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LA BELLEZZA

martedì 13 marzo 2018

"LA FIGLIA DELLE NEVI" di Jack London. Edizioni Clichy, Collana Père Lachaise.



Nonostante venga ricordato prevalentemente per  Zanna bianca, Il richiamo della foresta e Martin Eden, Jack London ha prodotto molti altri scritti, durante la sua carriera letteraria, tra cui proprio La figlia delle nevi (1902). Scaturito da esperienze personali[1], questo romanzo rappresenta “un affascinante affresco dell’umanità che popola il Klondike. […] Un mondo regolato dalle dure leggi di una natura inflessibile; ma anche un mondo che comincia a frantumarsi sotto i colpi di quella civilizzazione che per l’autore minaccia la bellezza” (Alessandro Bandiera).
London ci regala una storia i cui protagonisti sono sia personaggi in carne ed ossa sia paesaggi del Grande Nord. Il Klondike, così come ci viene presentato dall’autore, sembra avere un’anima celata sotto le distese ghiacciate che lo ricoprono. “Un posto per veri uomini, per uomini tutti d’un pezzo che non si fanno piegare dalla vita selvaggia” (per citare, ancora una volta, le parole di A. Bandiera che ha curato l’introduzione a questo romanzo).
Leggendo La figlia delle nevi si ha l’impressione di immergersi totalmente nel freddo territorio dello Yukon, grazie al talento descrittivo di Jack London; immagini vivide e dettagliate si affacciano alla mente del lettore che non potrà fare a meno di rabbrividire al solo figurarsi le scene e le vicende raccontate.
Un romanzo, questo, che sembra diviso in due parti di cui il collante è rappresentato sicuramente dal rapporto uomo-natura e dalla cosiddetta “corsa all’oro” verificatasi proprio nel territorio dello Yukon durante gli ultimi anni del 1800. La prima parte – dal ritmo lento e pacato - contiene caratterizzazioni a trecentosessanta gradi dei personaggi protagonisti  gettando, così, le basi per la seconda parte – dal ritmo più concitato e incalzante – che si trasforma, infatti, in un giallo con alcuni tratti che ricordano addirittura il thriller. Una piacevolissima “mutazione” di genere, un’evoluzione che rende la lettura avvincente e, pertanto, scorrevole. Compensazione ed evoluzione sono, dunque, le parole chiave per analizzare la struttura de La figlia delle nevi, che contiene – a coronare il tutto – anche un bel colpo di scena finale.
Attraverso le parole di London prende forma, davanti ai nostri occhi, un altro mondo (coi propri usi e costumi) in cui i valori principali sono sicuramente la tempra fisica, la fibra morale e l’intelligenza (sia quella istintiva sia quella razionale). Grandi temi come quello della lotta per la sopravvivenza o dell’amore vengono trattati con semplicità e chiarezza senza uscirne, però, sminuiti o banalizzati.
Lo stile dell’autore è velato da un leggerissimo umorismo che contribuisce a rendere piacevole la lettura di questo che – oltre a restituirci “una lucida chiave di lettura della contemporaneità” – rappresenta un valido romanzo di evasione.


[1] Nell'estate del 1897, venuto a conoscenza della scoperta di ricchi giacimenti d'oro nel Klondike, sul confine fra Canada e Alaska, parte con un amico per unirsi alla "Corsa all'oro", che aveva il suo centro a Dawson City, dove incontra avventure e disavventure d'ogni tipo, spesso tragiche e crudeli, che saranno fonti ispiratrici di molti suoi scritti. Nel 1898 rientra a San Francisco con un misero sacchetto d'oro, che gli frutterà pochi dollari. Si dedica allora intensamente al lavoro letterario, riuscendo a far pubblicare solo una minima parte dei suoi numerosi scritti. Fra la fine del secolo XIX e il 1916 London giunge finalmente al successo, seppur con alti a bassi notevoli, come scrittore, giornalista e inviato speciale, e ben presto diventa uno tra i più prolifici, famosi e meglio retribuiti del suo tempo: in tutta la sua carriera letteraria scrisse oltre 50 volumi.

venerdì 2 marzo 2018

"Emil M. Cioran - L'angelo sterminatore" a cura di Fabrizio Parrini. Edizioni Clichy.



