Post in evidenza

LA BELLEZZA

Visualizzazione post con etichetta MAO. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta MAO. Mostra tutti i post

sabato 19 ottobre 2024

RABBIT INHABITS THE MOON

 

Nam June Paik, "Rabbit Inhabits the Moon", 1996, scultura-installazione. 1 statua di coniglio in legno, 1 TV CRT, video a 1 canale, colore, muto, DVD. Dimensioni variabili. Nam June Paik Art Center.

 

Da dove partire per raccontare “Rabbit Inhabits the Moon”? Personalmente, io partirei dal sottotitolo: “L’arte di Nam June Paik allo specchio del tempo”. Qui c’è già molto, in effetti: un nome importante, lo specchio e il tempo. Ognuna di queste cose ha in sé un mondo, ogni sala del MAO allestita per l’evento è – di per sé - un mondo, anzi una bolla. Una bolla atemporale in cui intavolare un dialogo con se stessi, attraverso gli specchi di cui è composto il pavimento e le opere/performance del passato che coesistono con quelle del presente. Qual è, infatti, la ragione – implicita, ma primaria – per la quale frequentiamo i Musei, se non il bisogno di relazionarci con noi stessi? Ciò che è esposto comunica con noi in un modo unico e personalissimo, ci trasmette dei segnali, ci fa provare delle sensazioni più o meno forti e più o meno piacevoli, a seconda del nostro vissuto e del nostro modo di essere. E tali sensazioni ci inducono una risposta emotiva. I pavimenti a specchio hanno due funzioni: la prima consiste nel permetterci di osservare le opere indirettamente, per vincere con garbo e delicatezza il nostro timore e la nostra diffidenza: può capitare, infatti, che ci sentiamo intimiditi da ciò che vediamo o udiamo, ma una volta pronti ad alzare lo sguardo, potremo facilmente guardare in faccia la realtà tangibile delle opere. La seconda funzione, invece, è più intima, e ci consente di tenerci d’occhio mentre osserviamo quelle stesse opere. Mentre osserviamo siamo osservati, sia dalle opere che da noi stessi. E abbiamo tutto il tempo che ci occorre per comunicare con ciò che portiamo dentro, sfruttando ciò che c’è fuori, perché – come dicevo all’inizio – attorno a noi il presente e il passato coesistono: l’Arte si trova nella sfera del Sempre, un non-luogo che galleggia nel non-tempo. Per ottenere questo effetto, le opere di Paik sono state messe in dialogo con opere contemporanee e con una selezione di raffinati manufatti coreani provenienti da prestigiose collezioni pubbliche e private, nazionali e internazionali. È così che “fuori” e “dentro” perdono i loro contorni, si mescolano e diventano indistinguibili l’uno dall’altro. Ed è così che i suoni, le immagini, i colori, la luce, smettono di essere elementi univoci e diventano messaggi personali. Proust diceva che “ogni lettore, quando legge, legge se stesso”; io dico che questo è vero anche per l’Arte: un osservatore/ascoltatore, quando osserva/ascolta un’opera d’arte, in realtà comunica con se stesso. Si osserva, si ascolta. Non abbiate paura, non sbirciate soltanto, prestate attenzione, scrutatevi a fondo, ascoltatevi e scoprirete qualcosa di voi che forse nemmeno sospettavate di avere o, persino, di essere.

Nam June Paik, "Human Cello", 1984, Fotografia in bianco e nero al Café au Go Go, New York, 1965, edizione numerata 1/3 e firmata dagli artisti. 103,5 x 74,5 cm. Fondazione Bonotto.

E così, qualcosa sugli specchi e qualcosa sul tempo l’abbiamo accennata, ma chi è Nam June Paik? Noterete che ho usato il presente indicativo, per formulare la domanda, anche se questo artista si è spento nell’ormai lontano 2006, ma – come ho già detto – l’Arte è Sempre, e le opere di Paik – uno dei pionieri della video arte – non costituiscono eccezione.

Nam June Paik, "Ecce Homo", 1989, video scultura con monitor, televisioni, radio e macchine fototografiche vintage. 252 x 153 x 60 cm. Collezione Pellizzari.

 La sua formazione da pianista e musicologo gli ha permesso di sfruttare più componenti artistiche all’interno delle sue opere, dove i mass media, l’avanzamento tecnologico, i tratti di una società capitalistica e commerciale di tipo occidentale sono sapientemente mescolati ai principi rituali legati alla poesia, alla musica e alla tradizione culturale e sciamanica coreana.

Dalla mostra "Rabbit Inhabits the Moon", al MAO di Torino.

