nel modo migliore e gli rassomiglia, fa alzare la testa dell’auriga verso la regione che si trova all’esterno del cielo e viene trasportata nel moto circolare, ma essendo disturbata dai cavalli riesce a stento a contemplare i veri esseri. Un’altra anima invece, ora si solleva ora si immerge e, sopraffatta dai cavalli, vede alcuni esseri, ma non ne vede altri. Fanno seguito le altre anime, tutte desiderose di innalzarsi, ma incapaci di farlo: calpestandosi e colpendosi a vicenda, ciascuna nel tentativo di precedere le altre, esse vengono sommerse e travolte. Ne derivano tumulto, lotta, estremo sudore ed è proprio in queste circostanze che, per l’incapacità degli aurighi, molte anime si azzoppano, molte si spezzano le ali; tutte poi, molto affaticate, se ne vanno senza essere state iniziate alla visione dell’essere e, una volta che si sono allontanate, si pascono di opinioni. La ragione per cui esse si sforzano tanto per vedere dove si trova la pianura della verità, è che il pascolo che si addice alla parte migliore dell’anima proviene dal prato che è situato là, e che l’ala, grazie alla quale l’anima può sollevarsi, si nutre di esso”.[4]

Tutto questo accade in quanto l’anima è – secondo quanto descritto nel “Fedro” – “simile alla potenza congiunta di una biga alata e di un auriga”.[5] I due cavalli che trainano la biga sono l’uno l’opposto dell’altro e tendono – come è logico supporre – in direzioni diverse. L’uno è più mansueto e ha propositi buoni mentre l’altro ha la tendenza a seguire istinti e impulsi sfrenati. L’auriga è l’equivalente della ragione della razionalità. E, a questo proposito, una domanda: CHE COS’HANNO IN COMUNE PLATONE, IL KATHA UPANISHAD E SIGMUND FREUD?

Risposta: LA STRUTTURA (TRIPARTITA) DELL’ANIMA/PSICHE E LA METAFORA USATA PER DESCRIVERLA.

Per Platone l’Anima/Psiche è una biga con un cavallo bianco (la parte più arrendevole e condiscendente), un cavallo nero (più impulsivo e irascibile) e un auriga, ovvero la ragione. Per il Katha Upanishad (una delle Sacre Scritture dell’Induismo, originarie del periodo compreso all’incirca tra l’800 e il 300 a. C.) c’è un carro (il corpo) il cui padrone è il Sé; l’Intelletto è l’auriga, le redini sono la Mente, i cavalli sono i Sensi, mentre gli Oggetti dei Sensi sono l’arena. In questo Testo Sacro i saggi chiamano “colui che prova piacere” l’insieme di Sé, di Sensi e di Mente. Per Freud l’Io non fa che rassomigliare incredibilmente all’auriga conducente il cocchio e rappresentante la razionalità umana; il cavallo nero, ovvero le pulsioni sfrenate, sono l’Es; il cavallo bianco – invece – più mansueto e fedele a educazione e disciplina, è il Super-Io. Se vogliamo, possiamo applicare questa metafora anche alla Psicologia contemporanea, in cui l’Io sarebbe l’auriga, il cocchio rappresenterebbe il Sé, il cavallo nero il Super-Io, il bianco l’Es e un terzo cavallo sarebbe la realtà esterna.

Comunque la si veda, l’obiettivo consiste nell’arrivare a riconoscere tutte le parti dell’Io (ovvero tutte le componenti della Personalità di ognuno di noi) per integrarle in maniera equilibrata e armoniosa in quello stesso Io.[6] In tutto ciò, però, non possiamo trascurare il corpo, ovvero la “meccanica” della Psiche, “specchio” fondamentale per rendere visibile ciò che non lo è… Mi piace pensare che il corpo sia l’equivalente dell’hardware per la Psiche che, seguendo questo ragionamento, sarebbe l’equivalente del software. Imprescindibili entrambi.

Ma torniamo alla bellezza.

