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LA BELLEZZA

martedì 22 aprile 2025

SECONDA RISONANZA


 
SECONDA RISONANZA, dal 16 aprile al 7 settembre 2025, alla GAM di Torino.

Nel precedente articolo vi ho lasciati con una promessa… Ho promesso che vi avrei parlato di… scale. No, non sono impazzita, si tratta di una tessera del grande e complesso “puzzle” che la GAM e il MAO stanno pian piano componendo grazie a una fitta rete di collaborazioni e prestiti. E, quando parlo di prestiti, non intendo solo di opere d’arte, bensì anche di… artisti. Se, infatti, la GAM ha prestato al MAO “Kotatsu (J. Stempel)” di Tobias Rehberger, il MAO ha ricambiato il favore prestandole Chiara Lee e freddie Murphy, il cui intervento sonoro – grazie anche alla collaborazione con l’artista sakha Aldana Duoraan – sorprende i visitatori proprio sulle scale della Galleria d’Arte. L’occasione? Seconda Risonanza. Se ricordate, l’anno scorso la nuova Direttrice della GAM – Chiara Bertola – aveva innescato un meccanismo di profondi cambiamenti che hanno preso il nome di Prima Risonanza[1]. La GAM sta cambiando aspetto e… assetto, grazie all’introduzione di novità come L’Intruso, i Quaderni dell’Intruso[2], il Deposito Vivente, l’ampliamento delle collezioni permanenti con un nuovo allestimento ispirato proprio ai temi della Seconda Risonanza e le mostre temporanee molto particolari. E i mutamenti – sia nell’architettura sia nell’organizzazione degli spazi sia nelle iniziative – stanno proseguendo la loro corsa: quest’anno, infatti, i protagonisti saranno Fausto Melotti, Alice Cattaneo, Giosetta Fioroni e i già citati Chiara Lee, freddie Murphy e Aldana Duoraan. E se nella Prima Risonanza i temi erano luce, colore e tempo, in questa seconda tappa sono ritmo, struttura e segno. Ora mettetevi comodi, così vi racconto il perché…

Collage di opere di Alice Cattaneo

Anche se può sembrare una scelta azzardata, parto con L’Intruso, anche perché l’installazione sonora a cura di Aldana Duoraan, Chiara Lee e freddie Murphy è ciò che accoglie e accompagna i visitatori su e giù per le scale della GAM. A un certo punto il suono “accade”, proprio come un’intrusione nella passeggiata tra le opere, ma non preoccupatevi, quel suono rappresenta una porta invisibile tra i mondi nelle sale. D’altronde non esiste una effettiva delimitazione dello spazio fisico alla GAM, in quanto ogni artista in mostra espande la propria “risonanza” in ogni ambiente. Trovate un po’ di Melotti in giardino, nel Deposito Vivente e nella hall oltre che al primo piano. E, in un certo senso, c’è un po’ di Fausto Melotti nell’”aura” di Alice Cattaneo e un po’ di Cattaneo nelle sculture di Melotti. Vi suona strano, vero? Vi starete chiedendo: come può una persona ancora in vita influenzare le opere di un’altra persona spentasi nel lontano 1986? La risposta, ancora una volta, risiede nel termine “risonanza”. La si avverte nell’astrattismo “conciso” che permea entrambi gli artisti e le rispettive opere. La stessa cosa vale per l’aspetto sonoro di cui parlavo prima: non c’è alcun confine fisico che delimita gli ambienti eppure qualcosa ci avverte che ne stiamo attraversando uno… È una sensazione, ma le sensazioni non arrivano mai a caso e vanno “ascoltate” perché ci raccontano sempre qualcosa di interessante. Questo concetto di sensazione e di limite invisibile, tra l’altro, è alla base del lavoro di Alice Cattaneo, tanto è vero che la mostra dedicata a lei si intitola “Dove lo spazio chiama il segno”. Questo titolo è nato da una conversazione che l’artista ha avuto con un maestro vetraio di Murano il quale, per indicarle quando e in quale punto tagliare il materiale per le sculture, ha suggerito di farlo dove questo “chiama”. Eccoci giunti al dunque: non c’è un segno fisico che dice “Tagliare qui”, ma un segno esiste nel momento in cui entriamo spiritualmente in comunicazione con ciò che ci circonda. Questo vale per tutto. A volte sentiamo che siamo chiamati a fare qualcosa e una voce da dentro – o da fuori, chissà – ci dice come dobbiamo agire. Chiamatelo “istinto”, “intuizione”, “sesto senso”, “magia”, “empatia”, “connessione”, ma il risultato con cambierà. Evidentemente qualcosa del materiale “risuona” nella mente nella mente dell’artista e l’unica via percorribile, per lei, è “vibrare” alla stessa frequenza.