 L’artista stesso ha molti dei tratti dello sciamano: lo sciamano si muove tra il mondo dei vivi e quello dei morti, l’artista cammina tra l’interno e l’esterno, tra il silenzio e il suono; lo sciamano guarisce “esorcizzando” gli spiriti maligni e ripotando le anime là dove devono stare, l’artista “guarisce” le ferite emotive, risvegliando i sensi con suoni, silenzio, immagini e vuoto.

Gruppo musicale coreano "GOOSEUNG" durante una performance artistica al MAO di Torino.

 

L’aspetto musicale, in particolare, è stato messo in gran risalto durante la conferenza stampa di presentazione della mostra, grazie a due meravigliose performance musicali in apertura: quella ritmata ed energica del gruppo coreano Gooseung, e quella ipnotica e commovente della pianista Gloria Campaner che ha suonato il “Nocturne No. 20” di Chopin[1].

Gloria Campaner mentre esegue il "Nocturne No. 20" di Chopin.

 La performance, nella sua interezza, prevede che gradualmente, ad ogni interpretazione, vengano tolti alcuni martelletti dal pianoforte che, alla fine resterà “muto”. Ho trovato molto suggestiva questa lenta e inesorabile scomparsa del suono: ad ogni nota mancata si avverte una piccola fitta, come un vuoto nello stomaco, o – forse – nel cuore.

Il pianoforte viene gradualmente privato dei martelletti.

 Ma, pian piano, quello che inizialmente era avvertito come un fastidio, si placa e subentra un qualcosa che somiglia all’aspettativa. Non si tratta di rassegnazione al vuoto, bensì di accettazione dell’inevitabile silenzio che lentamente ci consegna alla calma, alla pace interiore. Che suono ha il silenzio, per una società che non è abituata ad ascoltarlo?

 

 

 


 

E cosa ci fa un coniglio sulla luna? Dovete sapere che questo topos letterario attraversa diverse culture dell’Estremo Oriente (Cina, Giappone, Corea) e si estende fino all’Asia Centrale, all’Iran e alla Turchia. Il titolo dunque, ispirato all’omonima installazione di Paik del 1996 (in cui il coniglio della leggenda diventa una scultura lignea che osserva l’immagine della luna all’interno dello schermo di un televisore),  fa sì che nella mostra realtà e immaginazione, tradizione e tecnologia si incontrino, si riflettano, si ripetano e si mescolino, dando vita a una sintesi ideale di contenuti che, grazie a  un complesso gioco di associazioni tematiche, rimandi e riletture, affiorano nel percorso espositivo.

Quotidianità e sacralità si interfacciano e si rispecchiano l’una nell’altra; silenzio e suono si alternano pur convivendo; ogni cosa avviene sia contemporaneamente che alternativamente, perché – ancora una volta – tutto è Sempre, nell’Arte. Il coniglio[2] (e/o la lepre) è un animale lunare, espressione delle forze tutelari e quindi di protezione. Il potere magico ad esso attribuito proviene, probabilmente, dalla sua straordinaria fecondità, simbolo di vita, di ricchezza e di prosperità. In Cina, la Lepre incarna la longevità e l’immortalità, infatti abita nel palazzo della Luna (simbolo femminile) e possiede l’elisir dell’immortalità.

Dalla mostra "Rabbit Inhabits the Moon", al MAO di Torino.

Mi preme sottolineare ancora un paio di cose: la prima è che, come sempre accade nei progetti espositivi del MAO, anche “Rabbit Inhabits the Moon” è concepita come un organismo vivo, pertanto, per tutta la sua durata [19/10/2024-23/03/2025], presenta un ricco programma musicale e performativo, a cura di Chiara Lee e freddie Murphy[3], che coinvolge sia artisti coreani che italiani; la seconda, invece, riguarda la rilevanza di questa mostra anche in ambito diplomatico. Quest’anno, infatti, ricorre il 140° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Corea e Italia e “Rabbit Inhabits the Moon” intende proprio stimolare un dialogo dinamico che rifletta l’evoluzione del paesaggio culturale e artistico dei due Paesi, rileggendo – in particolare – l’eredità di Nam June Paik e la sua influenza sulle generazioni contemporanee. 

Giacca sovrakimono (haori) maschile. 1930. Crespo di seta nera (esterno), taffetà di seta (interno); decorazione a riserva a mascherina (katayuzen) e a mano libera. 107 x 134 x 47 cm. Collezione privata. La giacca sovrakimono in mostra è un pregiato esempio della raffinata produzione tessile giapponese. Meno note, rispetto alle vesti femminili, quelle maschili, austere all'esterno, presentano all'interno raffigurazioni che racchiudono narrazioni e simbologie capaci di raccontare la società da un punto di vista storico, economico, politico e artistico-culturale. L'haori in mostra raffigura due conigli sulla luna intenti a macinare il riso per cucinare il tradizionale dolce mochi. L'iconografia trae ispirazione dal topos letterario e iconografico del coniglio lunare.