Avrete sicuramente notato che ho sottolineato alcune parole all’interno dei testi citati; bene, di cosa significhino “reminiscenza” e “desiderio” vi ho già parlato (nel mio saggio intitolato “NUOVI MONDI” troverete più ampi approfondimenti, in merito), perciò passerei alla parola “iniziazione”. Nella parola stessa è contenuto il suo significato e le sue più accreditate interpretazioni. “Iniziazione” contiene, infatti, la parola “inizio”, ma “inizio” può voler dire sia “tornare all’inizio” (di qualcosa che si presuppone sia già accaduto) sia “dare il via” a un’esperienza nuova, sia entrare a far parte di un ambiente esclusivo e speciale. In questo caso, direi che si tratta di unire le tre interpretazioni. Avere la possibilità di contemplare la bellezza e lasciarsene trasportare significa seguire un impulso erotico molto potente in grado di condurre a un più alto livello di coscienza: la Pianura della Verità. Per coloro che guardassero la scena dall’esterno sembrerebbe che chi è stato rapito dall’eros sia fuori di sé, ma questa espressione – “fuori di sé” – non vuol dire essere pazzi, bensì “fuori” dalla propria condizione umana, limitata e limitante. Il corpo, cartina al tornasole di ciò che proviamo, è essenziale – come ho già detto poco fa – ma è comunque importante ricordare che esso è soltanto un mezzo per ricondurci a quello stato di estasi dovuta al fatto di aver potuto “luogo” da cui veniamo. La “vera” bellezza, infatti, è la qualità che avevamo quando non eravamo ancora nati, non ci eravamo ancora incarnati (non avevamo ancora assunto sembianze umane) ed eravamo anime pure. Se preferite un approccio più psicologico potete vederla così: la bellezza è in grado di con una parte di noi più “raffinata”, una parte della Psiche che raramente decidiamo di esplorare. È come staccarsi da un sé un po’ tonto, magari anche un tantino ottuso, e vedere al di là di esso. È una sensazione vertiginosa, certo, e anche Bastiano (il protagonista de “La Storia Infinita” di Michael Ende, libro di cui ho parlato diffusamente in questi anni) la prova nel vedere il riflesso del vero se stesso negli occhi dell’Infanta Imperatrice:

“E ora, nello specchio d’oro delle sue pupille, dapprima ancora piccina, come a una grande lontananza, poi via via più vicina, vide una figura che ingrandiva e si avvicinava, facendosi sempre più chiara. Era un ragazzo, press’ a poco della sua stessa età, ma snello e di straordinaria bellezza. […]

Incantato e pieno di ammirazione, Bastiano fissava l’immagine. Non poteva saziarsi di guardarla. Voleva giusto chiedere chi fosse quel bellissimo figlio di re quando, come il bagliore di un lampo, lo trapassò la consapevolezza di essere lui.

Quella era la sua immagine riflessa negli occhi d’oro di Fiordiluna.

Ciò che avvenne in quel momento in lui è assai difficile da descrivere a parole. Fu un rapimento, un’estasi che lo trasportò fuori da se stesso, portandolo lontano, come se avesse perso conoscenza, e quando ebbe fine ed egli fu tornato in sé si ritrovò esattamente quel bellissimo fanciullo di cui aveva visto l’immagine”.[7]

Non credo che l’espressione “si ritrovò” sia casuale, come non credo che lo fosse usata da Dante Alighieri ne “La Divina Commedia”. “Ritrovarsi” indica non soltanto lo “stare”, ma anche e soprattutto che avevamo perso la parte più importante di noi, il nostro vero Io, e lo abbiamo ritrovato! E l’aspetto fisico, in questo caso, conta fino a un certo punto, perché ciò che conta maggiormente è l’aspetto interiore, la cosiddetta “bellezza interiore”. È un vero peccato che certe qualità/virtù siano invisibili agli occhi: la Sapienza, ad esempio, non può essere vista con gli occhi, così come non possono essere visti il senso di Giustizia o l’Intelligenza, ma contemplando cose divine o di divina bellezza possiamo in esse rispecchiarci e, di conseguenza, ritrovarci.

