Rassegnarsi o non
rassegnarsi?
Cedere alla
consapevolezza dell’assenza di futuro o tentare, comunque, di conquistare la
propria fetta di mondo?
Umberto Galimberti
sostiene che i giovani siano passati “dal nichilismo passivo della rassegnazione al nichilismo
attivo di chi non misconosce e non rimuove l’atmosfera pesante del nichilismo
senza scopo e senza perché, ma non si rassegna e si promuove in tutte le
direzioni nel tentativo molto determinato di non spegnere i propri sogni”.
“La
parola ai giovani” raccoglie una settantina di lettere
arrivate alla redazione di “Repubblica” per la rubrica su “D” (inserto
femminile) riguardanti i grandi temi su cui oggi i giovani si interrogano.
“[…] anche nella disperazione, sono lettere cariche d’ironia..
Un’ironia che non nasce dal cinismo o dal disfattismo, perché è animata dalla
quasi certezza di potercela fare. Tratto tipico della giovinezza che non si
arrende e tenta di vincere anche e soprattutto nelle avversità”.
Le tematiche affrontate
sono nove e le lettere sono, di conseguenza, suddivise secondo queste
categorie:
PRIMA PARTE
Gioventù
perduta? No, cancellata per errore.
SECONDA PARTE
Noi
ce la possiamo fare, ma voi non spezzateci le ali.
TERZA PARTE
Il
vostro disfattismo non ci farà rinunciare ai nostri valori e ai nostri ideali.
QUARTA PARTE
Siamo
“nativi digitali”, ma non in modo acritico.
QUINTA PARTE
I
giovani e la scuola: una triste storia di reciproco disinteresse e
incomprensione.
SESTA PARTE
I
giovani e il lavoro nell’età della tecnica e dell’economia globalizzata.
SETTIMA PARTE
I
giovani e gli scenari spaesanti dell’amore.
OTTAVA PARTE
I
giovani e la faticosa ricerca di sé.
NONA PARTE
I
giovani di fronte alle domande ultime.
Nella prima parte il “fattore tempo”
viene tirato in ballo più volte. Le innovazioni tecnologiche, infatti,
hanno accelerato ogni cosa. Hanno anche azzerato le distanze. Per questo, oggi,
il sentimento più diffuso è l’impazienza: i giovani hanno fretta di realizzare
i loro sogni, di affermarsi, ma la fretta – purtroppo – non permette loro di soffermarsi
a godere della bellezza, dell’amore, della vita stessa. Tutto ha preso velocità
e la gavetta è sparita, nella foga di guadagnare quanto più denaro possibile.
Ed ecco che ci si
imbatte nel secondo fattore da cui è praticamente impossibile prescindere: il denaro. Questo è un periodo storico in cui
assistiamo, giorno dopo giorno, alla caduta dei valori e all’ascesa di un nuovo
“Dio”. Il denaro è – a tutti gli effetti – una potenza che sembra
indispensabile quanto imbattibile. E se una volta esisteva la contrapposizione
(pertanto, il conflitto) tra il servo e il signore, purtroppo oggi “sia il servo
sia il signore, sia il datore di lavoro sia il dipendente, sono dalla stessa
parte e hanno come controparte il mercato. E come fai a prendertela con il mercato? Il mercato è
nessuno […]”.
Il mercato è una sorta di entità metafisica e invisibile che, però,
incide pesantemente sulla nostra vita che, a sua volta, è una lotta costante,
una corsa nella quale è indispensabile arrivare primi. E’ una gara a chi fa più
cose in meno tempo e con il minor dispendio di energie.