 

Tra l’altro, il MAO non solo è organizzato come una creatura vivente, è anche privo di confini fisici definiti… Penso, ad esempio, alla collaborazione del Museo con il Mercato Centrale, che ha ospitato e ospiterà numerose performance artistiche legate all’Oriente. È stimolante il fatto di sapere che la bellezza, la cultura, l’arte e le emozioni che queste cose suscitano in noi prescindono da delimitazioni di qualsivoglia natura. Ritengo che la curiosità sia uno dei motori più potenti: rende la vita affascinante e ricca di meraviglie; se poi tale motore è unito al senso di libertà, nessun Museo può essere considerato un magazzino statico e noioso. E il MAO, anche grazie all’instancabile lavoro del suo direttore – Davide Quadrio – è ben lontano dall’essere statico e noioso, è anzi un crogiuolo di novità e tradizione, di popoli e civiltà, di culture antiche e artisti moderni, di movimento e meditazione, di atmosfere impalpabili e sostanza concreta.

Il MAO è pieno di vita!



[1] L’installazione “Nocturne No. 20/Counterpoint” (2013-2020) di Kyuchul Ahn, propone una rivisitazione della musica di Chopin, completata da una bizzarra e suggestiva performance in cui gli 89 martelletti del pianoforte vengono sottratti man mano, fino a far rimanere lo strumento incapace di produrre il suono. Il tutto, realizzato con la sponsorizzazione tecnica/collaborazione di Piatino pianoforti.

[2] Pp. 481 e 482 del “Dizionario dei simboli, dei miti e delle credenze” di Corinne Morel, De Vecchi Edizioni.

[3] Per “Rabbit Inhabts the Moon” il MAO propone una uova edizione del public program “Evolving Soundscapes” , a cura di Chiara Lee e freddie Murphy. Raccogliendo l’eredità di Nam June Paik, che riteneva che gli artisti fossero sciamani o medium spirituali capaci di collegare gli spettatori e il mondo invisibile e paragonava gli happening Fluxus ai rituali degli esorcisti coreani, il public program ospiterà alcuni artisti coreani e italiani che daranno vita a una serie di performance site specific. Tale programma è iniziato Venerdì 18 Ottobre, ma ci saranno altri incontri: Ecco le date: Domenica 15 Dicembre 2024, sia alle ore 11.30 che alle 16.00; Domenica 23 Febbraio 2025 sia alle 11.30 che alle 16.00; Giovedì 6 Marzo 2025 alle 21.30; Domenica 23 Marzo 2025 sia alle ore 11.30 che alle 16.00.

venerdì 6 ottobre 2023

TRAD U/I ZIONI D'EURASIA

 

TRAD U/I ZIONI D'EURASIA

 

Ma tenete d’occhio le mostre: a loro piace cambiare![1]

Chi va a visitare il MAO, non ha solo l’occasione di vedere degli oggetti esposti, ha l’occasione di fare un’esperienza. Un’esperienza ogni volta diversa, pur nell’ambito di una stessa mostra. Perché? Perché le mostre del MAO mutano, cioè propongono performances e allestimenti sempre diversi, cambiano in corso d’opera. In tal modo è come se ogni mostra racchiudesse in sé tante mostre, dove si avvicendano opere e artisti sempre nuovi. Può darsi che andiate oggi e assistiate a un qualcosa che vi fa dono di una determinata esperienza, ma, tornando domani, vediate cose diverse e facciate un’esperienza di tutt’altro tipo.  D’altronde chi ha detto che i Musei debbano essere luoghi statici e noiosi? Il MAO, dunque, è un “dispositivo” (come lo definisce il Direttore Davide Quadrio) in continua trasformazione, un ambiente di cura e di confronto in cui non sono soltanto le opere a “dialogare” tra loro, ma anche chi le studia e se ne prende cura. Nel caso di “TRAD U/I ZIONI D’EURASIA”[2] sono addirittura quattro le Curatrici[3] e innumerevoli le collaborazioni, le partnership e gli/le artisti/e che hanno contribuito a rendere speciale il progetto.

TRAD U/I ZIONI D’EURASIA

Già il titolo è un condensato di informazioni, ma anche di misteri…

La parola “TRADUZIONE” può essere intesa sia come veicolazione di messaggi da una lingua a un’altra, sia come trasporto di oggetti, simboli e cultura da un luogo a un altro. “TRADIZIONI”, invece, è intesa per ciò che è: l’esposizione dei valori, dei costumi e delle usanze all’interno delle società eurasiatiche.

