Dostoevskij, "Delitto e castigo", Einaudi Traduzione di Emanuela Guercetti.
“Ma
è la malattia che genera il delitto, oppure è il delitto stesso che, quasi per
sua natura, è sempre accompagnato da qualcosa di simile alla malattia?” [Pag.
85]
Chi è Rodion Romanovič
Raskol˝nikov:
“[…]
era molto pallido, distratto e cupo. Esteriormente somigliava un po’ a un
ferito o a una persona che provasse un forte dolore fisico: teneva le
sopracciglia aggrottate e le labbra serrate, il suo sguardo era infiammato.
Parlava poco e malvolentieri, quasi sforzandosi o per assolvere un obbligo, e i
suoi gesti tradivano a tratti una certa irrequietezza”. [Pag. 258]
Il volto pallido e
cupo (chiaro/scuro) rende giustizia alla duplice natura del personaggio di R. L’esterno
riflette l’interno, per così dire, in una lotta costante del protagonista con
se stesso, con l’altro se stesso… La dissennatezza in contrasto con la ragione,
il piacere nel tormento, la paura che si insinua in una personalità spavalda, impavida
e sprezzante di ogni pericolo. La generosità di R. si trova spesso a
guerreggiare contro un egoismo, un orgoglio e una spietatezza senza confini. La
luce e l’oscurità fanno parte in egual misura della natura del protagonista e
il lettore si trova a oscillare da un lato caratteriale all’altro, senza sosta.
La lucidità mentale sarà messa continuamente in discussione dalla confusione,
il delirio e la pazzia prenderanno spesso il sopravvento sulla sanità,
mantenendo costante la tensione; gli impulsi autodistruttivi di R. metteranno
alla prova il suo autocontrollo, generando uno stato di inquietudine, di
irrequietezza. Persino sogni e realtà arriveranno a confondersi. Vividi ricordi
e tormentose amnesie si batteranno su un terreno di fervide elucubrazioni. In
questo clima di ansia e angoscia, però, l’attenzione del lettore rimarrà sempre
accesa per dargli modo di seguire i personaggi e le vicende con occhio vigile e
con spirito critico. Ciò che, invece, pian piano andrà sgretolandosi è la
certezza. Inevitabile, ad un certo punto, sarà domandarsi se R. sia davvero
colpevole…
R. vede le cose come
attraverso un filtro che lo porta a vedere ciò che crede di vedere e a credere
a ciò che pensa di vedere, sicché neppure il lettore potrà fare a meno di
covare dei dubbi su tutta la faccenda.
“Forse
sono pazzo sul serio, e tutto quel che è successo in questi giorni, tutto,
forse, è frutto della mia immaginazione…” [Pag. 341]
“[…]
è cupo, scostante, superbo e orgoglioso; negli ultimi tempi (e forse anche da
molto prima), sospettoso e ipocondriaco. Generoso e buono. Non ama esprimere i
propri sentimenti e preferisce mostrarsi crudele piuttosto che rivelare il suo
cuore con le parole. A volte, del resto, non è affatto ipocondriaco, ma
semplicemente freddo e insensibile, al limite della disumanità: davvero, è come
se in lui si alternassero a turno due caratteri opposti. A volte è
terribilmente taciturno! Non ha mai tempo, tutti lo disturbano, ma intanto se
ne sta sdraiato e non fa niente. Non ama canzonare, e non perché gli manchi lo
spirito, ma come se non avesse tempo per certe banalità. Non ascolta fino in
fondo quello che gli dicono. Non s’interessa mai a ciò a cui s’interessano
tutti gli altri in quel momento. Ha un’opinione tremendamente alta di sé, e a
quanto pare non senza motivo”. [Pag. 250]
“Lui
non ama nessuno; e forse non amerà mai nessuno”. [Pag. 250]
La chiave di tutto è
in quel “forse”. L’amore può fare miracoli per gli animi tormentati e potrebbe
avere effetto anche sull’animo di R., ma avverrà questo miracolo? Naturalmente
lo scoprirete alla fine del romanzo…
“[…]
e arriverai a un limite tale che, se non riuscirai a superarlo, sarai infelice,
ma se lo supererai, forse sarai ancora più infelice…” [Pag. 264]
Inaffidabile,
arrogante e facilmente irritabile, imprevedibile e fortemente intrigante, può
risultare antipatico fino all’estremo limite della sopportazione oppure
affascinare al punto che ci si può innamorare di lui, perché
“è vero che un uomo armonico quasi non
esiste; su decine, o forse su molte centinaia di migliaia se ne incontra uno, e
comunque sono esemplari piuttosto mediocri…” [Pag. 263]
Il dualismo
caratteriale di R. si rispecchia, inoltre, nel contrasto tra idea (“monomania”)
personale (ed egoistica) e ideale con fini altruistici. R. avrebbe potuto uccidere la vecchia usuraia
per due ragioni: per liberare se stesso e gli altri debitori dalla schiavitù
del denaro oppure per dimostrare a se
stesso di avere la stoffa (e di non avere scrupoli) per diventare un uomo di
una certa caratura. Pensa in grande, R., riesce persino a scorgere la grandezza
nelle persone più umili, sa leggere nei loro cuori, ma questa sua arguzia è
nascosta da uno spesso strato di ottusità che gli impedisce di sviluppare e di
mettere in pratica i talenti a sua disposizione per scopi più nobili e
lodevoli. E non è tutto. R. ha fretta, è impaziente di diventare “grande”, di
dimostrarsi “speciale”, dunque non sa aspettare e dalla vita vuole tutto e lo
vuole immediatamente.