L’angelo sterminatore non è un libro adatto a tutti. Può sembrare un’affermazione discriminatoria e forse un po’ crudele, ma descrive perfettamente e senza giri di parole la sensazione che ho provato leggendolo. Ma andiamo per ordine. Innanzitutto è doveroso fare qualche accenno alla struttura di questo volumetto che  nasce con l’intento di raccontare il pensiero del filosofo Emil Michel Cioran[1]. Il libro è diviso, infatti, in tre sezioni: la prima parte contiene una breve, ma esaustiva biografia del filosofo, la seconda parte – intitolata, appunto, L’angelo sterminatore – è una sorta di lunga prefazione (a cura di Fabrizio Parrini), mentre la terza parte contiene gli aforismi più significativi della produzione di Cioran intervallati da una bella selezione di foto che lo ritraggono in diverse occasioni. Interessante, tra tutte, la seconda sezione del libro: una specie di dettagliata dissertazione che prepara il lettore alla prosa poetica - ma caustica – di Cioran.
Ecco il ritratto che ne emerge.
Un uomo disincantato, disilluso, un “filosofo non-filosofo” che non formula teorie – al contrario di ciò che è, da sempre, prerogativa dell’ambiente accademico – ma traduce i pensieri e gli stati d’animo in parole.
“La filosofia di Cioran non esiste come entità strutturata. Non c’è nessuna teoria, solo la fedeltà alle proprie sensazioni e al proprio temperamento”.
“La filosofia per lui si deve occupare della sofferenza, non certo delle teorie, tanto da esaltare una lacrima come esperienza più profonda di un sillogismo. Definisce i suoi pensieri amari come le lacrime che si sono condensate in parole”.
Cioran si fa portavoce di un nichilismo in cui il nulla arriva quasi ad assumere dei contorni, diventando una sorta di entità salvifica. Il nulla spodesta la speranza permeando di cinismo buona parte degli aforismi di questo pensatore. L’uomo è destinato al fallimento e – di conseguenza – al dolore. Non desiderare, non fare e non sperare sono le uniche possibilità di salvezza.
Dalle sue parole traspare quella cosa chiamata «cafard», ovvero una parola francese intraducibile che racchiude in sé i concetti di “tristezza”, “noia”, “tedio”, “accidia” e “malinconia”. Nelle opere di Cioran la lingua rumena – dotata di ardore ed esuberanza – viene soppiantata da quella francese, più rigorosa, tagliente e lucida. Viene favorita la brevità e abbandonato qualsiasi tipo di barocchismo linguistico.
“Non c’è niente, nella scrittura di Cioran, che faccia pensare a una speculazione intellettuale fine a se stessa. La sua lucida scrittura viene invece dal profondo, per diventare discorso apparentemente comprensibile a una prima lettura, ma che ha bisogno di un’attenta e continuata forma d’intuizione”.
“Il male di vivere” è il padrone indiscusso della filosofia di Cioran che, in questo, si accosta percettibilmente al poeta del pessimismo cosmico, Giacomo Leopardi.
In questo libro Fabrizio Parrini ci svela il pensiero di Cioran a proposito di temi che sorreggono le nostre vite, quali – ad esempio – il significato della storia, quello della libertà, nonché quello dell’istruzione. Attraverso le sue parole scopriamo il valore intrinseco della scrittura, vediamo la letteratura come strumento per esternare il dolore (come se fosse un “prolungamento fisiologico” di ogni autore) e la poesia come una forma di preghiera. Nell’analisi che Parrini fa di Cioran, trova posto anche la religione ed emerge il legame di quest’ultimo con la tradizione del pensiero gnostico.
“La scrittura è un modo per lenire le ferite del cuore e poter vivere nonostante la discordanza suprema tra il mondo e noi stessi”.
Quel che spiazza, della figura di Emil Cioran, è la sua “filosofia della sospensione” – se così vogliamo chiamarla – secondo la quale non esistono verità oggettive e neppure teorie inoppugnabili dietro le quali ripararsi.
“L’aforisma non deve sfornare verità, ma insegnare a farsene beffe. Cioran non conclude mai. Non rassicura, ma cerca di dire con le parole quello che le parole non possono dire. […] Distrugge e riparte subito dopo dalle macerie che ha provocato, ma davvero senza più certezze”.
“[…] la sua filosofia senza tempo  a volte abbaglia e consola, perché parla dell’uomo com’è, come è sempre stato”.
Professando questo tipo di filosofia, Cioran corre spesso il rischio di cadere nella contraddizione ed è anche per tale ragione che Parrini stesso lo definisce “un pensatore per pochi sotterranei ammiratori”.
L’angelo sterminatore è un libro graffiante, a tratti addirittura lacerante: la sua lettura vi lascerà un segno nell’animo.