“Terza e ultima presentazione della serie espositiva FRONTIERE LIQUIDE E MONDI IN CONNESSIONE, TRAD U/I ZIONI D’EURASIA volge lo sguardo sulla storia profondamente complessa dell’interazione culturale tra Asia ed Europa, esponendo oggetti che evidenziano contatti, traduzioni e migrazioni di simboli, forme, materiali e colori, avvenuti grazie  a scambi commerciali e politici nel corso di duemila anni di storia, dedicandosi in particolare al periodo che va dal VI al XVI secolo.

Gli oggetti parlano anche del desiderio dell’esotico nato da tali contatti. La loro storia, a più livelli e frammentaria, evidenzia come la relazione tra gli esseri umani e le ‘cose’ non sia mai stata lineare e semplice; al contrario, spesso complessa e diseguale. Ci mostrano come l’esotismo abbia plasmato idee di lusso e raffinatezza attraverso il tempo e lo spazio; idee che sono state condivise, variamente tradotte e ampiamente diffuse tra i due continenti.

I colori e il loro potere saranno anche al centro dell’intervento dell’artista contemporanea Yto Barrada (marocchina, francese, nata nel 1971 a Parigi). Nel corso della sua collaborazione di un anno con il MAO e la Fondazione Merz, l’artista svilupperà un progetto all’interno della sua ricerca sui colori e in particolare sullo studio e formazione di pigmenti naturali nonché sulla loro origine, materialità e funzionalità, sulle cariche simboliche, politiche e metaforiche. Il progetto di Yto Barrada trae ispirazione dal libro, recentemente ripubblicato, COLOR PROBLEMS: A PRACTICAL MANUAL FOR THE LAY STUDENT OF COLOR, dell’artista e studentessa Emily Noyes Vanderpoel (1842-1939)”.

Ed è proprio dai colori che vorrei partire per raccontarvi questa nuova mostra…

Indossati i copri-scarpe che vi saranno forniti all’ingresso della sala e che vi conferiranno un’aria da chirurghi, potrete finalmente immergervi nello spazio senza tempo e senza… spazio di un ambiente interamente bianco. Il morbido candore della moquette sotti i vostri piedi, il bianco delle pareti e l’allestimento minimalista contribuiscono, infatti, a creare una sorta di “altrove” dove non ci sono distrazioni, bensì “astrazioni” perciò è comunque possibile – se non addirittura auspicabile – il viaggio nell’immaginazione. In quel bianco – della neutralità e della rinascita - spiccano gli oggetti esposti, pochi in ogni sala, ma selezionati con attenzione e disposti con cura come pennellate di colore su una tela… Quale colore? Il blu, tanto per cominciare.

Il blu

Una selezione di reperti blu. Questi oggetti sono attualmente esposti al MAO di Torino in occasione della mostra "Trad u/i zioni d'Eurasia".

Indaco, oltremare, blu di Prussia, ceruleo, celeste, turchese, azzurro, cobalto, zaffiro, ciano, sono solo alcune delle innumerevoli sfumature di questo colore, colore che non è sempre stato in vetta alle classifiche dei colori più “nobili”, ma che – una volta compreso e accettato – ha saputo farsi strada nel mondo dell’Arte. “Il blu ha svolto un ruolo socio-culturale fondamentale lungo le rotte terrestri e marittime che collegavano l’Eurasia in epoca pre-moderna, stimolando numerosi scambi culturali. Minerali come il lapislazzuli dell’Afghanistan, l’ossido di cobalto dell’Iran e le foglie di Indigofera Tinctoria dell’Asia meridionale non solo erano materiali essenziali per la produzione di pigmenti pittorici, invetriature ceramiche e tinture tessili, ma avevano soprattutto un valore simbolico universale. Espressione di lusso e opulenza, il fascino suscitato dal colore blu contribuì a molteplici trad u/i zioni artistiche e culturali tra Iran, Cina e Mediterraneo orientale”.

Se poi uniamo il colore blu all’arte calligrafica otteniamo una combinazione vincente e… avvincente!

Una selezione di reperti calligrafici esposti attualmente al MAO di Torino in occasione della mostra "Trad u/i zioni d'Eurasia".

“Una goccia di blu su una superficie immacolata e le parole prendono forma.  A prescindere da chi abbia inventato la ceramica bianca e blu, i ceramisti iracheni hanno sicuramente contribuito alla popolarità ben oltre i confini delle terre islamiche. Molti di questi manufatti sono decorati con iscrizioni in arabo che menzionano eccezionalmente i loro creatori, quasi un marchio della loro presenza nell’opera. La combinazione di blu e bianco si ritrova nello stesso periodo su tessuti con iscrizioni particolarmente ermetiche: molte lettere sono state modificate per creare un ritmo dinamico. I testi sono solitamente di carattere religioso (invocazioni e benedizioni) o politico (nome e titoli onorifici di un califfo), ma possono essere eseguiti in maniera così artificiosa da risultare illeggibili o contenere errori ortografici. Ciò suggerisce che la presenza stessa della scrittura fosse talvolta più importante del suo significato, a riprova dell’importanza simbolica del segno scritto in molte culture eurasiatiche”.