Collage di opere di Alice Cattaneo

Un’altra parola chiave di questa Seconda Risonanza potrebbe infatti essere “interconnessioni”.

Collage di opere di Alice Cattaneo

Io non ci capisco molto di arte astratta o concettuale, ma mi affido sempre alle sensazioni, a ciò che le opere mi comunicano quando le osservo o quando il mio sguardo si posa su di esse di sfuggita. Se qualcosa attira la mia attenzione, mi soffermo su quel qualcosa e lascio che mi parli. E, a malincuore, devo dire che ciò che ha destato la mia curiosità è stato quel che sta “dietro” le opere più che le opere in sé. Un po’ come era accaduto per i lavori di Maria Morganti e Mary Heilmann (sulle quali cui trovate un articolo sempre qui, su questo blog). Si tratta, per me, di Arte che va oltre l’Arte in una sorta di allargamento dei confini entro i quali rinchiudiamo la nostra idea già consolidata di Arte. Se usciamo da tali schemi mentali, comprendiamo che tutto ciò che ci dona delle emozioni e delle sensazioni può essere una forma d’Arte. Un colore, una sagoma, una consistenza… Nella mostra su Melotti, ad esempio, è stata l’ombra proiettata da un’opera a darmi un piccolo fremito; così come gli spicchi di luna in ferro che caratterizzano alcune sculture. Guardando queste ultime, mi sono resa conto di quanto ogni cosa venga ridimensionata a seconda dell’osservatore. C’è una relatività delle dimensioni che sta alla base di tutto l’universo: siamo minuscoli e insignificanti se osservati dalla Galassia, ma visti con gli occhi di una formica siamo giganteschi e spaventosi, probabilmente. La gravità di un problema varia a seconda che questo sia esterno o interno all’osservatore.

Per quanto riguarda, invece, le opere di Cattaneo, ho provato una certa attrazione per un blu intenso, del quale ho avuto una strana – e, forse, antica - paura; e per un giallo che mi ha dato una sferzata di energia. Mentre passeggiavo tra i cubi disposti a terra, immaginavo di trovarmi tra i ghiacci. E se guardavo soltanto davanti a me o ai miei piedi mi sentivo solo un puntino in mezzo a tanti, mentre se alzavo gli occhi mi accorgevo di far parte di un Tutto più grande e complesso. Con quei montanti di legno che – collegati – andavano da una sala all’altra, potevo davvero sentire una certa “risonanza” col Tutto. Ci vuole sensibilità per accorgersene – mi rendo conto – una sensibilità che, fortunatamente, possiedo. Posso percepire i legami invisibili che tengono unite le cose e che trasformano oggetti inanimati in esperienze e colori in ricordi. Tuttavia non posso dire che quest’Arte faccia per me. Sono una persona di larghe vedute, ma il mio gusto prescinde dalla mia capacità di analisi.

Collage di opere di Alice Cattaneo

Al di là di tutto questo mio sproloquiare, di cui molto probabilmente non vi importa nulla, restano da dire cose più tecniche e oggettive sui 4 allestimenti che fino al 7 settembre 2025 occuperanno gli ampi spazi della GAM di Torino. Se avrete la pazienza di restare con me ancora un po’ vi entrerò nel dettaglio.

