Ogni cosa che accade nella mia vita è una preparazione per ciò che verrà in seguito. Piccole coincidenze dall’impatto enorme sulla mia percezione del destino che mi attende. Qualche mese fa, ad esempio, è cominciata una concatenazione di eventi molto interessante i cui sviluppi si sono manifestati più apertamente il 28 di Marzo. Tutto è iniziato in libreria, quando tra gli scaffali della sezione “Poesia” mi sono imbattuta in un libro di haiku che mi ha fatta avvicinare al genere, genere che ho approfondito – però – attraverso un altro libro, che parla dello Zen e di alcune caratteristiche della cultura nipponica.
La trama ha cominciato a infittirsi con la lettura dell’ultimo libro di Amélie Nothomb, “L’impossibile ritorno” (di cui trovate una recensione sul mio neonato blog letterario: La Galassia delle Storie[1]), testo dai tratti squisitamente meta-letterari che prende in esame – tra i tanti libri citati – “Il padiglione d’oro” di Yukio Mishima. Incuriosita dalla trama di quel romanzo (ispirata a una storia vera) – di un uomo che, ossessionato dalla bellezza, appicca il fuoco al famoso tempio giapponese – l’ho cercato in svariate librerie, senza successo. Poiché a casa ho altri testi di Mishima ho sfilato da uno scaffale “La via del guerriero” e ho cominciato a studiarne il contenuto con una strana attenzione, come se sapessi di “doverlo” fare.
Domenica, finalmente, ho trovato “Il padiglione d’oro” e ho cominciato immediatamente a leggerlo e posso già dirlo: Mishima è un autore affascinante e illuminante!
A questa scoperta si deve aggiungere il fatto che, ultimamente, Instagram mi sta consigliando profili che parlano di haiku[2] e mi sta proponendo la visione di diversi filmati sul Kintsugi, ovvero l’arte giapponese di riparare le ceramiche rotte con l’ausilio dell’oro. Pensavo fosse perché la mia vita in questi anni è stata frantumata in tanti piccoli pezzi per via di lutti, malattie e disgrazie susseguitisi senza sosta ed io sono in cerca di un modo per rimettere insieme i pezzi. Ma non sapevo che questa era solo una delle motivazioni per cui l’Universo ha deciso di inviarmi certi segnali…
Il 18 Marzo, infatti, mi è arrivata una e-mail che conteneva un invito a partecipare all’anteprima di una mostra intitolata “KIN- Sfumature d’oro nelle arti giapponesi”
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Kanji - ideogramma - KIN |
e fatti che sembravano scollegati tra loro, coincidenze e sincronicità hanno iniziato a prendere una forma definita rivelando un piano più ampio. Il giorno dell’anteprima, ad esempio, la curatrice della mostra, Roberta Vergagni[3], ha citato proprio – indovinate un po’ – “Il padiglione d’oro” di Mishima, poiché un’immagine del tempio di cui parlano Mishima e Nothomb nei loro libri è appesa al soffitto del Castello della Rovere[4]!
“Il romanzo di Mishima si presenta come una grande parabola giocata
sugli insegnamenti del buddhismo zen: perché distruggere il tempio altro non è
che l’unico modo per salvaguardarne la bellezza suprema, per liberarlo dalla
costrizione della materia e impedire che il tempo lo corrompa”[5]. Ecco dunque un’altra iperbole interessante:
dopo l’esaltazione delle “ferite”, la distruzione della bellezza. La prima, per
rendere l’imperfezione il fattore principale della perfezione; la seconda, per
rendere eterno qualcosa di effimero e passeggero come la bellezza.
E, com’è facilmente intuibile, la mostra in questione espone bellissimi haiku e splendide ceramiche riasseblate con la tecnica del kintsugi. Ed ecco che tutti i pezzi del puzzle sono andati a posto!
Il filo conduttore di tutta la mostra è l’oro, e lo si nota già a partire dal titolo. Ogni anno, infatti, (dal 1995) i giapponesi scelgono il kanji (ovvero l’ideogramma) più rappresentativo dell’anno appena trascorso, che viene annunciato nel mese di Dicembre in una solenne cerimonia presso il Kiyomizudera di Kyoto. Il carattere vincitore della votazione nazionale dello scorso anno è proprio Kin[6] – Oro – a voler sottolineare i brillanti successi conseguiti dagli atleti giapponesi nei Giochi Olimpici e Paralimpici del 2024.
Perché l’oro, nel Paese del Sol Levante, non è solo un metallo prezioso, è l’ottavo colore dell’arcobaleno, è pura luce!