In questa prima parte
si parla tanto anche di sogni. I sogni possono
essere di due tipi: illusioni (che spesso si trasformano in delusioni) e i
progetti (che rappresentano la concretizzazione dei desideri). Questi ultimi
non sono vittime del “sano realismo”, per fortuna. Ma che cosa è il “sano
realismo”? E’ un modo di arrendersi, di omologarsi alla volontà di un Sistema
che ci vede più controllabili quanto più decideremo di adattarci e di
uniformarci alla “normalità”. L’appello che U.G. lancia ai giovani è quello di
non diventare dei “collaboratori dell’omologazione di massa, perché altrimenti siete voi
stessi a spegnere i vostri sogni”. “Un sogno non è l’espressione di un
desiderio da soddisfare senza sforzo, ma semplicemente l’esigenza di realizzare
ciò per cui si è nati”. (Che cosa è – d’altronde – la felicità se
non la compiuta realizzazione di sé?) E per quale motivo si fa tanta fatica a realizzare i sogni? Semplice:
perché non esistono più certezze, non ci si può più appoggiare a nulla.
Qualcuno, proprio per questo motivo, si rifiuta persino di fantasticare sul
futuro e qualcun altro (che, magari, coltiverebbe ancora qualche sogno) non sa
dove indirizzare la propria energia e la propria voglia di fare. Anche la
realizzazione personale ha cambiato faccia e dall’essere associata al fare
qualcosa che ci piace e ci gratifica è, ormai, associata allo stipendio. Tutto
ha preso le sembianze di una corsa “al successo, all’accessorio, al riconoscimento”. Ardua, per i giovani, l’impresa di crearsi una
propria personalità se, come
unici punti di riferimento, si trovano di fronte soltanto persone che hanno
perso i loro sogni, persone sfiduciate e arrabbiate che provano invidia per chi
ha davanti a sé più tempo e più energie di loro. “Perché molti adulti scoraggiano i giovani?
Per scaricare il senso di colpa di non aver predisposto per loro un futuro”. I quarantenni di oggi demoralizzano e
demotivano i ventenni affinché anch’essi perdano i sogni che li accompagnano e che
stanno cercando di coltivare.
La deleteria saggezza dei vecchi è l’altro cardine su cui ruota la
prima parte del libro di Galimberti. Perché deleteria? Perché – come è noto – i
tempi sono cambiati da quando i nostri nonni erano giovani e molti dei consigli
e dei suggerimenti che essi elargiscono non sono più applicabili alla storia moderna.
Quella dei giovani d’oggi è la generazione dell’Apocalisse, ovvero quella alla
quale hanno detto che tutto sta per finire. Il mondo come lo conosciamo, le
pensioni, le prospettive, i finanziamenti per le cose importanti (scuola,
sanità, ecc.), le risorse naturali, i ghiacci, le stagioni. Una buona fetta di
colpa per lo stato in cui è ridotto il mondo in cui viviamo oggi è dei vecchi,
ma le conseguenze del loro operato stanno ricadendo inevitabilmente sui giovani
i quali hanno un’unica strada percorribile (se si abbandonano al nichilismo
passivo): starsene “quieti nella loro
insignificanza sociale”. A questo punto sorge spontanea la domanda:
potrebbe essere utile (o – quantomeno – auspicabile) una riconciliazione tra le
generazioni? Sicuramente – perché questo accada – è necessario predisporsi
all’ascolto e dedicarsi alla buona comunicazione. U.G. suggerisce di parlare AI
ragazzi e COI ragazzi invece di parlare DEI ragazzi!
E – infine - la crisi? Esiste davvero? E – se sì – rappresenta la
morte di tutto o soltanto un tramonto da cui qualcosa ancora potrà risorgere?
La seconda parte del libro verte principalmente su una
domanda: i giovani si piangono addosso? Forse qualcuno. Ma di chi è la colpa se
le cose, oggi, vanno così male? Le generazioni precedenti hanno preparato
questo mondo, pertanto c’è da chiedersi anche: cosa riserva il futuro ai
ragazzi? Di sicuro chi non si arrende e si rimbocca le maniche per conquistarsi
un avvenire prospero ha molte più possibilità di riuscita rispetto a chi si
siede e attende fiducioso che accada ciò che gli spetta. Date queste premesse: sono
le persone a fare la storia o è la storia che plasma le persone?
