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Nikolai Prestia, "La coscienza delle piante", Marsilio.
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Questo libro è tante
cose, ma è soprattutto un percorso che ogni lettore fa mentre il protagonista –
Marco – compie il proprio. È un percorso a tappe e a temi, e di temi ce ne sono
tanti, e sono tutti molto scottanti. La meta è la guarigione; quella guarigione
che deriva dalla consapevolezza, consapevolezza che si raggiunge scavandosi
dentro, andando oltre vergogna e la paura, oltre il disprezzo di se stessi e
oltre il giudizio degli altri.
Questo libro è un’indagine
sul rapporto tra genitori e figli, tra compaesani, tra laureati e non laureati,
tra ciò che sembra volere la società da noi e ciò che, invece, noi vogliamo.
Coloro che ci circondano, infatti, sembrano sempre aspettarsi qualcosa da noi,
e su di noi riversano il peso di ciò che non hanno potuto realizzare loro.
In questo libro la parola
chiave è “colpa”. Sia come senso, sia come dolo. Marco è una specie di
portavoce di tutti coloro che si sentono sbagliati, in difetto, incompiuti,
inadeguati, perdenti, falliti, sbagliati, vuoti. Marco si sente spettatore
della propria vita e prova il terribile contrasto tra l’aver paura di morire e
il sentirsi incapace di vivere. Marco avrebbe solo bisogno di trovare la
propria strada, invece avverte su di sé quella intollerabile pressione che oggi
tanti, troppi giovani sentono sulle loro spalle. Marco ha bisogno di distinguere
il volere degli altri dal proprio; ha bisogno di sapere se la strada che
sceglierà sarà dipesa da lui o dalla famiglia o – peggio ancora – dalla società.
Perché la società ci impone di diventare un pezzo di carta, ci costringe a
identificarci con un titolo di studio. In questo modo, una laurea può
rappresentare due cose: un mezzo propedeutico al coronamento di un sogno oppure
l’identità di chi l’ha acquisita. Se ne deduce che chi possiede un titolo di
studio “superiore” è esso stesso superiore a coloro che un “pezzo di carta” non
ce l’hanno. Per la società, un individuo viene catalogato come un elemento di
serie A oppure uno di serie B, ed è considerato come qualcuno che si è
realizzato oppure un fallito. Come se il fallimento fosse una cosa di cui
vergognarsi…
“Inconsapevolmente, feci mia l’idea che fallire era una cosa da
falliti, che rallentare era una cosa da perdenti”.
Di chi è la colpa se una
persona non sta bene o non riesce a raggiungere gli obiettivi richiesti o non
ci riesce nei tempi prestabiliti da una consuetudine firmata da altri? Dei
genitori, degli amici, della società o di Dio? Sembrano domande lecite,
legittime, ma per me non è così. Io opterei per:
- perché devo sentirmi in
colpa per qualcosa che sono (o che non sono)?
- perché dobbiamo sempre
attribuire le colpe (che molto spesso non sono realmente delle colpe) a
qualcuno? Vale a dire: perché abbiamo bisogno di un capro espiatorio?
In questo mondo bisogna
sempre eccellere, primeggiare, distinguersi, essere perfetti o – almeno –
mostrarsi tali. Non si può tentennare, non si può dubitare, cambiare idea,
opinione, strada. Invece è indispensabile – ce lo insegnano Marco e suo nonno –
imparare a cadere. La caduta dovrebbe essere una materia di studio fondamentale
nella vita, qualcuno dovrebbe insegnarci a fallire…
“[…] prima per essere invincibili bisogna fallire. […] fallire è
necessario, e a volte è pure giusto”.
“Fallire è normale, così come morire. E la normalità forse se la
stanno dimenticando tutti… […] La normalità, forse, spaventa tutti”.
