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LA BELLEZZA

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domenica 13 ottobre 2024

La stanza delle mele

 

Matteo Righetto, "La stanza delle mele", Feltrinelli.

Tra i libri più belli che ho letto quest’anno c’è “La stanza delle mele”, di Matteo Righetto. Un libro “d’atmosfera”, un libro autunnale (se proprio lo si vuole associare a una stagione), che spande nell’aria un odore di bosco e di legno, di pietra e di fumo, di mele e di fuliggine, di zuppe bollenti, di caminetto scoppiettante, di minestre calde e di foglie bagnate. Uno di quei libri che ti fanno venir voglia di avvolgerti stretto in una coperta, con una tisana calda tra le mani per difenderti dall’umidità che si insinua sotto la pelle, fin dentro le ossa. Uno di quei libri in cui le lacrime dei sofferenti si confondono tra le gocce di pioggia, i singhiozzi si camuffano tra i tuoni, e i cuori in tumulto battono all’unisono con lo scrosciare della grandine. Un libro in cui i colori mutano al mutare delle stagioni, con lo scorrere del tempo. Un libro pieno di quelle leggende che vengono tramandate di generazione in generazione, sussurrate a denti stretti nella fulminea luce dei lampi durante i temporali. Un libro in cui anche la religione diventa leggenda, con un Diavolo onnipresente e un Dio che sembra essersi dileguato. E poi c’è il giallo, il mistero di un uomo impiccato nel bosco nero, un segreto inquietante che segnerà la vita del Giovanissimo Giacomo Nef (e non solo la sua), un’ombra che si allunga silenziosa ma terrificante, su Daghè e i suoi abitanti, un’ombra che indossa un vecchio scarpone…

 Un libro su Giacomo, che ha un sogno nel cassetto e un incubo nel cuore; Giacomo, che intaglia il legno, che scolpisce creature attorno alle loro anime; Giacomo che cerca di esorcizzare il dolore (sia fisico che mentale) causato da un nonno dispotico e crudele; Giacomo, che ha sia una prigione che un rifugio, nella stanza delle mele; Giacomo, che è costretto a convivere con il fantasma onnipresente della morte. Giacomo e le contrapposte figure femminili che si avvicendano nella sua vita: da quella quasi muta e remissiva della nonna a quella libera, selvaggia e quasi magica, dal fascino “primitivo”, della “strega” del paese.

Un libro tra leggenda e realtà, tra ombre e visioni, tra magia e mistero.

 

lunedì 30 settembre 2024

LA COSCIENZA DELLE PIANTE

Nikolai Prestia, "La coscienza delle piante", Marsilio.

 

Questo libro è tante cose, ma è soprattutto un percorso che ogni lettore fa mentre il protagonista – Marco – compie il proprio. È un percorso a tappe e a temi, e di temi ce ne sono tanti, e sono tutti molto scottanti. La meta è la guarigione; quella guarigione che deriva dalla consapevolezza, consapevolezza che si raggiunge scavandosi dentro, andando oltre vergogna e la paura, oltre il disprezzo di se stessi e oltre il giudizio degli altri.

Questo libro è un’indagine sul rapporto tra genitori e figli, tra compaesani, tra laureati e non laureati, tra ciò che sembra volere la società da noi e ciò che, invece, noi vogliamo. Coloro che ci circondano, infatti, sembrano sempre aspettarsi qualcosa da noi, e su di noi riversano il peso di ciò che non hanno potuto realizzare loro.

In questo libro la parola chiave è “colpa”. Sia come senso, sia come dolo. Marco è una specie di portavoce di tutti coloro che si sentono sbagliati, in difetto, incompiuti, inadeguati, perdenti, falliti, sbagliati, vuoti. Marco si sente spettatore della propria vita e prova il terribile contrasto tra l’aver paura di morire e il sentirsi incapace di vivere. Marco avrebbe solo bisogno di trovare la propria strada, invece avverte su di sé quella intollerabile pressione che oggi tanti, troppi giovani sentono sulle loro spalle. Marco ha bisogno di distinguere il volere degli altri dal proprio; ha bisogno di sapere se la strada che sceglierà sarà dipesa da lui o dalla famiglia o – peggio ancora – dalla società. Perché la società ci impone di diventare un pezzo di carta, ci costringe a identificarci con un titolo di studio. In questo modo, una laurea può rappresentare due cose: un mezzo propedeutico al coronamento di un sogno oppure l’identità di chi l’ha acquisita. Se ne deduce che chi possiede un titolo di studio “superiore” è esso stesso superiore a coloro che un “pezzo di carta” non ce l’hanno. Per la società, un individuo viene catalogato come un elemento di serie A oppure uno di serie B, ed è considerato come qualcuno che si è realizzato oppure un fallito. Come se il fallimento fosse una cosa di cui vergognarsi…