E tante sono le culture che tenevano in grande considerazione la scrittura…

La scrittura degli antichi Egizi, per esempio, era altamente simbolica e direttamente associata agli dei che si credeva avessero donato all’uomo il linguaggio.

Nella cultura ebraica ogni parola scritta racchiude in sé molti mondi: il significato (concreto e simbolico) della parola nella sua interezza e il significato (concreto e simbolico) di ogni lettera che compone quella parola…

“Che si sappia o meno leggere, non si potrà non godere della bellezza della calligrafia”. (Qadi Ahmad, XVI secolo)

Ma torniamo al blu…

Facendo alcune ricerche per la stesura di questo articolo, ho trovato - sul mio vecchio testo di Storia dell’Arte – un brano tratto da Cennino Cennini[4], “Il Libro dell’Arte” o “Trattato della pittura”. Il brano parla dell’immenso lavoro che un pittore doveva compiere per ottenere il colore blu. Ve lo riporto qui:

“Se vuoi fare un mantello di Nostra Donna d’azzurro della Magna, o altro vestire che voglia fare solo d’azzurro, prima in fresco campeggia il mantello, o ver vestire, di sinopia e di nero; ma le due parti sinopia, e il terzo nero. Ma prima gratta la perfezione delle pieghe con qualche puntaruolo di ferro, o agugiella; poi in secco togli azzurro della Magna lavato bene, o vuoi con lisciva, o vuoi con acqua chiara, e rimenato un poco poco in su la pria da triare. Poi, se l’azzurro è di buon colore e pieno, mettivi dentro un poco di colla stemperata, né troppo forte, né troppo lena, che più innanzi te ne parlerò. Ancora metti nel detto azzurro un rossume d’uovo; ma se l’azzurro fosse chiaretto, vuole essere il rossume di questi uovi della villa, che sono bene rossi. Rimescola bene insieme, con pennello di setole morbido: ne da’ tre o quattro volte sopra il detto vestire. Quando l’hai ben campeggiato, e che sia asciutto, togli un poco d’indaco e di nero, e va’ aombrando le pieghe per lo mantello, il più che puoi; pur di punta ritornando più e più fiate in su le ombre. Se vuoi in su’ dossi delle ginocchia, o altri rilievi, biancheggiare un poco, gratta l’azzurro puro con la punta dell’asta del pennello. Se vuoi mettere in campo, o in vestire, azzurro oltramarino, temperalo all’usato modo detto di quello della Magna, e sopra quello danne due o tre volte. Se vuoi aombrare le pieghe, togli un poco di lacca fina, e un poco di nero temperato con rossume d’uovo. E aombralo gentile quanto puoi, e più nettamente; prima con poca di quella, e poi di punta, e fa’ men pieghe che puoi, perché l’azzurro oltramarino vuol poca vicinanza d’altro miscuglio”.

Lo stralcio che avete appena letto (o avete saltato a piè pari?) mi permette di introdurre in questo articolo luuuuunghiiiiiiissimo (io vi ho avvertit*, eh!) una delle opere che – grazie alla collaborazione con i Musei Reali di Torino – è esposta al MAO in questo momento. 

Barnaba da Modena, "Madonna con il Bambino", 1370, tempera e oro su supporto ligneo. Musei Reali di Torino, Galleria Sabauda. Attualmente esposta al MAO in occasione della mostra "Trad u/i zioni d'Eurasia".

L’opera in questione è la “Madonna con il Bambino” di Barnaba da Modena (Barnaba Agocchiari). Il dipinto risale al 1370 ed è stato inserito all’interno di TRAD U/I ZIONI D’EURASIA in quanto l’artista lo ha realizzato raffigurando “stoffe preziose provenienti dall’Asia, molto ricercate tra le aristocrazie europee poiché conferivano lustro e prestigio a chi le possedeva. Nella veste del Bambino la sfarzosità del tessuto a piccoli motivi rimanda a un panno tartarico così come le pseudo-iscrizioni in lingua araba sugli orli delle vesti di entrambe le figure. Queste imitavano la scrittura cufica, uno stile calligrafico che, insieme ad altri, adornava le khil’a, le vesti di gala tra i principali doni nelle corti del mondo islamico”.

 

 

E se lo stile di Barnaba da Modena vi piace, vi consiglio di andare ad ammirare un altro dei suoi dipinti, che si trova a Palazzo Madama, il Museo Civico d’Arte Antica di Torino: anch’esso ritrae una Madonna col Bambino. Il mantello di Lei è, ancora una volta, blu con venature dorate.