E qui entra in gioco la
definizione di “realtà”. Essa non è univoca, ma
interpretabile e l’interpretazione stessa è suddivisibile in due
macro-categorie: quella collettiva e quella individuale. La prima riguarda ciò
che vede e pensa, appunto, la massa; essa appiattisce il pensiero e annulla il
giudizio critico del singolo individuo. La seconda, invece, è basata sulla
visione e sull’esperienza del singolo. Farsi domande e porsi interrogativi è
essenziale per smascherare quella che ci viene presentata come “realtà
universale”, ma realtà non è.
In questa seconda parte
del libro si parla anche di “passione”. La
passione non è altro che un equilibrato connubio tra rigore intellettuale e
amore per ciò che si studia, si fa, si persegue. Uccidere la passione che anima
i giovani significa precludere a questo Paese, in costante declino, ogni
possibilità di “resurrezione”.
La tensione morale
degli adolescenti non deve assolutamente essere catalogata come UTOPIA, un
sogno da cui tanto un giorno ci si sveglierà perché è così che gli adulti
spengono l’immaginazione dei giovani, limitano la loro voglia di fare e
schiacciano i loro ideali.
Nella terza parte del
libro si torna a parlare di “crisi”. Crisi
intesa come perdita di valori dovuta alla rottura del vincolo di continuità tra
le generazioni. Anche questo tipo di crisi è da considerarsi una forma di nichilismo perché la perdita di valori porta
inevitabilmente ad una perdita di fiducia nei confronti di ciò che ci può
riservare il futuro. Nichilismo come
demotivazione e come senso di vuoto assoluto. Nichilismo
come noia, rassegnazione o – addirittura – odio.
“Guardare
bene in faccia il nichilismo significa abbandonare quelle parole che io considero “parole
della passività” come “speranza”, “augurio”, “auspicio”, che lasciano intendere
che qualcuno provvederà a darci un futuro e a noi non resta che attenderlo Non
è così”.
Per
non cadere nella trappola del nichilismo
Galimberti suggerisce di usare la fantasia e scatenare la forza d’animo.
Si parla di una
società, la nostra, in cui ciò che conta è “essere fighi e apparire”. Si parla di una società in cui “La mia identità
non è data da un’appartenenza a qualcosa, ma solamente dal mio nome e cognome,
ed è in sé perciò un’identità labile” (Maria
Giulia). Una società in cui il
denaro può comprare tutto. Una società basata sulle distrazioni. Una società in
cui ognuno dipende dal giudizio degli altri e cerca l’approvazione della
collettività. Una società in cui, in sostanza, siamo plasmati dal mondo
circostante fino a che non perdiamo completamente la nostra vera identità. E mi
trovo pienamente d’accordo con l’affermazione di U.G. che recita: “Chi si impegna a costruire il proprio futuro, oltre
alla fatica, deve sopportare anche il disprezzo e l’isolamento”. Fare
i propri interessi spesso porta ad
essere in contrasto con gli interessi della collettività e questo pensiero
getta immediatamente le basi per
un’altra tematica affrontata nel libro: è meglio prediligere l’individualismo o il collettivismo?
Si parla dei problemi che affliggono il nostro mondo (indifferenza,
ignoranza, presunzione e cattiveria). A tali problemi va aggiunta
l’esasperazione dell’istinto di sopravvivenza, il quale porta all’atrocità
delle azioni, al soffocamento dell’amore, all’insensibilità e all’indifferenza
di fronte alla morte.
Si parla della globalizzazione e dei suoi effetti. Ci stiamo
addentrando in un universo senza confini in cui non è più necessario uscire di
casa per esplorare Stati e continenti (grazie all’avvento delle nuove
tecnologie). Stiamo creando un mondo unificato, ma – allo stesso tempo –
fortemente diviso; un mondo in cui non c’è rispetto per la diversità.
Nella quarta parte si parla dei cosiddetti “nativi digitali” e ci si interroga sugli effetti
delle nuove tecnologie sulla mente e sul comportamento dei giovani. Si punta
maggiormente l’attenzione sugli effetti negativi, arrivando a constatare che
stanno cambiando il modo di studiare e di apprendere, stanno portando a una
progressiva de-realizzazione nonché alla de-socializzazione e a serie
psicopatologie. Imperversano la solitudine e la paranoia e hanno subito grossi
cambiamenti anche le leggi del mercato. Anche gli esseri umani sono ormai
“merci in pubblica esposizione”, prodotti fruibili. Con l’avvento dei social networks subiamo costantemente
operazioni di chirurgia estetica digitale e virtuale e i danni che ne risultano
sono sia fisici sia mentali.