«La
vecchietta non vuol dire niente! – pensava con foga concitata. – La vecchia
forse è stata anche un errore, non si tratta di lei! La vecchia è stata solo
una malattia… io volevo fare il salto al più presto… non ho ucciso una persona,
ho ucciso un principio! Il principio l’ho ucciso, ma il salto non l’ho fatto,
sono rimasto da questa parte… Sono stato solo capace di uccidere. Anzi, ora si
scopre che neanche di questo sono stato capace… […] No, a me la vita è data una
volta sola, e non ne avrò mai un’altra: non voglio aspettare la “felicità
universale”. Voglio vivere per me stesso, altrimenti meglio non vivere
affatto». [Pp. 317-318]
IL TITOLO
Sul perché nel titolo
di questo libro ci sia la parola “delitto” è chiaro fin da subito, ma quel che
incuriosisce è la ragion d’essere della
parola “castigo”. È scontato pensare a una punizione di tipo giuridico
ed è anche di questo che si tratta. Anche, appunto, ma non solo. Il castigo in
cui incorre R. è soprattutto di tipo psicologico: il tormento interiore, la
paura contro il desiderio di essere smascherato, la lotta tra l’impulso di
farla finita e il rifiuto di suicidarsi, il dolore di non provare pentimento,
quasi non avesse una coscienza o – peggio – ne avesse una che… lavora al
contrario!
LA COSCIENZA
“Chi
ne ha una, soffra pure, se riconosce l’errore. Sarà il suo castigo, oltre ai
lavori forzati. […] Che soffrano pure, se hanno pietà della vittima… La
sofferenza e il dolore sono inevitabili per una coscienza vasta e un cuore
profondo. Le persone veramente grandi, mi sembra, devono provare una grande
tristezza a questo mondo”. [Pag. 307]
Commettere un delitto
perché ci si sente “grandi” e lo si vuole dimostrare, ma generare l’effetto
opposto. R. ottiene una smentita della propria “grandezza” sul percorso
intrapreso per dimostrarla. Costituirsi alla giustizia rappresenterebbe il
primo passo verso una nuova vita, ma non basterebbe. La grande assente, qui,
oltre all’amore di cui parlavamo poco fa, è la Fede, quella in un Dio. R. non
ha quel tipo di sostegno, non direttamente almeno. Chi lo sostiene con la
propria Fede in Dio è Sonja, personaggio fondamentale nel cammino del
protagonista che potrà sperare in una sorta di Resurrezione, al pari di
Lazzaro. Risorgere a nuova vita mentre si è ancora in vita è un’idea che ha il
sapore del miracolo, ma Dostoevskij avrà dato al suo personaggio il beneficio
di tale miracolo? Non avrete spoiler da me,
(anche se ammetto di essere stata molto tentata dal pensiero di
spifferarvi il finale), quindi non vi resta che leggere il romanzo…
Tornando alla
coscienza. Leggendo “Delitto e castigo” è stato per me inevitabile stabilire un
punto di contatto tra R. e il protagonista di uno dei più bei racconti di Edgar
Allan Poe, “Il cuore rivelatore”. Ciò che fa gettare l’assassino nelle braccia
della giustizia, anche in questo caso, non è tanto il rimorso (che neppure R.