Barnaba da Modena, "Madonna con Bambino", metà XIV secolo, tempera su tavola. Palazzo Madama, Torino.

 

 Oro e tessuti

“Tessere l’oro in epoca mongola era operazione complessa: l’ampio uso del filo aureo rimanda all’agemina, al niello e all’incastonatura, tecniche proprie della metallurgia islamica persiana e turca fin dall’XI e XII secolo. Il filo in metallo prezioso, spesso realizzato in strisce piatte rivestito di lamine auree, copre quasi interamente il dritto della stoffa creando un effetto prospettico di profondità del disegno”. In mostra potrete ammirare “un rarissimo nasij (tessuto d’oro) di altissima qualità” sul quale campeggiano due leoni alati inscritti in medaglioni. I motivi “sono tratti dalla tradizione persiana di origine sasanide e si alternano a figure di grifoni, animali fantastici di un repertorio iconografico condiviso dalla Cina alle sponde del Mediterraneo”.

Poi ci sono i tiraz (parola persiana che significa “ricamo”), le cui iscrizioni sono per l’appunto ricamate con filo blu indaco su un fondo di lino naturale. L’unico elemento decorativo che possiedono i tiraz consiste in una serie di iscrizioni in cufico, particolarmente elaborate; si tratta di invocazioni a Dio che hanno il pregio di conferire un’aura di solennità a tessuti altrimenti molto semplici.

Oro e potere

Una selezione di tessuti esposti al MAO per la mostra "Trad u/i zioni d'Eurasia".

 

 

 

 

 

 

 

 

“I Mongoli non possedevano una tradizione di tessitura della seta e fecero ampio uso delle competenze e delle tradizioni maturate nel corso dei secoli dalle civiltà che sottomisero. Diverse manifatture sorsero in Cina, Asia centrale e Iran. La seta lavorata con l’oro divenne un importante simbolo di potere. I tessitori godevano di uno status particolare e dovevano essere pronti a soddisfare la richiesta di tessuti lussuosi dell’alta società mongola. Più il filo d’oro era impiegato nei tessuti, più questi esprimevano il potere del suo possessore. In Europa questo stile prese il nome  di ‘tartarico’, cioè dei Tartari, come venivano chiamati i Mongoli”. I sovrani mongoli, a quanto pare, amavano i tessuti scintillanti, perciò le vesti destinate ai membri dell’aristocrazia erano interamente intessute in filo d’oro… E l’oro non veniva solo filato, ma anche stampato su seta, con metodi di tintura che purtroppo sono andati perduti.

Tessuti e simboli

Alcuni degli elementi decorativi dei tessuti esposti al MAO sono: le coppie di segmenti ondulati (che fanno riferimento alla pelle di tigre e ricordano i motivi del cintamani tradizionalmente associato alla regalità), le nuvole in cumuli (antico motivo divinatorio cinese simboleggiante il collegamento tra Cielo e Terra, dimora dei draghi protettori), gli animali alati (come il mitico cervo, detto qilin), i caratteri cinesi di buon auspicio (ritenuti appropriati per commemorare i defunti e garantire buona fortuna nell’aldilà) e le tre sfere disposte a triangolo (che, invece, fanno riferimento alla pelle di leopardo). Rifacendosi a Rostam (eroe di un antico mito persiano, ovvero iranico, che indossava le pelli dei suddetti felini e, con il loro magico potere, riusciva a sconfiggere i propri avversari) i sultani ottomani prediligevano indossare stoffe preziose recanti tali motivi, così da legittimare il proprio potere e sentirsi, in qualche modo, invincibili.

E poi c’è la carpa… Simbolo di prosperità e buona salute in Cina e in Giappone, questo pesce dalle squame luminescenti è legato alla leggendaria porta del Dragone (anch’esso dotato di squame). Il “motivo a squame” si è diffuso in particolar modo durante il XVI secolo, grazie agli intensi scambi diplomatici tra la dinastia dei Ming e l’Impero Ottomano. Per questo lo ritroviamo nel mondo islamico (in generale), nelle ceramiche turche (in particolare) e nella produzione di oggetti in metallo.

Molti altri sono i simboli identificabili in quel periodo e in quei luoghi… Due esempi fra tutti? La luna e il gallo.

La seta

“La seta cinese svolse un ruolo cruciale sia per i mercanti sogdiani[5] sia per i suoi acquirenti, utilizzata per secoli come moneta alternativa ed emblema tangibile di lusso esotico in Asia. Alla fine del V secolo, tuttavia, il segreto della sericoltura trapelò dalla Cina, consentendo agli artigiani iraniani e dell’Asia centrale di produrre i propri tessuti, in seguito ampiamente esportati”.