“L’oro è in grado di impreziosire la palette cromatica di tessuti e ceramiche, come luce dipinta”.[7]
“Metallo prezioso, sacro e divino, l’oro è universalmente considerato il simbolo della perfezione e della ricchezza tanto materiale quanto spirituale”.[8] L’oro è incorruttibile, luminoso – infatti in molte culture rappresenta il Sole - e resistente e spesso è anche simbolo di immortalità, tanto è vero che mi è quasi impossibile non pensare alla maschera funeraria di Tutankhamon ogni volta che penso a questo metallo. La fama del faraone è arrivata fino a noi, lontani da lui nel tempo di 3000 anni e il suo corredo funerario è senz’altro uno dei maggiori responsabili di questa forma di immortalità! L’oro è tanto bello da essere perfetto ed è proprio la sua perfezione che rende perfetta l’imperfezione della rottura della ceramica riparata col kintsugi.
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Vaso sabbiato con gru in volo e nuvole dorate. Ceramica in stile Kutani, pigmenti e foglia d'oro. Giappone. Periodo Shōwa, seconda metà XX secolo. Collezione privata. |
Anche l’argento trova il proprio spazio all’interno dell'arte giapponese. Se l'oro ricorda il Sole, l'argento ricorda la Luna, il candore e la purezza, dunque non credo sia un caso il fatto che in mostra troviamo un kakemono[9]
dalle fattezze astratte che rappresenta un manufatto assai prezioso, per via della presenza sia della foglia d’oro che di quella d’argento, ma anche per il tipo di carta su cui è stato dipinto. La carta Sekishu Washi che ospita il dipinto in questione, infatti, è realizzata secondo tecniche e tradizioni antichissime della prefettura di Shimane. Anche nota come Sekishu-banshi (“mezzi fogli di Sekishu”) per il taglio della carta, è registrata come patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO. Ha una consistenza fine ed elegante, è elastica e morbida al tatto ed è leggera ma molto resistente, così resistente che in passato i mercanti di Osaka la usavano per i loro preziosi libri contabili, non temendo di gettarli nell’acqua per salvarli ogniqualvolta scoppiava un incendio.
Un’opera d’arte su un’opera d’arte, insomma.
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Shigeki Matsuda (terza generazione di artigiani Matsuda). Kanazawa wagasa. Carta e bambù. Kanazawa, prefettura di Ishikawa, Giappone. 2025. Collezione privata. |
Visitando la mostra vi accorgerete che niente è solo quel che sembra, niente è solo ciò che appare a una prima occhiata. Il tema stesso, ad esempio, è declinato in diversi ambiti e in modi assai variegati. L’oro è presentato innanzitutto sotto molteplici forme: in foglie, in scaglie, in polvere. E lo vediamo usato sugli abiti, sulle ceramiche, sugli accessori del guerriero, su un bellissimo paravento[10] byōbu a sei ante,
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Paravento byōbu a sei ante. |
su oggetti in legno, su splendidi dipinti e non solo. La foglia d’oro (kinpaku) di Kanazawa (‘palude dorata’ o ‘pozzo d’oro’) è oro a 24k, battuto in lamine sottilissime (lo spessore è di alcuni micron soltanto). Kanazawa produce circa il 99% di queste foglie e la tecnica utilizzata è patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO.
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L'oro in foglie, in scaglie e in polvere. |
Il kinpaku è
usato nelle arti e nei mestieri tradizionali giapponesi come elemento
decorativo e lussuoso, nell’architettura e negli interni conferisce opulenza e
spiritualità. È impiegato nei cosmetici per le sue proprietà benefiche e,
poiché è commestibile, è utilizzato perfino come guarnizione di piatti speciali
e gelati. La vetrina che lo contiene nelle tre forme elencate poc’anzi ne
preserva l’integrità – il solo respirarci su lo frantumerebbe immediatamente! –
e permette di godere della sua lucentezza.
Troviamo l’oro negli haiku (e sugli haiku) della maestra calligrafa Kazuko Hiraoka e nelle ceramiche riparate con la tecnica del kintsugi dalla maestra Aiko Zushi. C’è oro nella selezione di stampe di incisori moderni e contemporanei (xilografie ukiyo-e[11]).
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Kazutoshi Sugiura. Iris n. 154 n. 43/55. Serigrafia su foglia d'oro, 2003. Collezione privata. |
C’è oro nella litografia di Takashi Murakami – “The Golden Age: Hokkyo Takashi” del 2016 – fondatore del movimento Superflat giapponese, considerato il più famoso artista contemporaneo nipponico. Nella sua opera elementi iconici come teschi e fiori sorridenti, combinati con lo sfondo dorato, creano un amalgama fatto di tradizionale pittura artistica di Edo e moderna Pop Art. C’è oro sui kakemono, sui kimono[12],
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Retro del kimono nuziale hiki-furisode con pino, fiori e nuvole dorate. |
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Fronte del kimono nuziale hiki-furisode con pino, fiori e nuvole dorate. Seta dipinta e foglia d'oro. Giappone. Periodo Shōwa, 1950-1980. Collezione privata. |
sui tessuti[13], sugli haori appesi ai soffitti,
sugli oggetti laccati,
La dedizione dimostrata da questi guerrieri alle virtù militari finì per fondare un codice di comportamento estremamente raffinato: il Bushido. Non è un caso che tutti gli altri ordini sociali considerarono i samurai come la massima espressione dei più autentici valori nobiliari nipponici e che, secondo gli esperti, essi costituirono la classe guerriera più perfezionata nella storia del mondo.