prova), quanto – piuttosto – un’angoscia provocata da un dissidio interiore:
sentirsi, nello stesso tempo, invincibili e vulnerabili, grandi e miserabili,
limpidi e meschini… Come si può spiegare una sensazione del genere? Probabilmente
è come sentirsi ubriachi senza aver bevuto o – al contrario – sobri pur essendo
completamente ubriachi. Chissà… Quel che è certo è che sia Poe sia Dostoevskij
sono in grado di portare il lettore sulle montagne russe della tensione: dal
punto più basso, in cui si crede di essere al sicuro, tranquilli, al riparo da
ogni scossone emotivo, in un crescendo del ritmo narrativo, fino all’apice, al
parossismo del furore, per poi ripiombare in picchiata verso la disperazione
più nera. Si tratta di una frenesia psicologica che disorienta, frastorna e
confonde come sotto l’effetto della febbre. L’adrenalina sale all’improvviso e
scende allo stesso modo, quando meno ce lo si aspetta.
LA “RELATIVITÀ” DEL
MALE
“Delitto e castigo”
solleva moltissime questioni morali, ma anche etiche, se vogliamo e –
attraverso i dialoghi tra i personaggi – Dostoevskij è riuscito, con grande
maestria e dovizia di particolari, a far sorgere dubbi e interrogativi alquanto
spinosi quali, ad esempio:
Esiste o no il
delitto? Cioè: sussiste davvero il reato se quello che, appunto, chiamiamo
“reato” è stato commesso nei confronti di una persona abietta e crudele? Per R.
il delitto della vecchia usuraia non è mai stato tale, non può essere – cioè –
considerato un vero delitto, bensì un passo falso, un fiasco, uno scivolone in
un’idea che avrebbe potuto realizzarsi in una grande opera se fosse andata in
porto. R. si è, però, imbarcato in quell’impresa già inconsciamente convinto di
non esserne degno, di non meritare la gloria e la grandezza che ne sarebbero
derivate. “Vigliaccheria”, la chiama lui ma è più probabilmente senso di colpa,
convinzione di non essere all’altezza del gesto stesso e delle sue conseguenze.
Oppure, chissà, un piano divino per fargli scoprire le vere ragioni per cui
vale la pena di vivere... Ma, questo, il nostro R. non lo ammetterebbe mai
apertamente.
Esiste un diritto di
compiere il Male? Cioè: esistono uomini, in qualche modo o per qualche motivo,
“autorizzati” dalla natura a compiere il Male?
La forza va
conquistata con la forza?
E, come già detto in
apertura di questo articolo, “è la malattia che genera il delitto, oppure è il delitto stesso che,
quasi per sua natura, è sempre accompagnato da qualcosa di simile alla
malattia?”
INSERIMENTI
AUTOBIOGRAFICI
“[…]”
l’atmosfera di repressione seguita alle rivoluzioni europee del 1848 spinge la
polizia zarista ad azioni drastiche nei confronti di ogni possibile gruppo di
presunti rivoluzionari. Il 25 aprile 1849, alle cinque di mattina, Fëdor viene
arrestato per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi. Rinchiuso
nella fortezza di Pietro e polo, presenta una deposizione scritta, ancor oggi
straordinaria per intensità di pensiero, indipendenza di affermazioni, dignità
del tono: viene poi a lungo interrogato. Il 16 novembre la corte marziale
condanna i 21 imputati alla fucilazione. Lo zar commuta la condanna a morte in
lavori forzati senza termine ma, secondo una pratica allora in uso, con la
clausola che la grazia sia resa nota solo dopo la lettura pubblica della
sentenza. Incatenato, Fëdor viene spedito in Siberia: ma gli istanti terribili
passati sul palco in attesa dell’esecuzione non saranno facilmente dimenticati
(entreranno, fra l’altro, nei materiali de “L’idiota”).