E, d’altra parte, i mercanti della Sogdiana furono grandi trad U ttori, cioè conduttori/trasportatori di idee, testi, simboli e merci. Percorrendo quella che oggi è nota come “Via della Seta” (lunga ben 4.800 km), attraversando montagne, oasi e deserti, essi veicolarono prodotti e culture e, di queste, divennero i mediatori principali.

Una curiosità che… calza a pennello

Aggirandovi silenziosamente – ché la moquette assorbe i rumori dei vostri passi – a un certo punto vi imbatterete in una scarpetta… Si tratta di un calzare, appartenuto – udite, udite - al pontefice Benedetto XI!

 Altri oggetti in mostra

Una selezione di oggetti attualmente esposti al MAO di Torino per la mostra "Trad u/i zioni d'Eurasia".

Che odore ha una civiltà? Di cosa sanno i luoghi? E i tempi? Se fossimo vissuti nel Medioevo, ad esempio, quali odori avremmo sentito? Tra gli oggetti esposti ci sono bruciaprofumi che servivano a spargere nell’aria aromi di muschio, ambra grigia, legno di aloe e canfora…

 La ciliegina sulla torta

Quando arriverete alla fine del percorso, ci sarà un’ultima stanza ad attendervi: la più suggestiva, a mio parere. Ora ve la racconto…

C’era una volta una stanza immersa nel bianco, ma non era – come si potrebbe pensare – una stanza vuota… Infatti, proprio nel mezzo, tra quattro colonne, torreggiava un bellissimo oggetto: un enorme cubo nero sospeso nel vuoto! E la caratteristica di tale cubo era il fatto d’esser come intagliato, così che da quelle “ferite” con motivi floreali potesse uscire non sangue, bensì luce. Proprio così, il cuore del gigante d’acciaio era fatto di luce, una luce che giocava a dipingere se stessa in forma di fiori su quel candore niveo. E, poiché la bellezza – per esser tale – ha bisogno di qualcuno che l’ammiri, il fondo della sala era fatto di specchi.

Anila Quayyum Agha, "Shimmering Mirage (Black)", 2018, acciaio.

 

 

 

 

 

 

Poi qualcosa cambiò: era entrata una spettatrice e il cubo, d’un tratto, non fu più solo a rimirar se stesso.  Come so tutto questo? Perché vidi il mio riflesso negli specchi e capii che la spettatrice ero io. E mi sentii una diva sul red carpet, anzi, sul white carpet, perché mentre giravo intorno al grande cubo la luce del suo cuore pulsava, veloce come i flash dei fotografi, di tanti fotografi. E più mi muovevo velocemente io, più la luce pulsava a un ritmo frenetico. Poi mi resi conto che il pulsare di quel cuore luminoso aveva il ritmo del mio cuore, così mi calmai e anche la luce rallentò la sua corsa intermittente. Come quando sfrecci su una strada, di notte, costeggiando lampioni disposti a intervalli regolari. Come quando il sole prova a sbirciare tra i rami degli alberi. E tu giochi a nascondino con lui. E lui con te.

Quello che avete appena letto è il racconto della mia esperienza davanti (e intorno) all’installazione di Anila Quayyum Agha intitolata “Shimmering Mirage (Black)”.

Un breve video dell'opera di Anila Quayyum Agha, "Shimmering Mirage".


“L’utilizzo di motivi islamici che diventano reinterpretazioni dei disegni originali, mi permette di infondere nell’opera un focus contemplativo che evoca l’ordine soggiacente del cosmo attraverso le simmetrie presenti in natura. Questi motivi geometrici, in qualche modo familiari, mi permettono di approfondire e reinterpretare gli elementi del quotidiano per rivelare le complessità della simbiosi tra generi, culture e civiltà e le frontiere liquide che esistono tra loro”.

E dato che ho fatto trenta, faccio trentuno… Ho aperto questo articolo dicendo che alle mostre piace cambiare, perciò ora vi riassumo quello che accadrà da adesso fino alla primavera del 2024.

Nell’ambito di Evolving soundscapes[6] (a cura di Chiara Lee & freddie Murphy), ovvero il music public program della mostra Trad u/i zioni d’Eurasia, si avvicenderanno numerosi artisti provenienti dall’Asia, dal Mediterraneo e dal nord Africa. Il programma include anche Distilled, un’installazione sonora site specific composta da alfabeti sonori, che si svilupperà e si arricchirà gradualmente di nuovi elementi nel corso dei mesi di mostra.