Il simbolo del loro status fu il diritto di indossare la spada, tanto che, con la legge del 1876 che vietava di portarla a chi non appartenesse al nuovo esercito imperiale, si può dire finito l’ordine dei samurai.
Musashi Miyamoto scrisse che «Per dominare l’arte della spada bisogna prima addestrare lo spirito»: da sempre, in Giappone, la spada è legata allo spirito. È uno strumento di vita e di morte, di forza, di onore, di virtù, è uno dei tre simboli della religione scintoista e dell’imperatore e anche emblema della natura divina.
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Guardie di spada del periodo Edo, XIX secolo: una in ferro lavorato e ageminato in oro, l'altra in ferro lavorato e dorato. Collezione privata. |
Kendo, che alla lettera significa la ‘via della spada’, è l’arte marziale più antica e, di certo, una delle più amate. Il suo ideale fondante è quello dell’imperturbabilità. Per essere invincibili è indispensabile un atteggiamento composto nei confronti della morte. Il kendo trae dal confucianesimo il rispetto per la correttezza e per l’etichetta, mentre deriva dallo Zen le tecniche di meditazione e il superamento della morte”.[15] “Zen vuol dire semplicemente ‘meditazione’ e designa una scuola buddhista nata in Cina e sviluppatasi più tardi in Giappone. Il termine giapponese zen arriva però da lontano, dal cinese ch’an, che a sua volta viene dal pali jhana che corrisponde al sanscrito dhyana. E con il sanscrito siamo giunti in India, patria del Buddha. Perché il buddhismo ebbe qui la sua culla ma poi conobbe un’ampia diffusione missionaria fino all’Estremo Oriente.
Lo Zen invita a svuotarci di tutto ciò che ci occupa: spazio, tempo, affermazione, negazione, bene e male. Per farlo, viene raccomandata la meditazione che condurrà all’illuminazione, che in giapponese è detta satori, il risveglio improvviso che supera la mente e le sue dinamiche, quell’esperienza inesprimibile di conseguimento del nirvana, lo stato indefinibile oltre la vita e la morte a cui ogni essere aspira”.[16]
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Contenitore porta sigillo o erbe medicinali (inrō) con pruno fiorito. Legno laccato con doratura a polveri metalliche spruzzate nashiji. Giappone, periodo Edo, XIX secolo. Collezione privata. |
Negli ultimi tempi, come ho già accennato, mi sono imbattuta spesso in una delle manifestazioni artistiche che coniuga scrittura, Zen, Natura, poesia, brevità ed essenza, ovvero lo haiku. Lo haiku è “la forma più breve di poesia che si possa trovare in letteratura a livello mondiale. Consiste di diciassette sillabe, nelle quali vengono condensate alcune delle emozioni più sublimi che gli esseri umani siano in grado di provare”.[17] Lo haiku è, per dirla in poche parole, “una codificazione di una forma poetica”[18] in grado di cogliere – nella sua brevità – l’essenza di un attimo o perfino dell’eternità. In uno haiku può risiedere un’intera stagione, come nel caso di KIN.
Recentemente ho letto un aneddoto molto interessante sull’argomento:
“Chiyo (1703-1775), la poetessa di Kaga, ansiosa di perfezionare la sua arte, si recò in visita da un famoso maestro di haiku dell’epoca, che era di passaggio nella sua città. Chiyo era già nota fra i suoi amici come una pregevole autrice di haiku, ma non si accontentava più di una fama esclusivamente locale; non si trattava però solo di questo, altre questioni inerenti alla sua attività creativa la spingevano a conoscere il poeta viandante. Voleva sapere come comporre un autentico haiku, uno haiku che fosse davvero degno di nota, uno haiku in cui l’ispirazione poetica fosse reale. Il maestro le diede un tema sul quale scrivere, ne scelse uno decisamente convenzionale: il cuculo, uno degli uccelli preferiti dagli autori giapponesi di haiku e di waka[19]. Fra le principali caratteristiche del cuculo vi è quella di cantare in volo di notte: per questa ragione è molto difficile per i poeti sentirlo cantare o vederlo volare. Un waka sul cuculo recita:
Sentendo cantare il cuculo,
alzai lo sguardo nella direzione
da cui veniva il suono:
che cosa vidi?
Solo la pallida luna nel cielo dell’alba.
Chiyo scrisse parecchi haiku sul tema che il maestro le aveva assegnato, ma costui li scartò tutti, giudicandoli meramente concettuali e non fedeli alla condizione emotiva. Chiyo non sapeva cosa dire né come esprimersi in maniera più autentica. Una notte rifletté sul suo tema con tale intensità da non accorgersi che stava già albeggiando. Dietro i paraventi di carta si intravedeva una luce fioca, quando il seguente haiku si formò nella sua mente:
Chiamo «cuculo», «cuculo»
tutta la notte.