Per rimanere in tema, vorrei ricordare che il vocabolario associa il concetto di bellezza a quello di bontà, ed è presto spiegato il perché: il fatto che un corpo sia bello non implica necessariamente che lo sia anche il suo proprietario – inteso come “persona” nella sua interezza – ma è pur vero che definiamo “bella” una persona quando  è anche buona (gentile, generosa, onesta, ecc.). In questo si differenziano la bellezza umana e quella divina o, se preferite un approccio più laico, la bellezza fisica e quella psichica.

C’è un concetto molto interessante nel Libro X delle “Metamorfosi” di Ovidio, il quale – parlando di Adone – afferma: “[…] or ora era un bellissimo fanciullo, ecco è già un giovane, già un uomo, già supera se stesso in bellezza […]”.[8] Come si può superare se stessi in bellezza? Crescendo, ecco come. E tale crescita consiste principalmente in due correnti di pensiero che si incontrano e si intersecano tra loro. La prima: poiché, come ho detto, la bellezza porta con sé un significato più ampio, al suo crescere potrebbero crescere/svilupparsi anche altre qualità. La seconda: la bellezza non è tutta uguale (e – di certo – non è mai uguale a se stessa); c’è bellezza e bellezza. La bellezza di un fanciullo puro e innocente non è la stessa (e non suscita le stesse sensazioni) di quella di un giovane o di quella di un uomo. In questo senso, la bellezza esteriore assume un valore differente a seconda dell’età (e quindi dello stadio di crescita) dell’individuo in questione. Inoltre, come dicevo, la bellezza può far provare tenerezza e, a proposito di “tenera bellezza”:

“Essa nella nostra mente va solo unita all’innocenza e alla purezza”.[9]

Ma può far provare anche ammirazione, gioia, desiderio, estasi, passione, amore o – addirittura – invidia. E, proprio l’invidia, mi porta al punto successivo. “La bellezza” - è scritto – “è un’arma a doppio taglio, un dono e una maledizione al tempo stesso. Grazia e bellezza ti apriranno le porte del cuore di chi ami, ma accenderanno anche d’invidia e rancore quello di coloro che vorranno sottomettere la tua volontà alla loro. Ti attende un lungo sentiero di piaceri, ma forse anche di pericolo e violenza”.[10] Ma l’invidia non è l’unico sentimento che può oltraggiare la bellezza: la gelosia (intesa come timore di vedersi sottrarre la propria o l’altrui bellezza) è un altro. Poi c’è la cattiveria a cui la gelosia e l’invidia possono condurre… È un tipo di cattiveria, questa, dettata dalla rabbia, sentimento (o, meglio, emozione) assai abusato, purtroppo.

 

 

LA BELLEZZA E L’AMORE

Si narra che Pigmalione avesse scolpito una statua con fattezze femminili talmente bella che lui stesso se ne innamorò e pregò la Dea Venere di trasformarla in una  cosicché potessero giacere insieme.

“A lungo rimase senza una compagna che dividesse il suo letto. Ma un giorno, felice e meravigliosa, si mise a scolpire dell’avorio bianco come neve e gli dette forma di donna, così bella, che nessuna può nascere più bella. E concepì amore per la sua opera”.[11]

In realtà qui, più che di amore, si tratta di ossessione. Sì, perché l’amore a volte è anche questo. E innamorarsi fa fare cose che, agli occhi di chi non prova sensazioni tanto forti come quelle causate appunto dall’innamoramento possono apparire sciocche, folli o quantomeno fuori dagli schemi. È il caso di Pigmalione che, ossessionato dal desiderio di possedere la statua, riserva a quest’ultima lo stesso trattamento che si riserva all’oggetto del desiderio carnale. La stessa Venere arriva a modificare il proprio comportamento al crescere di Adone, suo protetto.