[1] Emil M. Cioran nasce a Rasinari (Sibiu) in Transilvania l’8 aprile del 1911  e muore a Parigi il 20 giugno del 1995, all’età di ottantaquattro anni. “E’ una delle figure più rappresentative della vita culturale europea del Novecento, dove si pone come una libera figura di scrittore e filosofo scettico che indaga il divenire dell’esistenza come un testardo, implacabile contestatore della filosofia sistematica. La filosofia deve, secondo lui, occuparsi dell’esperienza concreta, quotidiana, vissuta dall’uomo. Non può e non deve mai ridursi a un sapere astratto, fatto di concetti e senza contenuti vivi come i sentimenti, le emozioni, le passioni. Per Cioran la filosofia è un’incessante riflessione sulla vita e sull’essere che ha oltrepassato l’orizzonte del nulla. Ciò che gli interessa è l’uomo gettato nel mondo da una sorte avversa o da un «funesto demiurgo» per interpretare il suo ruolo incomprensibile e assurdo. Questa l’originalità di Cioran e dei suoi aforismi crudeli in perenne ricerca di senso. La vita è un’avventura magica, ma la lucidità del pensiero permette di sperimentare non solo la propria immensa solitudine, ma anche la propria vertiginosa libertà”.

mercoledì 21 febbraio 2018

Mini-post su “La morte di Ivan Il’ič” di Lev Tolstoj, Feltrinelli.



“La morte di Ivan Il’ič è un accorato invito a riflettere. Non tanto sulla morte, quanto – piuttosto – sulla vita. Il protagonista – Ivan Il’ič, appunto – ha trascorso, infatti, tutta la sua esistenza cercando di costruirsi una realtà che rispettasse i canoni di decoro imposti dalla borghesia russa del 1800. Ha sfogato la sua infelicità famigliare sul  lavoro,  assicurandosi di avere sempre l’approvazione della società; ha mascherato la sua insoddisfazione generando una forma di confortante routine, un precario equilibrio di abitudini per mezzo delle quali “dilapidare” la vita, giorno dopo giorno. E, proprio quando tutto sembrava aver preso una gradevole piega, un banale incidente domestico  sovverte i pensieri di Ivan, aprendogli la mente e mostrandogli la sua condotta da una prospettiva completamente diversa. I dolori causati dalla “malattia” e l’inesorabile approssimarsi della morte smascherano il terribile inganno e la profonda ipocrisia dietro cui  - per tanti anni – ha celato accuratamente la realtà dei fatti: un matrimonio di convenienza, false amicizie, l’eccessiva considerazione dei valori sbagliati. A pochi giorni dalla morte, Ivan Il’ič si rende conto del fatto che tutto è stato una recita insensata, un insieme di falsità e di menzogne. Si dà pena per l’indifferenza altrui nei suoi confronti e si scopre a desiderare la loro compassione e la loro pietà, fomentando uno stato di profonda angoscia nel lettore. In questo straziante flusso di coscienza  sulla strada per la consapevolezza,  il protagonista muta persino la sua personale visione della morte che, da spaventosa e crudele creatura, assume i contorni di una grande maestra di vita. La paura cede il posto alla serenità.
Grazie a questo breve racconto, il lettore è portato a riflettere sul fatto che ognuno dovrebbe sfruttare la vita per seguire i propri sogni e non quelli degli altri. Tutti dovremmo avere il coraggio di troncare le situazioni che ci causano disagi, perché cercare di adattarci ad esse significherebbe coprire la nostra esistenza con strati di menzogne. Non aspettiamo che sia la morte a svelarci i nostri veri desideri e – soprattutto – non coltiviamo la convinzione che certe cose possano capitare solo agli altri, perché – a volte – gli altri siamo proprio noi!