Collage di opere di Fausto Melotti

 

I curatori e sound artist Chiara Lee e freddie Murphy sono gli Intrusi[3] invitati per questa Seconda Risonanza. A loro è stato dato l’arduo compito di trasformare le scale del museo in strumento musicale. Il progetto è in collaborazione con il MAO Museo d’Arte Orientale di cui da circa 3 anni curano il public program Evolving Soundscapes. Lee e Murphy si sono a loro volta avvalsi della collaborazione di Aldana Duoraan, artista sakha che, attraverso il suono, esplora la cosmologia sakha delle tre anime, o Üs Kut. In questa tradizione, l’anima è composta da tre componenti: il Salgyn Kut (Spirito dell’aria), il Lye Kut (Anima della madre) e il Buor Kut (Spirito della terra), che si separano e si riuniscono in un ciclo continuo di transizione tra mondi fisici, simbolici e spirituali. Tale  passaggio tra i mondi si concretizza in un suono che riflette la tradizione del khomus (strumento che ricorda uno scacciapensieri) e che stimola riflessioni sullo scorrere del tempo, sulla fluidità dell’esistenza e sulle intersezioni tra il visibile e l’invisibile.

Collage di opere di Fausto Melotti

Salendo le scale ci si imbatte in “Lasciatemi divertire”[4], la mostra sulle opere di Fausto Melotti, il cui titolo trae ispirazione da un’ironica affermazione dell’artista e sottolinea l’approccio giocoso e sperimentale che ha caratterizzato la sua ricerca. L’esposizione – un percorso attraverso l’intera produzione di Melotti dagli esordi astratti degli anni Trenta fino alla maturità artistica – presenta oltre 150 opere dislocate in varie aree del Museo, compreso il giardino, in cui campeggia Modulazione ascendente (opera del 1977). La mostra si sviluppa in 8 sezioni, organizzate secondo un criterio cronologico e tematico. Il cuore dell’esposizione è rappresentato da un allestimento che sia architettonicamente sia metaforicamente simboleggia il periodo più intenso della produzione dell’artista. 

Collage di opere di Fausto Melotti

Questo cuore è racchiuso infatti nelle sale interne del percorso di visita ed evoca gli studi dell’artista a Milano (via Leopardi) e Roma (via Margutta), spazi di intensa creatività in periodi differenti della sua carriera. Le narrazioni delle altre sale si concatenano, talvolta sfumando l’una nell’altra. Il percorso espositivo attraversa i principali nuclei tematici della poetica melottiana: dall’Arte astratta della prima metà degli anni Trenta alle suggestioni urbane e naturali di Città e foreste, passando per Cosmologie e i miti antichi, fino agli Alfabeti, testimonianza del profondo legame di Melotti con la scrittura, oltre che al disegno e alla scultura. 

Collage di opere di Fausto Melotti

Due sezioni, intitolate Intervalli e contrappunti e Pioggia e vento, raccolgono opere ispirate rispettivamente alla musica e ai ritmi naturali. Risonanze che si intrecciano indissolubilmente ai concetti di vuoto e silenzio.

Collage di opere di Fausto Melotti

 Infine, ampio spazio è riservato alla Produzione ceramica e ai Teatrini, piccoli scenari abitati da figure antropomorfe che Melotti ha realizzato a partire dalla metà degli anni Quaranta. La presentazione delle opere tiene conto delle esposizioni storiche di Melotti, adottando soluzioni espositive da lui stesso ideate, come i caratteristici piedistalli a “I”. Per completare il quadro, la Biblioteca della GAM espone al proprio interno una selezione di documenti e fotografie.

Collage di opere di Fausto Melotti

“Dove lo spazio chiama il segno”[5] di Alice Cattaneo racconta invece diversi momenti della ricerca dell’artista, una ricerca improntata su parole come ritmo, interruzione e cura.

Giosetta Fioroni, "La ragazza della TV", 1964, smalto su tela.

Per quanto riguarda Giosetta Fioroni[6], invece, c’è poco da dire, ma… molto da guardare. La mostra[7], seppur piccina piccina - si compone infatti, di un dipinto e quattro filmati, proiettati su altrettanti schermi – parla al visitatore senza far uso del sonoro.  I film, proprio come il dipinto, sono muti, ma raccontano di specchi e riflessioni, e della strana risonanza che mette in collegamento vanità e timidezza, tangibilità e inconsistenza, essenza e apparenza. Come specchi negli specchi, le immagini che vediamo nelle opere di Giosetta Fioroni non sono di prima mano, ma rappresentano riflessi di immagini, e questo dà l’impressione di trovarsi in una realtà bidimensionale che fa di tutto per apparire a tre dimensioni. L’ “argento” – colore dominante delle pellicole in b/n (e del dipinto) – accentua, secondo me, questa impressione. Ma io non so granché nemmeno di Arte filmico-cinematografica, quindi mi rifaccio, ancora una volta, alle mie sensazioni… Comunque sia, a proposito delle sue opere, Fioroni ha detto: “Cercavo la leggerezza quasi di un’antica sequenza dei fratelli Lumière, del primo cinema, qualcosa che proprio trascorre […], qualcosa che poteva suggerire in chi guardava un che di tremulo, di estremamente lieve: un’apparenza, una dissolvenza”.