“Incantata dalla bellezza di Adone, non le importa più niente delle spiagge di Citèra, non visita più Pafo cinta dal profondo mare, né Cnido pescosa né Amatunte gravida di metalli. Neppure sta più in cielo: al cielo preferisce Adone. Non si stacca da lui, non va che con lui, e lei che è sempre stata avvezza a starsene comodamente all’ombra, a curare la propria bellezza e accrescerla ancora, ora gira per colli, per selve, tra rocce e cespugli spinosi, con la veste tirata su sopra il ginocchio alla maniera di Diana […]”.[12]

Insomma, la bellezza può elevare l’anima oppure farla impazzire. Mi soffermerò ancora un momento su questo punto, perché è importante analizzare in quale modo l’innamoramento – conseguenza della bellezza – può portare ad una crescita. In realtà è molto facile intuirlo: quando ci innamoriamo coltiviamo il desiderio di far colpo sulla persona amata e tendiamo ad ampliare il nostro raggio di interessi, cerchiamo di affinare i nostri talenti e impariamo a vedere il mondo con altri occhi, includendo nel nostro orizzonte anche il punto di vista dell’amato. Raddoppiamo, anzi, moltiplichiamo l’osservazione, l’azione e il prenderci cura in quanto non dobbiamo pensare solo a noi stessi, ma anche a un’altra persona.

Sento continuamente ripetere che la bellezza salverà il mondo ed è evidente che essa ha la potenza  e le potenzialità per farlo, ma ritengo che l’essere umano abbia ancora molto su cui lavorare per far sì che il desiderio prevalga sull’ossessione e la contemplazione abbia la meglio sulla brama di possesso. L’Eros può aiutare molto. Naturalmente parlo dell’Eros come desiderio di conoscenza, come spinta al miglioramento e come propulsione della curiosità con fini di scoperta e meraviglia. Quando vediamo qualcosa di bello, infatti, proviamo spesso una specie di paura e distogliamo lo sguardo: la bellezza può intimorire, è vero:

“Durante la sua Grande Ricerca Atreiu aveva ormai fatto parecchie esperienze, aveva visto cose meravigliose e orribili, ma fino a quel momento non sapeva che entrambe queste cose, la bellezza suprema e l’orrore, potessero raccogliersi in una cosa sola e cioè che la bellezza potesse essere orribile”.[13]

Ma è fondamentale non lasciarsene perturbare, bensì lasciarsi andare alla contemplazione e all’osservazione. Il piacere che ne deriverà sarà grande al punto che ne risulterà – come ovvia conseguenza – un cambiamento interiore imponente: la bellezza – in fondo – fa mettere le ali, ricordate?

I CANONI DELLA BELLEZZA

Nel corso dei secoli i popoli hanno spesso cambiato i loro canoni di bellezza mutando i parametri di valutazione sui quali basarsi. Altrettanto spesso il raggiungimento di tali standard estetici ha implicato sofferenze, dolore fisico e psicologico e frustrazioni profonde. Busti e corsetti talmente stretti da danneggiare gli organi interni e da compromettere la respirazione, interventi chirurgici inutili e persino dannosi che implicavano la rimozione di costole per assottigliare la vita, fasciature dei piedi che causavano deformità permanenti e difficoltà a camminare, cosmetici tossici, iniezioni di botulino, protesi di silicone per portare il seno a taglie discutibili, e chi più ne ha più ne metta. Un tempo le rotondità non erano considerate un problema, ma poi – col passare degli anni – le Barbie e i Ken sono diventati i modelli a cui fin troppi han tentato di assomigliare. Ci son voluti molti anni perché le taglie 38 perdessero il loro “magnetismo estetico” e fossero soppiantate da un ritorno di fiamma per i corpi “curvy”, il mito delle labbra “a canotto” ha spopolato parecchio prima di essere deriso e abbandonato, la moda degli zigomi sporgenti e dei glutei rifatti ha tenuto duro per un bel po’ prima di cominciare a perdere colpi. Avere un corpo tonico e sodo, possibilmente con muscolatura addominale “a tartaruga”, sta – però – resistendo e lo farà fino al prossimo cambio di canoni estetici. Quel che è chiaro è che la bellezza è vittima degli stereotipi e non può prescindere dalle mode. Queste ultime cambiano al cambiare dei canoni estetici, ma è anche vero il contrario, cioè che i canoni stessi mutano al mutare delle mode. Viene da domandarsi se tali canoni siano imposti oppure facoltativi. Per rispondere a questa domanda è necessario procedere per gradi. Innanzitutto bisogna analizzare che cosa rappresenta – oggi – la bellezza, qual è il suo significato e a cosa è collegato il concetto stesso di bellezza. Non c’è dubbio che le parole associate a questa qualità siano “salute”, “giovinezza” e “prestanza”. La pubblicità gioca un ruolo fondamentale nella diffusione di slogan che hanno a che fare con la cura di sé, l’autostima e i diritti, ma la sottotraccia è un’altra, il messaggio subliminale è l’obbligo, anzi, il dovere di non invecchiare, il divieto assoluto di essere diversi, unici, imperfetti o – perfino – perfetti nelle e con le proprie imperfezioni. La pena, nel caso in cui qualcuno decidesse di non sottostare a queste/i imposizioni/divieti, è l’emarginazione, l’esclusione dal gruppo o – addirittura – dalla società stessa. Una forma di limitazione della libertà personale perpetrata attraverso messaggi che solo apparentemente dicono di volere il nostro bene. Non giustifico né condanno e neanche mi lavo le mani di fronte a un tale andamento della Storia. Ciò che, invece, intendo fare è far aprire gli occhi a una terza opzione: seguire i propri sensi. Ognuno di noi, infatti, troverà alcune cose molto belle, altre cose meno. Quel che voglio dire è che bisognerebbe imparare a discernere i gusti personali da quelli dettati dalla società. So che è dura non lasciarsi influenzare, ma proviamo almeno ad ascoltarci un po’ di più e forse, prima o poi, saremo anche in grado di scorgere la bellezza dove non pensavamo dimorasse…