mercoledì 10 gennaio 2018

"L'amante di Lady Chatterley" di David Herbert Lawrence. Feltrinelli



L’amante di Lady Chatterley è il libro forse più scandaloso della letteratura inglese del Novecento. Scritto in Italia tra il 1926 e il 1928, venne proibito in Inghilterra per oscenità e pubblicato in patria solamente nel 1960 dopo un lungo processo che fece epoca. Ambientato nella profonda Inghilterra, vuole rappresentare il contrasto irriducibile tra il vitalismo dei sensi e l’atrofizzazione della società industrializzata. Lo fa attraverso tre figure chiave: Sir Clifford, reso invalido e impotente dalla Prima guerra mondiale, bloccato su una sedia a rotelle, Lady Constance e il guardiacaccia Mellors. Questi ultimi intrecciano una relazione sempre più appassionata e sensuale, quasi una vera e propria iniziazione a quella serie di valori “naturali” che invece la civiltà delle macchine tende inesorabilmente a cancellare. E’ la figura di Lady Chatterley a scuotere nel profondo la morale vittoriana ancora imperante nell’Inghilterra degli anni trenta. Con il suo rifiuto delle convenzioni sociali e morali, Connie manifesta una ribellione più profonda. Nel portare alle estreme conseguenze la sua storia d’amore, Lady Chatterley diventa suo malgrado un personaggio rivoluzionario, per incarnare infine le più profonde ansie sociali dell’universo femminile di quegli anni”.
RECENSIONE
Più che la storia in sé, lodevoli sono l’analisi psicologica dei personaggi, la descrizione della società inglese dei primi anni del 1900 e la trattazione di un tema assai scottante sebbene del tutto naturale: il sesso (e la sessualità).
Ben marcato il divario tra le classi sociali: la classe dominante composta dalla borghesia colta di Constance (Lady Chatterley) e dall’aristocrazia di Clifford  (Sir Chatterley) contro la classe lavoratrice della società industrializzata. In mezzo a tutto questo c’è Oliver Mellors, il guardiacaccia, che rappresenta – invece – la vera natura umana, quella natura schiacciata dalle convenzioni e dai pregiudizi. Insieme a lui, Constance (Connie) riscoprirà il valore del corpo e dei sensi e proverà l’essenziale differenza tra esistere e vivere.
E’ interessante notare come le caratteristiche fisiche delle varie classi sociali e dei personaggi che le compongono siano emblematiche ed esemplificative del loro stato mentale.
“Ormai non c’era che un’unica classe sociale: quella dei giovani affamati di soldi. Ragazzi e ragazze allo stesso modo. L’’unica differenza era quanti soldi avevi e quanti soldi volevi”. “Ma […] i soldi ti avvelenano quando ce li hai, e ti fanno morire di fame quando ti mancano”.
Clifford e la sua atrofia fisica che rispecchia l’atrofia dell’anima. Il suo cinismo fatto di sole parole che riempiono la bocca ma sono assolutamente prive di ogni essenza vitale. Le sue paure dettate dall’egoismo e dall’avarizia di veri sentimenti. L’assenza di passione, la bramosia del denaro e il suo attaccamento alle abitudini, alle consuetudini  e al buon costume. Il suo essere un uomo-bambino nel senso più spregevole del termine. La paura di perdere la buona reputazione e la rispettabilità che lo rendono così arrogante e insensibile alle vere pulsioni amorose. La sua asfissiante paura della solitudine.
La differenza abissale tra l’uomo e la donna: il primo visto come un bambino  un po’ troppo cresciuto che vada costantemente lusingato e coccolato e illuso che si faccia a modo suo, e la seconda, vista – invece – come mera incubatrice di prole, disumanizzata e depredata dei suoi bisogni, dei suoi desideri, dei suoi stimoli e dei suoi sentimenti. Carne per l’appagamento sessuale di altra carne. Una creatura il cui unico sentimento pare debba essa essere  quello della vergogna e l’unica azione la  negazione di sé.
Mellors come iniziatore di Connie alla scoperta e alla presa di coscienza del proprio corpo. Un ritorno agli istinti primordiali che si sono evoluti con l’evolversi dei settori industriali e tecnologici. Un’evoluzione che ha portato all’assottigliamento delle percezioni sensoriali, corporee e mentali.
  Il guardiacaccia è l’iniziatore perfetto perché sta a diretto contatto con la natura e ne segue i ritmi così come Clifford ne è completamente distaccato. Dall’una e dagli altri.