 

Le mostre di cui vi ho parlato in questo articolo sono talmente particolari che non so se affermare che sono adatte a tutti o solo ad alcuni, ma una cosa è certa: se andrete a visitarle, non limitatevi a osservarle con gli occhi, cercate di “sentirle” con lo stomaco.



[1] Se volete saperne di più, potete consultare l’articolo che scrissi in merito. Lo trovate a questo link: 

https://manumelaracconti.blogspot.com/2024/10/berthe-morisot-e-la-nuova-gam.html 

[2] Generosamente offerti e pubblicati da Allemandi Editore.

[3] Dal 16 aprile al 7 settembre 2025 alla GAM di Torino.

[4] A cura di Chiara Bertola e Fabio Cafagna, in collaborazione con Fondazione Fausto Melotti e con il contributo di Galleria Christian Stein e il sostegno di Hauser & Wirth. Dal 16 aprile al 7 settembre 2025. Alla GAM di Torino.

[5] A cura di Giovanni Giacomo Paolin. Dal 16 aprile  al 7 settembre 2025. Spazio del Contemporaneo, GAM Torino.

[6] Coppie, Gioco, Goffredo e Solitudine femminile – questi i titoli delle pellicole – sono stati girati tutti nel 1967, ma la mostra si apre con un dipinto del 1964, intitolato La ragazza della TV.

 

[7] A cura di Elena Volpato. Visitabile dal 16 aprile al 7 settembre 2025. Nella videoteca della GAM di Torino.

 


giovedì 17 aprile 2025

HAORI: non solo abiti!

 

Collage di Haori, dalla mostra "HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone", dal 12 aprile al 7 settembre 2025 al MAO di Torino.
“L’arte trova la propria perfezione in se stessa e non al di fuori. Non può essere giudicata alla stregua di un criterio esterno di simiglianza. Essa è un velo piuttosto che uno specchio. Ha fiori che nessuna foresta conosce, uccelli che nessuna selva alberga. Crea e distrugge i mondi e può tirare la luna giù dal cielo con un filo di scarlatto. Sono sue le «forme più vere che il vero», suoi i grandi archetipi dei quali le cose esistenti non ci sembrano che copie imperfette. Per essa la natura non ha leggi, non ha uniformità. L’arte può operare miracoli a volontà, e quando chiama i mostri dalle profondità, essi vengono. Può far fiorire il mandorlo d’inverno e coprire di neve le messi mature. A un suo comando la brina posa il dito argenteo sulle labbra ardenti del giugno, ed i leoni alati escono cauti dalle tane delle colline della Lidia, fauni sorridono stranamente quando essa si avvicina. È adorata da deità dalla faccia di falco, e i centauri galoppano al suo fianco”.[1]

Questa citazione di Oscar Wilde trova la sua massima applicazione nelle mosse che la Fondazione Torino Musei sta attuando sulla grande scacchiera progettuale che vede coinvolti, in particolare, GAM e MAO. Artisti, opere e collaborazioni sono come fluidi che permeano le sale (e le scale, ma questa è una storia che potrete leggere nel prossimo post) e le mostre di queste grandi Istituzioni culturali. Dal 12 aprile al 7 settembre, infatti, il MAO espone “HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone”, una mostra che non ha attualmente precedenti né in Italia né in Europa e si pone quindi come una novità assoluta nel panorama delle proposte aventi come tematica l’arte dell’estremo Oriente. Essa indaga la cultura materiale nipponica volgendo lo sguardo esclusivamente alla moda maschile. Nel suo contesto, una rigorosa selezione di giacche sovra-kimono e vesti sotto-kimono, accompagnate da alcune vesti tradizionali da bambino, conduce passo passo alla scoperta di un patrimonio in cui le immagini tessute, stampate o dipinte rivelano un mondo affascinante e al contempo celato. I kimono da uomo custodiscono un universo iconografico unico che nella varietà decorativa dei soggetti declina le sfaccettature della cultura del Paese del Sol Levante in puntuali riferimenti alla letteratura e al mondo naturale, all’arte della guerra e alle sfide del progresso.