“Inconsapevolmente, feci mia l’idea che fallire era una cosa da falliti, che rallentare era una cosa da perdenti”.

Di chi è la colpa se una persona non sta bene o non riesce a raggiungere gli obiettivi richiesti o non ci riesce nei tempi prestabiliti da una consuetudine firmata da altri? Dei genitori, degli amici, della società o di Dio? Sembrano domande lecite, legittime, ma per me non è così. Io opterei per:

- perché devo sentirmi in colpa per qualcosa che sono (o che non sono)?

- perché dobbiamo sempre attribuire le colpe (che molto spesso non sono realmente delle colpe) a qualcuno? Vale a dire: perché abbiamo bisogno di un capro espiatorio?

In questo mondo bisogna sempre eccellere, primeggiare, distinguersi, essere perfetti o – almeno – mostrarsi tali. Non si può tentennare, non si può dubitare, cambiare idea, opinione, strada. Invece è indispensabile – ce lo insegnano Marco e suo nonno – imparare a cadere. La caduta dovrebbe essere una materia di studio fondamentale nella vita, qualcuno dovrebbe insegnarci a fallire…

“[…] prima per essere invincibili bisogna fallire. […] fallire è necessario, e a volte è pure giusto”.

“Fallire è normale, così come morire. E la normalità forse se la stanno dimenticando tutti… […] La normalità, forse, spaventa tutti”.

Normalizzare il fallimento significa accorgersi che nessuno è perfetto eppure ognuno lo è, perché ognuno ha i propri tempi, vede e sente le cose a modo proprio, vive a modo proprio ed è diverso da tutti gli altri, anche da chi sembra stia vivendo un’esperienza simile alla sua. Normalizzare il fallimento significa comprendere l’altro, stargli vicino senza giudicarlo, senza appesantirlo con la nostra storia, con le nostre esigenze o col nostro modo di percepire le situazioni, la vita. In alcuni casi riusciremo a salvare qualcuno in difficoltà, altre volte potremmo non riuscirci, ma è importante non addossarsi le colpe del destino altrui: ognuno compie le proprie scelte secondo ciò che ritiene più opportuno.

“Mi torna in mente una frase che era solita dirmi quando da bambino mi rimboccava le coperte. «Se sarai distanza, io diverrò il tempo, per colmarti, per raggiungerti.» Io le domandavo: «Che significa, mamma?» E mentre mi passava la mano sui capelli, sorridendo rispondeva: «Che ti sarò sempre vicino.»”

Questo libro è un esempio calzante del potere distruttivo delle menzogne; delle bugie raccontate agli altri e di quelle – ben peggiori – che raccontiamo a noi stessi. La menzogna, inizialmente, crea due personalità all’interno di un Io e – di conseguenza – due mondi: uno reale e uno costruito, fittizio. A furia di mentire, si finisce col credere alle proprie bugie: la menzogna, a quel punto, diventerà l’unica verità, e fare i conti col mondo reale diventerà complicato ed estremamente doloroso. Chiedere aiuto sarà impensabile, inconcepibile, perché costringerebbe chi è in difficoltà ad ammettere di aver mentito. Per quale ragione questa società ci inculca la convinzione che il fatto di essere umani – e pertanto fallibili - non sia dignitoso? Perché siamo costretti a mantenere una facciata, un’apparenza di pulizia e perfezione, di ordine e bellezza, quando dietro (o dentro) il caos, l’orrore e il dolore ci divorano?

“[…] mi ingannavo prendendo tempo, ma in realtà era lui che prendeva me”.