[…] Destinazione del forzato: la fortezza di
Omsk. In una tappa del viaggio, a Tobolsk, lo scrittore riceve la visita delle
mogli di alcuni decabristi: una di esse gli regala un esemplare del Vangelo,
l’unico libro ammesso in carcere, che Fëdor conserverà accanto a sé tutta la
vita. Nella fortezza Fëdor passa quattro anni, a contatto con detenuti di ogni
genere, provenienza, estrazione: assassini, ladri, stupratori ma anche
condannati politici, audaci patrioti, coraggiosi partigiani della libertà. Tutto materiale che utilizzerà nello scritto
autobiografico “Memorie da una casa di morti”. Il suo rapporto con i compagni
di pena è sostanzialmente positivo. «Questa gente», scriverà «è pur sempre
gente straordinaria. Forse è la gente più capace, più forte di tutto il nostro
popolo. Ma queste forze possenti periscono invano, periscono in modo illegale,
irrevocabile. E chi ne ha la colpa? Proprio così, chi ne ha la colpa?». Quattro
anni di ripiegamento su se stesso: «Spiritualmente solo, io riguardai tutta la
mia vita passata, ripassai tutto fino alle più piccole minuzie, mi giudicai
inesorabilmente, e benedissi il destino per avermi mandato questa solitudine,
senza la quale non sarei giunto a questo severo giudizio su me stesso»”. [Dal
volume Garzanti de “Il sosia”]
La maggior parte
degli eventi qui sopra riportati sono stati inseriti anche all’interno della
trama di “Delitto e castigo”: R. ne diventa il protagonista al posto di
Dostoevskij. La deportazione dello scrittore avvenne infatti nel 1849 e
“Delitto e castigo” fu scritto molti anni dopo, nel 1866, ma in questo romanzo
vengono ripresi anche temi affrontati nei precedenti scritti: il tema del
doppio era già presente ne “Il sosia” (1846); il sottosuolo, menzionato un paio
di volte nel corso della narrazione di “Delitto e castigo” era già stato ampiamente
trattato in “Memorie dal sottosuolo”(1864).
PIETROBURGO
Di Pietroburgo, la
città in cui è ambientato il romanzo in questione, non emerge un quadro
confortante, anzi, al contrario, è teatro di eventi orribili e covo di
corruzione e depravazione su più livelli: prostituzione, furti, delitti e
violenze; menzogne e sotterfugi, propositi malsani e illeciti dilagano anche a
causa dello smodato consumo (chiamiamolo pure abuso) di alcolici. Ma ciò che
salta all’occhio è la povertà in cui tanti, troppi vivono; la miseria e
l’indigenza provocano rabbia, frustrazione, malattie… Tutte cose che alimentano
e perpetuano un circolo vizioso assai pericoloso. Nonostante ciò, questa città
mantiene ed esprime un fascino inesprimibile a parole. Sembra esistere solo
sulla carta o nell’immaginazione degli scrittori russi, eppure c’è davvero e
rappresenta un crocevia di storie e vicende che restano nell’anima…
Nonostante si tratti
di un romanzo in prevalenza psicologico, non mancano i colpi di scena, inseriti
in maniera strategica all’interno della narrazione al fine di tenere viva
l’attenzione del lettore fino all’ultima riga dell’ultima pagina.
Colpisce il fatto che
fino all’ultimo risulta difficile collocare R. in una categoria: non si può
infatti affermare con assoluta certezza che sia un vigliacco, ma neanche si può
dire che sia coraggioso; certo è, però, che “tutta quell’incessante inquietudine e tutto quell’orrore spirituale
non potevano restare senza conseguenze”. [Pp. 492, 493] R.
stesso in diverse occasioni si definisce “idiota” e – pur riconoscendogli una
grande intelligenza – non posso che concordare con quanto da lui affermato.
Sicuramente, però, l’esperienza fatta gli è servita come trampolino per il
cambiamento, per la “Resurrezione” di cui abbiamo già parlato. Opera del
Destino? Della Divina Provvidenza? Del Caso? O, forse, del Libero Arbitrio?
Chissà cosa determina la vita che facciamo: sono le nostre scelte che
costruiscono il nostro Destino oppure è il contrario, vale a dire che è il
nostro Destino il fattore in base al quale compiamo le nostre scelte?