Non trascurando il valore estetico intrinseco di ogni capo d’abbigliamento, la mostra ha il merito di presentare questi abiti sotto una nuova luce, mettendone in risalto un importante valore documentario fino ad ora poco considerato.

Le immagini presenti sui kimono non sono solo esempi di preziosa manifattura, ma documenti e testimonianze che illustrano e approfondiscono le fasi cruciali della storia giapponese del primo Novecento, periodo segnato da profonde trasformazioni dovute alla modernizzazione accelerata e a conflitti generazionali. Come tali costituiscono l’occasione per affrontare temi di grande attualità, fra cui le questioni legate all’espansione giapponese del XX secolo in Asia e le implicazioni politiche, sociali e culturali che ne scaturirono, in un tiremmolla fatto di modernizzazione accelerata e tensioni imperialiste.

Francesca Corrias "dischiude" un HAORI della mostra "HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

All’interno del percorso espositivo sono presentate opere di artisti contemporanei come strumenti di analisi e riflessione, che invitano i visitatori a orientarsi in un’epoca storica di relazioni complesse tra Giappone, Cina e Corea ancora poco conosciuta in Italia. Dagli anni Venti agli anni Cinquanta, dunque, ma con “intrusioni” contemporanee. Come dicevo, si tratta di un lavoro compiuto sulle culture materiali, ossia su ciò che la cultura nella sua interezza rappresenta. Così, dal suono all’immagine, passando per tutto ciò che ci sta in mezzo, come il design e l’architettura, “si dà spazio all’artista contemporaneo più che all’arte contemporanea, e allo sguardo dell’artista sulle complessità storiche e culturali che tratta, che vive e che comunica”. Queste le parole del Direttore Davide Quadrio in merito alla fitta rete di collaborazioni che ha portato il MAO a poter allestire una mostra tanto articolata.

Il progetto espositivo si avvale, infatti, della consulenza curatoriale di Silvia Vesco (docente di Storia dell’Arte Giapponese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia), Lydia Manavello, You Mi (curatrice indipendente e attualmente docente di Arte ed Economia all’Università di Kassel), in collaborazione con il Direttore del MAO Davide Quadrio, e la curatrice Anna Musini, con l’assistenza di Francesca Corrias.

Ma entriamo nel vivo di HAORI…

 "HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

 

I kimono da uomo[2] (a differenza di quelli femminili) racchiudono e definiscono un universo che si rende accessibile  solo nel contesto domestico o nel segreto di un incontro amoroso. A rivelare l’anima di chi li indossa sono i soggetti che impreziosiscono gli interni delle giacche o l’intera superficie dei sotto-kimono: immagini seduttive o narrative, sempre sofisticate, abilmente tessute o dipinte, elaborate con minuzia o appena suggerite da qualche tratto d’inchiostro, raccontano la cultura del Sol Levante con riferimenti alla letteratura e all’arte della guerra, al mondo naturale e alla sfera divina.

Tradizionalmente considerati espressione dell’intimità quotidiana, gli haori e le juban in mostra assumono un nuovo significato e diventano un’occasione per affrontare  temi di grande attualità, fra cui le questioni legate all’espansione giapponese del XX secolo in Asia e alle implicazioni politiche e sociali che ne caratterizzarono il contesto storico.

All’interno di ogni kimono – sia femminile che maschile – sono sedimentati molteplici livelli di lettura: da quello estetico – magari anche appariscente e/o scontato – a quello via via più profondo, pregno di significati, contesti, nessi, che sono in grado, alla stregua di un documento cartaceo, di raccontare una parte della Storia del Giappone.

Non solo indumenti, dunque, bensì Storia e Cultura di un popolo affascinante e misterioso, così lontano eppure così attraente da destare sempre molto interesse.