Poi finalmente l’alba!
Quando la poesia fu mostrata al maestro, questi immediatamente riconobbe che si trattava di uno dei migliori haiku mai composti sul tema del cuculo, in quanto comunicava con esattezza le emozioni autentiche dell’autrice sullo hototogisu, oltre a essere privo di modelli artificiali o predisposti intellettualmente al fine di ottenere qualche effetto. Vale a dire che non c’era alcun io, da parte dell’autrice, che mirava a essere celebrato. Lo haiku, come lo Zen, detesta l’egoismo in ogni sua manifestazione. Il prodotto artistico deve essere completamente privo di artifici e di qualsiasi secondo fine. Non ci deve essere mediazione fra l’ispirazione artistica e la mente dalla quale proviene. L’autore deve essere quindi uno strumento del tutto passivo, cosicché possa dare piena espressione all’ispirazione, […]”.[20]
“Le sensazioni non vogliono essere trattate concettualmente e uno haiku non è il prodotto dell’intelletto. Da qui la sua brevità e la sua pregnanza”. [21]
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Contenitore a scomparti sovrapposti per picnic, con gru e nuvole, in legno laccato e dorato maki-e e tsukegaki. Giappone, periodo Edo, XIX secolo. Collezione privata. |
Uno haiku che rende molto bene i concetti appena espressi è quello di Bashō (1643-1694), il fondatore della scuola moderna di questo genere poetico:
“Il vecchio stagno, ah!
Una rana ci salta dentro:
il suono dell’acqua!”
Vi racconto tutto questo perché possiate inserirvi con più facilità nel contesto della mostra che prende in esame anche due splendidi haiku:
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Haiku di Hashimoto Eiji con calligrafia di Kazuko Hiraoka e haiku di Kimura Kazashi con calligrafia di Kazuko Hiraoka. |
“Luna primaverile-
L’obi sparge oro
sul porta kimono”
(Hashimoto Eiji)
Calligrafia di Kazuko Hiraoka
“Sorge la luna
tinta d’oro-
Onde impetuose di primavera”
(Kimura Kazashi)
Calligrafia di Kazuko Hiraoka
I temi di questi haiku sono l’oro e la stagione primaverile, ma non possiamo trascurare la forma poetica stessa, la quale – per le sue caratteristiche di brevità ed espressione delle pure emozioni – si configura come un perfetto esercizio Zen. Mi spiego meglio: “Lo Zen si prefigge di rispettare la natura, di amarla, di condividerne la vita”.[22]
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Kimono hōmongi con fiori di pruno e ventagli. Seta con foglia d'oro kirikane e decorazioni dipinte. Giappone. Periodo Shōwa, seconda metà del XX secolo. Collezione privata. |
Scrivere – così come praticare l’arte del kintsugi, di cui vi parlerò tra poco perché è una delle declinazioni dorate attraverso cui la mostra si presenta - è già di per sé una forma di meditazione, accarezzare la carta col pennello, far comparire su di essa, dolcemente, complessi caratteri grazie a un movimento morbido, fluido e preciso della mano, esaltare la bellezza della Natura attraverso la parola scritta; scrivere uno haiku significa fare un complesso esercizio di meditazione in quanto l’espressione segue l’illuminazione che, a sua volta, deriva dalla contemplazione. Nei due haiku qui sopra, l’oro di cui si parla è richiamato e, allo stesso tempo, richiama l’oro con cui è impreziosita la carta di supporto. Ottima scelta della curatrice quella di assecondare l’arrivo della stagione primaverile con haiku a tema. I giapponesi stessi cambiano kakemono e oggetti d’arte a seconda del periodo dell'anno in cui si trovano. Inoltre, quasi per darci una sorta di segno beneaugurante, il giorno dell’inaugurazione della mostra è stato baciato da un sole caldo e splendente…
“Il kintsugi[23] è una tecnica tradizionale giapponese di riparazione di vasi e ciotole di terracotta nata circa diecimila anni fa. Il materiale utilizzato è la lacca urushi, ricavata dalla linfa raccolta dal tronco dell’omonima pianta.
Nel kintsugi (kin = ‘oro’ + tsugi = ‘riparare’, ‘giungere’, ‘ricucire’) non si cerca di cancellare completamente le crepe ma, al contrario, la rifinitura in oro, argento o vernice naturale colorata, permette di accoglierle, accettarle e valorizzarle come un nuovo tratto distintivo dell’oggetto. Questo non è solo riportato alla sua forma originale, ma è di nuovo pronto per l’uso quotidiano, ad esempio per mangiare o per bere.
Fin dai tempi antichi, i giapponesi considerano le crepe e le scheggiature di una ciotola come peculiarità e tratti distintivi di quell’oggetto e le contemplano come se costituissero un ‘paesaggio’. In una tazza puoi percepire un panorama o perfino l’universo.