“[…]
molte cose di se stesso le apprese basandosi sulle informazioni ricevute da
estranei. Per esempio confondeva un fatto con l’altro; oppure lo riteneva
conseguenza di un avvenimento esistito solo nella sua immaginazione. A volte lo
assaliva un’inquietudine tormentosa, che degenerava addirittura in panico. Ma
ricordava anche che c’erano minuti, ore e forse perfino giorni pieni di un’apatia
che s’impadroniva di lui come per contrasto con la natura precedente: un’apatia
simile allo stato di indifferenza morbosa di alcuni moribondi”. [Pag. 507]
UN GIALLO AL
CONTRARIO
La costruzione di
quest’opera è molto singolare: si potrebbe definire un “giallo al contrario”.
Il lettore non deve scoprire chi è l’assassino e perché ha commesso il crimine,
deve – invece – penetrare nella testa dell’assassino, indossare i suoi panni,
comprendere il suo stato d’animo, il suo tormento interiore, la sua angoscia,
la sua ansia, le sue paure e i suoi stati di esaltazione, ma soprattutto il
cambiamento che avviene dentro di lui. “Delitto e castigo” è il rovescio di una
medaglia-thriller, è la storia di R. dal suo punto di vista (anche se il
narratore rimane Dostoevskij), quando – solitamente – un giallo o un thriller
canonici puntano i riflettori su chi conduce le indagini.
“Con
cento conigli non si fa un cavallo, con cento sospetti non si fa una prova,
ecco cosa dice un proverbio inglese, ma questo è solo buonsenso, mentre le
passioni, le passioni provi un po’ a dominarle!” [Pag. 522]
IL RITMO NARRATIVO
È strano come, anche
nei momenti di apatia del protagonista, il ritmo non sia mai lento, bensì
rapido e incalzante. Questo accade perché la narrazione si svolge, in realtà,
su due livelli: quello fisico, reale, e quello mentale. Perciò, anche quando R.
dorme, le vicende mantengono un ritmo concitato. Non mancano, comunque, momenti
di calma apparente, momenti che – appunto – non dureranno a lungo perché
Dostoevskij è sempre pronto a dare scossoni nei punti giusti della narrazione,
facendo vacillare ogni nascente certezza. Il lettore ha il tempo di prendere
una boccata d’aria ogni tanto, ma solo per ripiombare – poco dopo – con la
testa sott’acqua.
“Ogni
sua parola si poteva intendere in due modi diversi, come se sotto ce ne fosse
un’altra!” [Pag. 524]
Un romanzo davvero
intrigante e avvincente in cui non si ha il tempo di annoiarsi. Dostoevskij
ha/aveva il dono di instillare il dubbio e la curiosità, nei suoi lettori.
D’altronde si può
stare comodamente sdraiati su un letto di chiodi (lo sanno bene i fachiri), ma
solo perché quei chiodi sono numerosi e disposti in maniera regolare, ma basta
spostare – anche di poco – qualcuno di essi e la comodità si tramuterà in
tormento!
Ambiguità e
chiarezza, duplicità e coerenza, sospetti ed evidenza dei fatti…
“Ma
i fatti non sono tutto; perlomeno, metà del caso dipende da come questi fatti
si sanno interpretare!” [Pag. 160]
IL TEMPO
Il Tempo, in “Delitto e castigo”, si dilata e si
restringe vertiginosamente. Complice anche la presenza di sogni e incubi, di
amnesie, di stati febbrili e di delirio del protagonista. Vi è mai capitato di
uscire di casa e di ritrovarvi in ufficio senza sapere come ci siete arrivati, né
quali strade avete preso o quanto tempo ci avete messo? Ecco, anche a R. accade
spesso questo inconveniente che contribuisce ad azzerare il senso stesso del
Tempo.
IL SENSO DELLA VITA
Non si può vivere
solo per esistere, perché si tratterebbe di pura e semplice sopravvivenza.
Vivere, vivere davvero, è un’altra cosa. Volere di più, sapere di essere nati
per avere quel “di più”… Ma di cosa si tratta? In cosa consiste questo
fantomatico “di più”? Penso sia l’Amore, quello universale, quello che
abbraccia la vita in tutte le sue forme. Come si conquista questo Amore? Non ho
una risposta univoca e definitiva a questa domanda, ma penso che ci voglia
innanzitutto Fede, e non sto parlando di Fede religiosa, non in senso stretto,
almeno. Fede, per me, vuol dire fiducia: fiducia nel futuro, fiducia nel potere
dei desideri… Fiducia in qualcuno o in qualcosa, non importa chi o che cosa. È
così che ci si apre all’Amore. Alla sua ricezione e alla sua donazione…