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

 

Le parole di Oscar Wilde si adattano perfettamente al contesto della mostra in oggetto in quanto vedono l’Arte come un velo che custodisce la propria bellezza all’interno e, sebbene rappresenti spesso la realtà, si tratta comunque di una rappresentazione unica e irripetibile. Anche gli haori possiedono queste caratteristiche: le loro decorazioni si trovano all’interno, custodite dal velo di seta[3] e protette dal corpo di chi li indossa. Allo stesso modo, anche l’anima della persona che porta il kimono gode della protezione di quest’ultimo. È interessante notare che tale parallelismo può essere applicato non solo ai singoli individui, ma anche alla cultura collettiva; il popolo nipponico, infatti, sembra avere due identità: una pubblica e una privata…

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

 

A questo punto, anche se non è lo scopo della mostra[4], è inevitabile un confronto tra Oriente e Occidente: mentre nella consuetudine occidentale la fodera rimanda a una stoffa di trascurabile valore, nella moda maschile nipponica diviene la parte più preziosa della veste, quella che, pur celata ai più, svela il gusto o la personalità di chi la indossa; un trattamento analogo viene riservato ai sotto-kimono, la cui attraente superficie colloca in secondo piano quella del sobrio kimono indossato sopra. Tale pratica riflette un aspetto importante dell’estetica giapponese, che rifugge dall’ostentazione preferendo un’eleganza discreta.

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

Questa scelta si traduce, all’occhio occidentale, in una scoperta entusiasmante che rivela, in una sequenza serrata di fotogrammi, l’intero racconto di un popolo e di una nazione attraverso originalissime immagini della vita quotidiana o inquietanti rappresentazioni dei successi bellici, presenti all’interno degli abiti. Nei tessuti giapponesi questi soggetti vengono definiti con il termine omoshirogara, traducibile con “disegno bizzarro” in riferimento ai motivi decorativi moderni individuabili nei kimono degli anni Trenta e Quaranta.

Un’altra differenza non trascurabile tra la cultura orientale e quella occidentale è il modo in cui le forme del corpo – sia maschile sia femminile – vengono trattate: se da noi sono messe in risalto con abiti succinti e attillati, da loro è l’opposto. Se noi diamo più importanza al “chi”, loro danno maggior risalto al “cosa”. Il kimono “egualizza” i corpi che riveste perché dà spazio all’estetica dell’abito.  È per questo motivo che il ricamo, il dipinto o la stampa sembrano essere, per i giapponesi, più rilevanti del corpo che li porta, ma in verità ogni ricamo, ogni dipinto e ogni stampa svelano e dischiudono informazioni molto intime e personali della persona che li indossa.

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

A dirla tutta, HAORI è una mostra imperniata sui contrasti: tradizione e innovazione, antico e moderno, storia passata e contemporaneità, sfera pubblica e sfera privata; differenze tra maschio e femmina, interno ed esterno, estetica e intimità, bellezza interiore e bellezza fisica, visibile e invisibile, individuo e collettività. Differenze non tanto tra Oriente ed Occidente, dunque, bensì tra Giappone e Giappone. Basti pensare al fatto che non è raro veder passeggiare nella stessa strada giapponesi vestiti all’occidentale e giapponesi vestiti con abiti tradizionali[5].

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
Ci sono paragoni tra tessuto sociale e tessuto degli abiti; parallelismi tra Storia dipinta (o ricamata) e Storia “vera”, “reale”; melting pot di nazionalismo ed esterofilia, patriottismo ed espansionismo. Gli haori, raccontano mondi: per prima cosa perché – come ho già avuto modo di dire - la decorazione è nascosta, e - in secondo luogo - perché svelano contesti, significati e immagini attinenti agli ambiti più diversi. Da quelli più tradizionali e pertinenti alla natura, alle religioni, alla cultura, a quelli che sono stati creati a partire  dagli anni Dieci del Novecento e che hanno dimostrato un nesso con le vicissitudini storico-politiche che in questo periodo travolgono e stravolgono il Giappone e non solo…


Infatti, tra la fine del secolo XIX e il principio di quello successivo, il Giappone, seguendo un programma governativo improntato alla rapida acquisizione della tecnologia moderna e al rinnovamento delle istituzioni statali, era riuscito ad accrescere il proprio potere economico e militare, tanto da arrivare a competere, in tempi rapidissimi, con le grandi potenze industriali del tempo. Consapevole della propria forza e aspirando all’ampliamento dei propri confini, il Paese del Sol Levante aveva così intrapreso una politica estera aggressiva volgendo lo sguardo alle vicine Cina, Russia e Corea.