E a questo punto la
domanda sorge spontanea: esiste davvero la libertà di espressione oppure ci
stiamo ingannando?
Nella quinta parte si parla di istruzione.
Il capitolo esordisce con un interrogativo alquanto spinoso, ma estremamente
stimolante:
“E se la
scuola insegnasse a pensare?”
Emblematiche, a questo
proposito, le parole di Kant: “Non bisogna
insegnare i pensieri, bisogna insegnare
a pensare”.
E’ necessario indurre
nei più piccoli il bisogno di ricerca, il desiderio di scoperta e di conoscenza
perché “i
bambini non sono vasi da riempire, ma menti meravigliose da appassionare!”
(Michela). Platone sosteneva
che “si impara per fascinazione”, ciò
significa che se l’insegnante stesso non è appassionato non è in grado di
trasmettere passione agli studenti. Oggigiorno si pensa solamente alle medie
scolastiche e al programma, utilizzando – come metodi di valutazione – criteri
talmente rigidi e schematici da rasentare l’assurdo.
Dove è finita la
curiosità? Perché il numero dei lettori è calato vertiginosamente? Perché
nemmeno i bambini hanno ancora la capacità di immaginare? Dovremmo mettere un
freno al nozionismo e alla passività dell’apprendimento! La soluzione?
Riscoprire l’EROS!
Nella sesta parte il lettore si trova di fronte al binomio giovani-lavoro.
Galimberti ci dice che “l’attività
lavorativa è diventata l’unico indicatore della riconoscibilità sociale”,
ma “poter
fare ciò che si è scelto e ci gratifica è un gran privilegio”. E i
giovani – purtroppo - non hanno la possibilità di scegliere.
L’alienazione si è
evoluta in una forma più complessa e più deleteria: la de-umanizzazione. Ormai tutto
segue la logica produttiva secondo la quale sono essenziali l’efficacia e
l’efficienza. Sempre e comunque. Coloro che un tempo erano esseri umani, oggi
sono considerati soltanto produttori e consumatori. I gusti che abbiamo non
sono i nostri gusti, ma quelli che ci vengono imposti (anche con metodi
subliminali) dalle pubblicità e dai mercati. Le nostre esigenze non sono
davvero nostre, ma indotte. Ogni cosa deve essere mercificabile e tutto ciò che
non lo è (ad esempio l’arte) va rinnegata, allontanata, disconosciuta.
Nella settima parte si parla d’amore
e di educazione sentimentale.
L’amore romantico (il
sentimento d’amore, per intenderci) sta scomparendo. E anche se l’amore come
sensazione resiste, non si basa più su valori e ideali solidi di affetto.
Dilagano forme di vampirismo energetico-affettivo e assistiamo alla
trasformazione dell’amore in pura e semplice passione momentanea. Il partner
viene scelto su criteri di vantaggi e utilità strumentalizzandone la libertà.
L’amore, così come è concepito oggi, porta al narcisismo oppure – al contrario
– al disprezzo di sé. Tende all’idealizzazione dell’altra persona, la quale
porta – inevitabilmente – alla soppressione della sua “alterità”, della sua
diversità, della sua individualità. La liberalizzazione sessuale ci ha condotti
alla saturazione, alla noia e ad un’inevitabile estinzione del desiderio. Ed è
così che sono nati l’irrigidimento, la svalutazione, la disattenzione e
l’incomprensione all’interno di questo che – un tempo – era un sentimento
bellissimo.
L’ottava parte si occupa dei ruoli.
Nell’età della tecnica
l’identità è data dal ruolo che si riveste? La risposta è: “sì”. La libertà
personale, infatti, si è trasformata – col tempo – in libertà di ruolo.
“La consapevolezza non mi rende diversa. La triste realtà è che
sogno quello che mi viene detto di sognare. […] Rassegnata già prima di
partire. Senza far sentire la mia voce. Ben attenta a non sbagliare mai.