Mi fa male pensare che un individuo arrivi a vedere la vita come una gabbia, una prigione, e la morte come unica via d’uscita, come una forma di liberazione. Non dovrebbe esistere questa dicotomia tra vivere e sopravvivere, tra supportarsi e sopportarsi. Un uomo non dovrebbe essere l’incubo di se stesso! Ed è terribile non riconoscere il proprio Io nell’immagine che vediamo allo specchio: per quale ragione ci vuole coraggio per essere autentici? Perché non può essere una cosa naturale e spontanea? Perché ci fa tanta paura il cambiamento?

E, a proposito di cambiamento, tra le cose che appartengono a questo libro c’è anche l’elaborazione del lutto, anzi, di due tipi di lutto: il lutto per la morte dei nostri cari, ma anche quello per la morte di una parte di noi. Perdere qualcuno che amiamo è talmente straziante che non sempre riusciamo a “metabolizzare” la perdita. Affrontare una mancanza è difficile e complicato, più ancora che affrontare una presenza: con una presenza è più facile fare i conti perché la vedi, la senti, le parli; mentre ciò che non c’è più tende a permeare le nostre vite, a soffocarle, senza darci la possibilità di afferrarlo, confrontarci con esso per poi, finalmente, lasciarlo andare.

È possibile sanare un debito con qualcuno che non è più con noi?

 

“La coscienza delle piante” è un libro doloroso e bellissimo, uno dei più belli tra quelli che ho letto quest’anno, e avrei potuto dire molto di più, ma credo che le pagine di Nikolai Prestia siano così dense che sviscerare ogni cosa, ogni particolare, avrebbe solo appesantito il mio articolo. Spero comunque, nella mia brevità, di avergli reso giustizia.

 

mercoledì 27 marzo 2024

Han Kang, L'ORA DI GRECO

 

Han Kang, "L'ora di greco", Adelphi.

“E alla fine, un inverno, era arrivata QUELLA COSA. Aveva appena compiuto sedici anni quando, di colpo, il linguaggio che l’aveva imprigionata e torturata come un vestito intessuto di migliaia di spilli era sparito. Il suo udito funzionava ancora, ma un silenzio simile a uno strato spesso e compatto di aria le aveva ostruito lo spazio tra la chiocciola dell’orecchio e il cervello. Avviluppato in quel vuoto sordo, il ricordo di come usare le labbra e la lingua per pronunciare le parole, o la mano per stringere una matita, si era fatto inaccessibile. Non  pensava più in parole, comprendeva senza parole. Il suo corpo era assediato dentro e fuori da un silenzio che risucchiava lo scorrere del tempo, un silenzio ovattato come prima di imparare a parlare – anzi, come prima di venire al mondo”.

Un libro in cui le parole trovano compiutezza nel silenzio.

Un libro frammentario basato sul tentativo di fondere elementi opposti come il mutismo e la cecità.

Un libro in cui lo straniamento e l’incomunicabilità cercano un punto di contatto. Lo troveranno?

Assurdi indimostrabili che collidono.

Immagini sfocate e spezzettate come i sogni quando si tenta di ricordarli, al mattino.

Un libro in cui ciò che non si vede e ciò che non si sente diventano più importanti di ciò che si vede e si sente.

Un libro in cui il silenzio prende corpo, un corpo pesante, una massa opprimente.

Un libro in cui la cecità diventa il silenzio degli occhi poiché il silenzio immediato e fulmineo di lei e la cecità lenta e progressiva di lui sono opposti e/ma complementari. O – forse – sono la stessa cosa. Il risultato, comunque sia, è l’incontro di due solitudini e il loro tentativo di comunicare attraverso un nuovo (o forse antico?) comune linguaggio che non vede e non parla, ma è in grado di “sentire”, di percepire.

Il suono e il silenzio, il giorno e la notte, il sonno e la veglia, la luce e il buio tornano a essere un unico elemento senza tempo, un elemento che precede la Creazione, una dimensione sospesa tra un tic e un tac…

“Non uscirò dal sogno aprendo gli occhi,

sarà il mondo a spegnersi al mio risveglio”.

 

Han Kang, “L’ora di greco”, Adelphi.