Normalizzare il
fallimento significa accorgersi che nessuno è perfetto eppure ognuno lo è, perché
ognuno ha i propri tempi, vede e sente le cose a modo proprio, vive a modo
proprio ed è diverso da tutti gli altri, anche da chi sembra stia vivendo un’esperienza
simile alla sua. Normalizzare il fallimento significa comprendere l’altro,
stargli vicino senza giudicarlo, senza appesantirlo con la nostra storia, con
le nostre esigenze o col nostro modo di percepire le situazioni, la vita. In
alcuni casi riusciremo a salvare qualcuno in difficoltà, altre volte potremmo
non riuscirci, ma è importante non addossarsi le colpe del destino altrui:
ognuno compie le proprie scelte secondo ciò che ritiene più opportuno.
“Mi torna in mente una frase che era solita dirmi quando da
bambino mi rimboccava le coperte. «Se sarai distanza, io diverrò il tempo, per
colmarti, per raggiungerti.» Io le domandavo: «Che significa, mamma?» E mentre
mi passava la mano sui capelli, sorridendo rispondeva: «Che ti sarò sempre
vicino.»”
Questo libro è un esempio
calzante del potere distruttivo delle menzogne; delle bugie raccontate agli
altri e di quelle – ben peggiori – che raccontiamo a noi stessi. La menzogna,
inizialmente, crea due personalità all’interno di un Io e – di conseguenza –
due mondi: uno reale e uno costruito, fittizio. A furia di mentire, si finisce
col credere alle proprie bugie: la menzogna, a quel punto, diventerà l’unica
verità, e fare i conti col mondo reale diventerà complicato ed estremamente
doloroso. Chiedere aiuto sarà impensabile, inconcepibile, perché costringerebbe
chi è in difficoltà ad ammettere di aver mentito. Per quale ragione questa
società ci inculca la convinzione che il fatto di essere umani – e pertanto
fallibili - non sia dignitoso? Perché siamo costretti a mantenere una facciata,
un’apparenza di pulizia e perfezione, di ordine e bellezza, quando dietro (o
dentro) il caos, l’orrore e il dolore ci divorano?
“[…] mi ingannavo prendendo tempo, ma in realtà era lui che
prendeva me”.
Mi fa male pensare che un
individuo arrivi a vedere la vita come una gabbia, una prigione, e la morte
come unica via d’uscita, come una forma di liberazione. Non dovrebbe esistere
questa dicotomia tra vivere e sopravvivere, tra supportarsi e sopportarsi. Un
uomo non dovrebbe essere l’incubo di se stesso! Ed è terribile non riconoscere
il proprio Io nell’immagine che vediamo allo specchio: per quale ragione ci
vuole coraggio per essere autentici? Perché non può essere una cosa naturale e
spontanea? Perché ci fa tanta paura il cambiamento?
E, a proposito di
cambiamento, tra le cose che appartengono a questo libro c’è anche l’elaborazione
del lutto, anzi, di due tipi di lutto: il lutto per la morte dei nostri cari,
ma anche quello per la morte di una parte di noi. Perdere qualcuno che amiamo è
talmente straziante che non sempre riusciamo a “metabolizzare” la perdita.
Affrontare una mancanza è difficile e complicato, più ancora che affrontare una
presenza: con una presenza è più facile fare i conti perché la vedi, la senti,
le parli; mentre ciò che non c’è più tende a permeare le nostre vite, a
soffocarle, senza darci la possibilità di afferrarlo, confrontarci con esso per
poi, finalmente, lasciarlo andare.
È possibile sanare un
debito con qualcuno che non è più con noi?
“La
coscienza delle piante” è un libro doloroso e bellissimo,
uno dei più belli tra quelli che ho letto quest’anno, e avrei potuto dire molto
di più, ma credo che le pagine di Nikolai Prestia siano così dense che
sviscerare ogni cosa, ogni particolare, avrebbe solo appesantito il mio articolo.
Spero comunque, nella mia brevità, di avergli reso giustizia.