Ciò che ha forma, un giorno si romperà. Eppure, noi desideriamo preservare a ogni costo i ricordi e il tempo racchiusi nei nostri oggetti più cari. Con il kintsugi non si ripara solo la forma della ceramica, ma anche la sua memoria.
La bellezza del kintsugi consiste proprio nella possibilità di recuperare i ricordi e le memorie che ci legano a un oggetto, per esempio la nostra tazza preferita, e al contempo poter condividere nuovo tempo con esso”.[24]
Raccogliere i cocci per poi ricomporre ciò che si è rotto. Già, non (solo) riparare, ma ricomporre. “Tra le due cose c’è una grande differenza. La riparazione è un atto immediato, di fortuna, volto semplicemente a recuperare la funzionalità di ciò che si è rotto. Quando ricomponiamo qualcosa, invece, mettiamo in campo tutto il nostro amore e la nostra conoscenza per creare un’opera nuova, più forte e più bella della precedente”.[25]
Le fratture non vengono nascoste, bensì “curate”, esaltate e arricchite con pasta d’oro o d’argento. Fragilità e volontà di ricominciare e resistere coesistono in una forma d’arte antica e poetica.
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Aiko Zushi. Oro paffuto. Kintsugi su tazza da tè matcha, lacca urushi, oro. 2020. KINTSUGI atelier - tsugi nuova. |
Una cosa che mi ha colpita quando ho visitato la mostra KIN è l’aver trovato una duplice atmosfera: concreta e astratta, metaforica e letterale, fisica ed effimera. Ad esempio, uno dei primi oggetti esposti è una moneta[26] da 2 Bu composta da una lega di oro e argento (anche qui c’è un bel dualismo, in effetti) che è rimasta in circolazione solamente dal 1868 al 1869, vale a dire nei primi due anni del periodo Meiji. Ebbene, si tratta di una moneta “spartiacque” poiché nel Gennaio del 1868, con un colpo di Stato, gli Han sostituirono le truppe dei Tokugawa a Kyoto, e il 3 Gennaio fu annunciata la Restaurazione Meiji che restituì il potere all’imperatore dopo secoli di dominio degli shōgun. Da lì in poi, per il Giappone cambiarono molte cose: ci furono scelte di modernizzazione e di industrializzazione che portarono il Paese a diventare una potenza economica e militare.
Poi c’è il kintsugi, che rappresenta sia la caducità della vita sia l’immortalità, sia la fragilità sia la robustezza, sia la rottura sia la riparazione, sia la morte sia la rinascita, sia la ferita sia la cura. Il concetto stesso di kintsugi, infatti, può essere applicato sia ai corpi fisici che a quelli immateriali, come le anime ferite. Inoltre rappresenta sia il passato (i ricordi, le memorie) sia il futuro (la nuova vita che gli oggetti riparati o le anime curate vivranno da lì in avanti).
E, in tutto questo, l’oro è protagonista. L’oro che, così come la luce, sembra avere una doppia natura: è sia un metallo sia una fonte di bellezza scintillante. L’oro sembra brillare di luce propria ma, applicato su oggetti, stoffe, stampe o altro, è in grado di ‘trasferire’ e amplificare la sua brillantezza all’oggetto sul quale è stato applicato.
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Aiko Zushi. Via Lattea. Kintsugi su ciotola da tè matcha giapponese. Lacca urushi, oro, madreperla. 2020. KINTSUGI atelier - tsugi nuova. |
C’è l’attaccamento alle cose materiali e la “filosofia” del distacco Zen; c’è il dolore per la rottura e la serenità per l’atto di cura; c’è la pratica del porre fine e quella del ricominciare.
C’è l’abito nuziale: simbolo della trasformazione del singolo individuo nella metà di una coppia.
C’è l’antico in armonia col moderno e col contemporaneo. Tra il porta-pillole/porta-erbe tipico dei samurai, le spade tradizionali, le lacche e tutti gli oggetti e i manufatti antichi si infiltrano infatti oggetti bizzarri come il grande cuscino a forma di fiore, simbolo iconico e distintivo dell’arte di Takashi Murakami che, sebbene a una prima occhiata possa sembrare un oggetto frivolo, nasconde in realtà un messaggio profondo: rappresenta infatti il trauma e le emozioni piò oscure che i giapponesi provano ancora oggi a causa dei bombardamenti subiti a Hiroshima e Nagasaki nel 1945.
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Una delle opere di Takashi Murakami, artista noto per i suoi iconici motivi a fiori sorridenti e multicolori. |
C’è l’imperfezione trasformata in perfezione.