Convinta di non poter cambiare le cose, di non poter essere mai felice, di
continuare a vivere nel compromesso. Alla fine quello che mi resta è solo
amarezza. Sono io stessa una parte di quel mondo che disprezzo”. (Anna)
“E se è vero che non noi, ma gli altri costruiscono la nostra
identità, esponiamoci al mondo per quello che siamo, lasciandoci modificare da
tutti gli incontri, evitando di cercare noi stessi in quella guerra inutile tra
l’io e il suo ideale che ci isola dagli altri, e non ci fa approdare se non in
quella terra desolata e solitaria dove a farci compagnia è solo la nostra
insoddisfazione”. (Umberto Galimberti)
Ma allora come si
raggiunge la felicità?
“La felicità si accende con la passione, ma per durare esige
anche un nostro continuo e costante lavoro”.
“La felicità ci vuole attivi. E’ una felicità che non ci
“capita”, ma che dobbiamo “costruire” a partire dall'insegnamento dell’oracolo di Delfi che dice: “Conosci te stesso”.
Cosa significa tutto
ciò?
Significa che non
dobbiamo far dipendere la nostra felicità, il nostro appagamento, la nostra
realizzazione da qualcun altro, altrimenti non saremo mai veramente padroni di
noi stessi, ma posseduti. La felicità è autorealizzazione indipendentemente da
altri.
E come ci si
autorealizza?
Conoscendo la nostra
virtù, la nostra inclinazione, la nostra vocazione. In poche parole: cerchiamo
ciò per cui siamo nati e quando l’avremo trovato, seguiamo quella strada.
Così come gli altri,
anche l’ottavo capitolo è decisamente molto ricco di contenuti, di temi e di
spunti di riflessione. Si parla, infatti, di Storia:
secondo U.G. siamo stati noi a creare la Storia, “per sentirci autori e soggetti delle
azioni che compiamo in questo mondo”.
Si parla di malattie, di dolore e di razionalizzazione delle emozioni.
Molte malattie derivano dal fatto che non diamo ascolto a noi stessi: né ai
nostri pregi né ai nostri difetti. Galimberti ci invita, dunque, a convivere
con la nostra “zona d’ombra”, conoscendola, mettendoci in pace con essa e facendoci
amicizia. Io aggiungerei “sfruttandola”.
La nona e ultima parte è
dedicata alla religione e alle domande ultime.
Che cos’è la religione? Che cosa è la fede?
Chi o che cosa è Dio? Quale ruolo hanno le parole nella creazione della realtà? Quanto incide il
fenomeno causa- effetto sulle nostre vite? Cos’è
la morte? C’è qualcosa dopo? Cos’è l’anima? E la metafisica?
Secondo Galimberti “sono le idee
che creano la realtà, non la realtà che crea se stessa. Ed è sulle idee che
dovete ragionare”.
Perché la morte ci
angoscia tanto?
“L’angoscia di morte è dire addio all’amore che durante la vita
abbiamo imparato a nutrire per noi stessi”. Ci
trattengono, in questa vita, tanti desideri inespressi e altrettanti sogni mancati,
secondo Galimberti.
Io aggiungerei che si
ha paura della morte perché ci terrorizza l’idea di soffrire e perché, quando
si pensa alla morte, il pensiero corre ai nostri cari: ci mettiamo
inevitabilmente nei panni di coloro a cui vogliamo bene e che ci vogliono bene
e proviamo il dolore che proveranno (o proverebbero) coloro che rimarranno su
questa Terra dopo la nostra dipartita.
Come avrete notato, “La parola ai giovani” è un libro denso
e ricchissimo. E’ un libro che si inserisce perfettamente nel contesto sociale
odierno perché affronta temi di attualità in maniera molto lucida. E anche se
l’ago della bilancia, alla fine, pende dalla parte delle nuove generazioni,
Galimberti ci offre una criticità ben strutturata delle idee sviscerate
all’interno del libro.
E’ un testo adatto sia
ai giovani sia ai meno giovani. Ne consiglio vivamente la lettura.