Questo libro è stato vittima di innumerevoli critiche dal sapore aspro per via della sua schiettezza. Schiettezza di temi e schiettezza di linguaggio. Ma la terminologia usata – che sembra tanto cruda e scurrile – altro non è che un modo per richiamare le nostre coscienze, per condurle al risveglio. Un esorcismo contro il torpore dei sensi. La sessualità viene trattata senza tabù, con l’ausilio di descrizioni che richiamano immagini estremamente vivide.
“Le parole che all’inizio turbano tanto, dopo un po’ non turbano più. Forse perché la mente umana è depravata dall’abitudine? Niente affatto. Questo accade perché le parole hanno scandalizzato solo l’occhio, ma non lo spirito. Le persone prive di spirito possono continuare a scandalizzarsi: di loro non ci importa. Le persone  dotate di spirito capiscono di non essere scioccate, di non esserlo mai state; e provano un senso  di sollievo”.
Chi sono le persone prive di spirito di cui parla qui lo stesso Lawrence[1]? Sono le persone che hanno perso la capacità di far convivere in armonia il pensiero e l’azione, la mente e il corpo. Vediamo questo concetto nel dettaglio leggendo le parole che seguono:
“La forza evocativa delle parole cosiddette oscene doveva essere molto pericolosa per le nature semplici, oscure e violente del Medioevo, e forse è ancora troppo forte per le nature ottuse, semievolute e rallentate dei giorni nostri. Ma la vera cultura ci permette di attribuire a una parola solo le reazioni spirituali e fantastiche che appartengono alla mente, e ci evita le reazioni fisiche, sconvolgenti e indiscriminate che attentano alla decenza sociale. In passato l’uomo era troppo debole di spirito o troppo grezzo per contemplare il proprio corpo o le proprie funzioni corporee senza farsi dominare e guastare da reazioni fisiche. Ora non è più così. La cultura e la civiltà ci hanno insegnato a separare la parola dall’azione, il pensiero dall’atto o dalla reazione fisica. Ora sappiamo che l’atto non segue necessariamente il pensiero. In realtà pensiero e azione, parola e atto sono due forme distinte di consapevolezza, due vite che conduciamo separatamente. E’ certo molto importante mantenere una connessione. Ma quando pensiamo non agiamo, e quando agiamo non pensiamo. Ciò di cui abbiamo un gran bisogno è agire secondo i nostri pensieri. Ma finché  pensiamo non possiamo agire veramente, e finché agiamo non possiamo pensare veramente. Queste due condizioni, del pensiero e dell’azione, si escludono a vicenda, com’è naturale. Tuttavia è bene che coesistano in armonia”.
 Completamente travisato dalla maggior parte dei lettori – dunque – il vero scopo di questo libro che Lawrence si premura di sottolineare:
“Voglio che uomini e donne possano pensare  il sesso, profondamente, completamente, onestamente e in maniera pulita”.
Perché- è vero – la scissione tra mente e corpo c’è e la si sente, ma questo non significa che le due cose debbano viaggiare su binari paralleli, anzi.
 “Nelle cose del sesso, lo spirito arriva dopo; e in realtà in ogni altro atto fisico”.
Mai come in queste parole si può intendere lo spirito come Eros e l’Eros prescinde dal corpo, ma – allo stesso tempo – ne ha bisogno:
“L’oscenità esiste solo quando lo spirito teme e disprezza il corpo, e il corpo odia lo spirito e gli resiste”.
Le cose belle fanno paura e la prima reazione che scaturisce dalla paura è proprio la resistenza. Per questo motivo, se si legge “L’amante di Lady Chatterley” alla luce della naturalezza sessuale non si coglie alcun tipo di oscenità nelle parole usate.
“E’ la tenerezza, la consapevolezza sessuale. Il sesso non è che un contatto, il più intimo dei contatti. Ed è proprio il contatto che temiamo. Siamo consapevoli solo per metà, vivi solo per metà”.
“Quella terra stava producendo una nuova razza d’uomini ultrasensibili alle questioni economiche, sociali e politiche, ma morti e sepolti nella sfera spontanea e intuitiva. Non erano che semi-cadaveri, ma con una terribile, insistente consapevolezza dell’altra metà”.


[1] Lawrence compose le prime pagine di questo testo nel 1929, come introduzione alla pubblicazione dell’edizione parigina del romanzo. Pubblicate come un  pamphlet a sé stante con il titolo My Skirmishwith Jolly Roger, in seguito esse furono notevolmente ampliate e uscirono con il titolo di À propos of Lady Chatterley’s lover” nel 1930.