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Aiko Zushi. My dress - 1. Kintsugi su ceramica giapponese, lacca urushi, oro, frammenti di vetro. 2025. KINTSUGI atelier - tsugi nuova. |
So che questo articolo è lunghissimo e vi ringrazio di cuore se siete arrivati fin qui, ma c’è ancora una riflessione personale che voglio condividere con voi. Non so se sia corretta, ma è emersa facendo ricerche per redigere questo post e mi sembrava uno spunto interessante per chiudere in bellezza. Consultando “Lo Zen e la cultura giapponese” di Suzuki mi è capitato sotto gli occhi il titolo di un altro libro, un libro piccino ma illuminante che ho letto qualche anno fa, ossia “Lo Zen e il tiro con l’arco” di Eugen Herrigel. E allora ho pensato che se il tiro con l’arco può essere considerato uno sport Zen, se scrivere haiku può essere considerata una forma di poesia Zen e se la scrittura stessa può essere vista come una pratica Zen, allora anche il kintsugi può essere Zen. In fondo, lo Zen è una forma di meditazione… Mi potreste dire che la meditazione richiede il distacco, ma credo che il punto sia proprio questo: sia l’arte della scrittura, sia la poesia haiku, sia il tiro con l’arco partono da una base emotiva dalla quale pian piano ci si distacca, esattamente come accade per il kintsugi. Per ricostruire un piatto o una ciotola che ci erano cari è necessario provare delle emozioni, qualcosa che ci dia la spinta per ricostruire un legame – tra i vari cocci, e tra noi e l’oggetto rotto. L’arte della ricostruzione, in sé, invece, arriva dopo: decidere in che modo ricostruire e mettere in pratica l’intento richiede “ascolto”, osservazione, contemplazione e tecniche che saranno la vera meditazione. Dopo aver contemplato la ciotola, infatti, chi la ripara diventa la ciotola, prende le distanze dal proprio io, svuota la mente, si affranca da se stesso. Così come l’arciere si fonde col proprio arco e diventa sia arco che freccia, anche l’artista diventa una cosa sola con gli strumenti di lavoro. E poi, una volta terminata l’opera, il distacco sarà interiorizzato e trasceso, in quanto tra le mani terremo un vecchio oggetto che amavamo e contemporaneamente un nuovo oggetto di cui la storia è ancora tutta da scrivere. Una specie di ciotola di Schrödinger…
Al Castello della Rovere di Vinovo, dal 29 Marzo si respira un’atmosfera dorata, si percepisce una sorta di magia, si prova un senso di incantamento e di sacralità del quotidiano. Tanta bellezza vi attende. Tante storie, curiosità, aneddoti… In questo articolo ho inserito poche foto rispetto a tutte quelle che ho scattato, per non spoilerarvi tutta la meraviglia della mostra, perché vi assicuro che ci sono veramente tante chicche! Un suggerimento: guardate anche in alto... E – se potete – vi consiglio di seguire una delle visite guidate dalla Curatrice della mostra: Roberta Vergagni è assai preparata e competente e saprà sicuramente conquistare la vostra attenzione con la sua gentilezza, la sua umanità e la sua grande passione.
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La curatrice della mostra "KIN. Sfumature d'oro nelle arti giapponesi", Roberta Vergagni. |
Perciò, se avete visto i cartelli pubblicitari di KIN in giro per Torino (per esempio quelli esposti in piazza Statuto), non ignorateli; se vi siete imbattuti in questo articolo e vi sembra un caso, non ignoratelo; se qualcosa intorno a voi (o dentro di voi) vi chiama, ascoltate il messaggio: forse l’Universo vi vuole parlare!
NOTE E INFO AGGIUNTIVE:
Castello della Rovere, Vinovo (TO).
La mostra è stata realizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Vinovo (sotto l’attenta supervisione dell’Assessora alla Cultura, Chiara Vittone), in collaborazione con Associazione I.N.T.K. – Associazione Italiana per la spada giapponese, Associazione Interculturale Italia-Giappone Sakura di Torino. Con il patrocinio del Consolato Generale del Giappone a Milano.
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Casyello della Rovere, Vinovo (TO). |
Apertura al pubblico: da Sabato 29 Marzo all’8 Giugno 2025, tutti i fine settimana: il Sabato dalle 15 alle 18:30; la Domenica dalle 10:30 alle 12:30 e dalle 15 alle 18:30. Ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura.
Ingresso: intero 7 euro; ridotto 5 euro (possessori Abbonamento Musei, over 65, gruppi minimo 10 persone, adulti partecipanti ai laboratori per famiglie); gratuito (minori di 18 anni, persone disabili certificate, comitive scolastiche, giornalisti muniti di tesserino).
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Castello della Rovere, Vinovo (TO). |
Visite guidate gratuite con la curatrice Roberta Vergagni: Domenica 13 Aprile, Sabato 26 Aprile, Sabato 10 Maggio, Sabato 24 Maggio e Sabato 7 Giugno, alle 16.
La mostra resterà aperta anche nelle giornate festive di Lunedì 21 e Venerdì 25 Aprile; Giovedì 1° Maggio; Lunedì 2 Giugno.
Sono in programma tre laboratori. Due gratuiti per bambini: Sabato 10 Maggio, alle 16:30, manga con Haider Bucar; Sabato 25 Maggio, alle 16:30, letture con kamishibai con Eva Gomiero.