Venerdì 3 novembre (alle ore 22), nelle Antiche Ghiacciaie del Mercato Centrale di Torino, in occasione di Artissima, ci sarà una performance di Raja Kirik con Silir Pujiwati e Ari Dwiyanto intitolata The Phantasmagoria of Jathilan. Si tratta di un’esplorazione artistica della tradizione Jathilan che ne reinterpreta musica, voci e movimenti. Frutto di un’ampia ricerca sulla storia dell’isola, con la loro pratica artistica i Raja Kirik riflettono sulla violenza, l’oppressione e la resistenza che hanno plasmato Java. Rappresenta il rifiuto del dominio coloniale e il conseguente desiderio di libertà attraverso un punto di vista contemporaneo sulla trance dance javanese.

Mercoledì 6 dicembre (ore 18.30) si potrà assistere a El Khat un mix retro-futuristico di canzoni tradizionali yemenite, groove contemporanei e strumenti auto-costruiti utilizzando oggetti di scarto. Lo scopo, anche in questo caso, è dare vita a un’espressione di libertà attraverso la costruzione di un “ponte” tra la musica tradizionale yemenita e la musica del futuro.

Giovedì 25 gennaio 2024 (ore 18.30), Ya Tosiba. Nato dalla collaborazione tra la musicista e cantante azera Zuzu Zakaria e il produttore finlandese Tatu Metsätähti, Ya Tosiba unisce elettronica, strumenti suonati dal vivo e la tradizione poetica  orale del Caucaso in un suono moderno e accattivante.

Febbraio 2024, Širom. I Širom sono un trio sloveno che suona musica folk che sembra provenire da un universo parallelo. La loro musica unisce approcci, stili e influenze diverse. Contaminazioni per creare un folk pan-globale alternativo e innovativo.

Mercoledì 27 marzo 2024 (ore 18.30), Maya Al Khaldi + Sarouna. Voci e musica dal passato e dal presente palestinese.

Il Museo del bonsai

Nasce al MAO il Museo del bonsai! A partire da ottobre 2023 e fino alla primavera 2024, il terrazzo del Museo d’Arte Orientale si trasformerà in un museo a cielo aperto, un giardino di pace, scoperta e studio che ospiterà otto esemplari di bonsai selezionati da Massimo Bandera, fra i maggiori bonsaisti italiani e internazionali. In qualità di curatore del progetto, Bandera proporrà una periodica sostituzione degli esemplari esposti, che saranno scelti in base al naturale ciclo delle stagioni e agli archetipi di simbologia sino-giapponese.

I laboratori

E, per chiudere, vi annuncio che al MAO saranno messe a disposizione anche delle attività di laboratorio[7].

Trame e orditi tra mondi in connessione (da 8 anni in su).

Il percorso prevede la visita della mostra contemporanea con una particolare attenzione alle opere in tessuto, fili di seta che tracciano intricate e preziose trame. In laboratorio verranno utilizzati piccoli telai per comprendere l’antica tecnica di tessitura manuale e realizzare uno scampolo di seta.

Diamo forma all’argilla (per tutte le età).

L’attività prevede la visita della mostra concentrandosi in modo particolare sulle preziose opere in terracotta, ceramica e porcellana. L’osservazione delle brocche, dei piatti, delle fiasche e dei brucia-incensi fornirà ispirazione e spunto per la realizzazione in laboratorio di un manufatto di argilla.

 



[1] È una semi-citazione: nell’originale (“Harry Potter e la Pietra Filosofale”) è detto “Ma tenete d’occhio le scale: a loro piace cambiare!”

[2] TRAD U/I ZIONI D'EURASIA - Frontiere liquide e mondi in connessione. Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale.

5 ottobre 2023 – 1 settembre 2024

Da sx: Vigo, Prestini, Fazio, Raffo
[3] Laura Vigo, Nicoletta Fazio, Elisabetta Raffo e Veronica Prestini.

[4] Cennino Cennini. Nato a Colle di Valdelsa (Siena) sul finire del XIV secolo, fu allievo a Firenze di Agnolo Gaddi (attivo nella seconda metà del Trecento), presso la cui bottega lavorò per più di dieci anni. Dal 1398 è pittore di corte a Padova, dove muore, molto verosimilmente agli inizi del XV secolo. La grande fama di Cennini è soprattutto dovuta a “Il Libro dell’Arte”, o “Trattato della pittura”, il primo trattato artistico in lingua volgare. In esso vengono illustrate le varie tecniche pittoriche e, per la prima volta, la figura dell’artista non è più assimilata a quella dell’artigiano, ma a quella di un intellettuale colto, conoscitore della storia e dei grandi esempi del passato.

[5] Sogdiana: regione situata tra gli odierni Uzbekistan e Tagikistan.

[6] Dal 4 ottobre 2023 a marzo 2024 al MAO – Museo d’Arte Orientale, via san Domenico, 11 a Torino.

[7] Per le scuole si propongono percorsi di visita alla mostra con laboratori. Per prenotazioni: maodidattica@fondazionetorinomusei.it