DOVE SI TROVA LA BELLEZZA

Davvero la bellezza sta negli occhi di chi guarda? In linea di massima, sì, ma c’è un “ma”. Se è vero che la bellezza è soggettiva (cioè dipende dal punto di vista e dai gusti dell’osservatore) è vero anche che questo implica l’esistenza di una bellezza oggettiva. Oggettivo e soggettivo sono come assoluto e relativo: ogni cosa al mondo esiste perché esiste il suo contrario e l’oggettivo sembra proprio essere il contrario del soggettivo, così come l’assoluto lo è del relativo. Un esempio: io ho una gran paura dei ragni, ma questo non mi impedisce di riconoscere il fascino che hanno; il loro talento nel costruire tele complesse, la loro agilità di movimento, le loro tecniche di combattimento… Non mi piacciono, è vero, ma ammetto che sono dotati di una sorta di bellezza intrinseca. Ammiro la bellezza che la Vita in sé custodisce, insomma. E m’incanto a osservare una farfalla che svolazza tra i fiori, un’ape che sugge il nettare, un gatto che fa toeletta con la sua lingua ruvida e poi si mette in posa come un fotomodello. Anche grazie a questi tipi di bellezza si può andare in estasi, trasportati da Eros, perciò la cosa migliore che possiamo fare ogni giorno è guardarci attorno con gli occhi di bambini, affamati di stupore e meraviglia, assetati ci conoscenza e dei piaceri a cui essa conduce. La bellezza è ovunque, basta solo avere il coraggio di guardarla negli occhi.



[1] Nikolaj Gogol’, “Racconti di Pietroburgo”, Einaudi, pp. 276-277

[2] Platone, “Fedro”, Fabbri Centauria (traduzione e note di Monica Tondelli, prefazione di Léon Robin, testo greco a fronte), pp. 57-63

[3]Platone,  ibidem, pag. 65

[4]Platone, ibidem, pp. 53-55

[5] Platone, ibidem, pag.49

[6] Rif. Fulvio Frati, “Il lato oscuro della mente. L’io di fronte ai cambiamenti”, la Meridiana.

[7] “Michael Ende, “La Storia Infinita”, Tea, cap. XIII – PERELUN, IL Bosco Notturno, pag. 205

[8] Ovidio, “Metamorfosi”, Fabbri Centauria, (a cura di Piero Bernardini Marzolla, testo latino a fronte), Libro X, pag. 413

[9] Nikolaj Gogol’, “Racconti di Pietroburgo”, Einaudi, pag. 120

[10] “La bellezza di Adone”, Mitologia, RBA, pag. 33

[11] Ovidio, ibidem, pag. 399

[12] Ovidio, ibidem, pag. 413

[13] M. Ende, ibidem, pag. 102