E poi, una chicca:
Sabato 5 Aprile, alle ore 15:30, nell’ambito della mostra “KIN. Sfumature d’oro nelle arti giapponesi”, si terrà al Castello della Rovere di Vinovo un workshop di kintsugi, la tecnica tradizionale di riparare le ceramiche rotte o danneggiate con la polvere d’oro, ridando loro una nuova vita!
A condurre il laboratorio sarà la maestra Aiko Zushi.
Attraverso un seminario con attività pratiche, i partecipanti potranno familiarizzare con la lacca urushi, il materiale fondamentale usato in questo tipo di tecnica, e sperimenteranno l’ultima fase del processo di restauro, ovvero la finitura con polvere d’oro (maki-e).
Le materie prime e il piatto di ceramica utilizzati arrivano direttamente dal Giappone.
Costo di partecipazione: 50 euro
Per info e iscrizioni:
manifestazioni@comune.vinovo.to.it
Tel.: 011.9620413
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Castello della Rovere, Vinovo (TO). |
BIBLIOGRAFIA
· Daisetz T. Suzuki, “Lo Zen e la cultura giapponese”, Adelphi.
· Yukio Mishima, “Il padiglione d’oro”, Feltrinelli.
· Yukio Mishima, “La Via del guerriero”, Feltrinelli.
· Corinne Morel, “Dizionario dei simboli, dei miti e delle credenze”, De Vecchi.
· “Bushido. La Via del guerriero”, Feltrinelli.
· Eugen Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’arco”, Adelphi.Tomás Navarro, “Kintsukuroi. L’arte giapponese di curare le ferite dell’anima”, Giunti.
· Amélie Nothomb, “L’impossibile ritorno”, Voland.
[1] Link all’articolo:
https://lagalassiadellestorie.blogspot.com/2025/03/limpossibile-ritorno.html#more
[2] haikai o haiku: forma poetica giapponese di sole 17 sillabe sullo schema 5-7-5, derivata dal renga (poesia a catena). Fu elevata a forma d’arte da Matsuo Bashō (1644-1694).
[3] Roberta Vergagni: curatrice e yamatologa, laureata in Lingue e culture dell’Asia e dell’Africa per la comunicazione internazionale, ha approfondito gli studi in Giappone. Consulente per il MAO, collabora con musei piemontesi che conservano opere nipponiche, è traduttrice per A. Vallardi Editore e insegna lingua giapponese, coltivando una passione ormai ventennale per questo Paese.
[4] Sede della mostra in oggetto.
[5] Yukio Mishima, “Il padiglione d’oro”, Feltrinelli.
[6] ‘Kin’ è ‘oro’, ma se leggiamo l’ideogramma pronunciandolo ‘okane’, il suo significato sarà ‘denaro’: più prezioso di così…
[7] Dalla didascalia della mostra.
[8] Corinne Morel, “Dizionario dei simboli, dei miti e delle credenze”, De Vecchi, p. 621
[9] Se volete approfondire l’argomento ‘kakemono’, potete leggere uno degli articoli che scrissi in proposito, tempo fa. Qui di seguito, il link:
https://manumelaracconti.blogspot.com/2021/11/kakemono-cinque-secoli-di-pittura.html
[10] Si tratta di uno spettacolare paravento del ‘700, il cui soggetto principale è la fonte del saké, circondata dai Shōjō, ovvero creature sovrannaturali dai capelli rossi, strettamente collegate alle grandi bevute. Il tutto, immerso in un’atmosfera primaverile resa onirica dalle foglie e dalle spruzzate d’oro che impreziosiscono le nuvole. Accanto al paravento si trova poi una boccetta di saké decorata anch’essa con l’oro. Un saké da bere nelle grandi occasioni!
[11] ukiyo-e: letteralmente “dipinti del mondo fluttuante”. Il termine comprende sia le stampe su matrici in legno sia i dipinti. Gli ukiyoe prosperarono dal 1680 fino alla metà del Novecento. I soggetti principali ritraggono il mondo dei quartieri di piacere e del teatro kabuki, bellezze femminili, vedute di Edo (Tōkyō) e del monte Fuji.
[12] In mostra c’è perfino un bellissimo hiki furisode, ovvero uno dei tre tipi principali di kimono da sposa. Si tratta di un kimono coloratissimo, a maniche lunghe e privo dell’uchikake (sopra kimono); un modello usato soprattutto per le cerimonie meno formali in quanto più pratico e comodo. Il colore rosso che lo domina è ritenuto in grado di allontanare il male, le sfortune e le malattie, perciò è il colore più comune per i kimono nuziali, insieme al bianco e al nero.
Tra i motivi benaugurali preferiti vi è quello del pino: oltre ad essere augurio di lunga vita, è simbolo di felicità coniugale e fertilità, in quanto i suoi aghi crescono a coppie.
Gli altri due tipi di kimono da sposa tradizionali sono: lo shiromuku - interamente bianco e indossato con l’uchikake durante la cerimonia shintoista - e l’iro-uchikake, indossato durante il ricevimento, che è invece colorato e decorato con motivi benauguranti.
[13] “Sui tessuti, il kinran si ottiene applicando la foglia d’oro alla carta washi e poi tagliandola in sottilissime striscioline, che possono essere applicate direttamente o usate per avvolgere un filo di seta. Il broccato d’oro Nishijin kinran, realizzato nel quartiere Nishijin di Kyoto, è particolarmente apprezzato per la sua alta qualità ed espressività.
Nella tecnica di colorazione con l’oro su kimono chiamata kindami, un nastro adesivo speciale viene posizionato sopra il tessuto e le aree su cui verrà applicata la colorazione dorata sono ritagliate con un coltellino, cosparse prima di colle specifiche a seconda dell’effetto dorato che si vuole ottenere e infine della foglia o della polvere d’oro, a creare rispettivamente superfici lisce o granulose.
All’interno della cospicua produzione di ceramiche giapponesi, gli stili di Satsuma e Kutani si distinguono per l’utilizzo dell’oro, dipinto o applicato come lamina.
Dal XIX secolo, sulle ceramiche Satsuma fioriscono i colori vivaci, la tecnica meticolosa e la pittura ricchissima di dettagli, con decorazioni in broccio impreziosite dalla doratura dipinta, kin-nishikide. All’inizio del XX secolo si aggiunge l’uso dell’oro liquido suikin.
La colorata ceramica Kutani è spesso impreziosita da tocchi d’oro. Nel XIX secolo la tecnica di pittura dorata Kinran-de sulle ceramiche Kutani incontra il favore del pubblico durante l’Esposizione Universale di Vienna del 1873”. [Dalla didascalia della mostra]
[14] La spada giapponese utilizza due tipi di montature: la shirasaya (‘fodero bianco’) in legno di magnolia senza decorazioni è il fodero in cui la lama ‘nuda’ sta a riposo. Il termine koshirae si riferisce invece alla montatura ornata della spada quando la lama assemblata con tutti gli altri elementi è ‘indossata’ dal samurai. Il koshirae è realizzato con decorazioni, colori e tecniche che incontrano il gusto personale del proprietario. Tra i motivi decorativi più richiesti vi sono gli emblemi familiari (man o ka-man), che, oltre ad essere elementi estetici, permettono di identificare immediatamente il clan del samurai.
Il koshirae presente in mostra è attribuito a dono di nozze.
[Dalla didascalia in mostra]
[15] pp. 39-40, “Bushido. La Via del guerriero”, Feltrinelli.
[16] p. 43, “Bushido. La Via del guerriero”, Feltrinelli.
[17] Daisetz T. Suzuki, “Lo Zen e la cultura giapponese”, Adelphi, p. 191
[18] Daisetz T. Suzuki, “Lo Zen e la cultura giapponese”, Adelphi, p. 36
[19] Un waka o uta consiste di trentun sillabe (5+7+5+7+7) ed è più lungo di uno haiku (che ne ha diciassette: 5+7+5). Di conseguenza il poeta può introdurvi un numero maggiore di oggetti o riflessioni. Letteralmente significa “poesia giapponese”. In senso lato tutta la poesia giapponese per differenziarla da quella scritta in cinese. In senso stretto, invece, come già detto, la poesia di 31 sillabe sullo schema 5-7-5-7-7.
[20] Daisetz T. Suzuki, “Lo Zen e la cultura giapponese”, Adelphi, pp. 188-189
[21] Daisetz T. Suzuki, “Lo Zen e la cultura giapponese”, Adelphi, p. 191
[22] Daisetz T. Suzuki, “Lo Zen e la cultura giapponese”, Adelphi, p. 283
[23] “Il Kintsukuroi è l’antica arte giapponese di aggiustare ciò che è rotto: quando un pezzo di ceramica si rompe, i maestri kintsukuroi lo riparano con l’oro, lasciando in vista la riparazione dato che, per loro, un’opera ricostruita è a sua volta simbolo di fragilità, forza e bellezza. La ceramica è fragile, forte e bella, tutto insieme, proprio come le persone. Allo stesso modo, la nostra vita può rompersi ma può anche ricomporsi, se sappiamo come fare”. Tomás Navarro, “Kintsukuroi. L’arte giapponese di curare le ferite dell’anima”, Giunti, p. 10
[24] Aiko Zushi
[25] Tomás Navarro, “Kintsukuroi. L’arte giapponese di curare le ferite dell’anima”, Giunti, p. 113
[26] Si tratta di una moneta composta da una lega di oro (23%) e argento (77%). Su un lato, ci sono due emblemi raffiguranti una paulonia (simbolo ufficiale del governo giapponese), mentre al centro ci sono i due caratteri che indicano il valore della moneta. Sull’altro lato ci sono invece i caratteri che indicano la firma del funzionario della zecca di Stato. Fu coniata nel quartiere popolare di Ginza, a Tokyo, il cui nome significa ‘zecca d’argento’ poiché in quest’area venne stabilita nel 1612 la zecca del conio dell’argento sotto lo shogunato Tokugawa.