Kimono della performance "Kishi the Vampire" (2016) di Royce Ng. Replica di un kimono di propaganda giapponese originale della fine degli anni '30, con una mappa della Manciuria e della Corea sotto il dominio giapponese sul retro. Courtesy l'artista.

L’entusiasmo per la cultura occidentale aveva contemporaneamente portato la società giapponese ad acquisirne i tratti fondamentali, modernizzando le infrastrutture e la fisionomia delle città, potenziando l’esercito e l’industria, promuovendo la fondazione di università e la formazione dei propri studenti all’estero. Frattanto, gli esiti vittoriosi delle campagne militari, pur non privi di conseguenze sul piano internazionale, avevano alimentato l’orgoglio nazionale, rafforzando ulteriormente l’impegno nella politica espansionistica. In questo scenario di profondo mutamento, l’abbigliamento venne ad assumere un ruolo assai rilevante nel rappresentare efficacemente le aspirazioni e le contraddizioni della società del tempo.

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

All’epoca il kimono era ancora ampiamente diffuso e, se da un lato gli abiti all’occidentale erano funzionali alla vita e al lavoro nelle grandi città, esso, rinnovandosi nei tessuti e nei motivi decorativi, si era mantenuto attuale. Si assiste allora alla produzione di kimono da bambino improntati, per i maschi, alla rappresentazione di vivaci fantasie inneggianti alla modernità nelle sue più diverse accezioni. Inizialmente vi furono raffigurati innocui giocattoli in forma di automobiline, tram e treni insieme agli sport più in auge (baseball, equitazione, atletica), ma dagli anni Trenta in avanti prevalsero le immagini di bimbi in uniforme, della cavalleria, di aerei, navi e carri armati in azione. I tempi erano cambiati e la collettività andava assumendo una fisionomia spiccatamente militarista, della quale i piccoli kimono divennero protagonisti: per loro tramite la propaganda di stato puntava a instillare nelle giovani generazioni l’amor di patria e lo spirito di sacrificio. Tuttavia, come attestano gli abiti esposti in questa sala, i motivi palesemente moderni convissero, con assoluta disinvoltura, con quelli di soggetto bellico tradizionale, quali l’elmo e l’armatura da samurai, le frecce e la spada, a dimostrazione del permanere di un forte legame con le proprie origini.

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

Per dare  vita a questa mostra è stata operata una selezione molto stretta di haori dalla collezione di Lydia Manavello. Sono stati scelti circa 50 haori e juban che coprono la prima metà del Novecento, sono state create delle sezioni tematiche su base cronologica e, per facilitare il percorso ai visitatori, su una delle prime pareti  sono stati riportati i fatti storici più salienti del Giappone.

In dialogo con i kimono sono presentate opere di artisti contemporanei in forma di video e di installazione, volti a costituire ulteriori strumenti di confronto e riflessione, invitando così il pubblico a orientarsi in un’epoca storica di relazioni complesse e attualissime tra Giappone, Cina e Corea.

Gli artisti e le artiste partecipanti sono: FUJI|||||||||||TA, Tsubasa Hori, Kimsooja, Mizu, Royce Ng[6], Yasujirō Ozu, Tobias Rehberger, Wang Tuo.

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

 

I temi trattati, invece, vanno dal massacro dell’isola di Jeju allo Zodiaco, passando per l’utilizzo dei kimono da bambino come mezzo propagandistico[7], il giardino ideale, la botanica, la Tigre e il Drago[8], il monte Fuji, la natura imperfetta e transitoria ma proprio per questo viva e reale. E ancora: monaci, eroi, letterati, lanterne, luce e ombra, la ritualità del quotidiano, la guerra, il progresso, lo sport e gli scambi culturali con l’Occidente[9].

 

Le parole chiave della mostra sono: memoria, assenza e presenza. Visibili soprattutto nell’opera di Tobias Rehberger - “Kotatsu (J. Stempel)” - realizzata nel 2001 per la mostra DO NOT EAT INDUSTRIALLY PRODUCED EGGS alla Staatliche Kunsthalle Baden-Baden (Germania), che si inserisce nella più ampia ricerca dell’artista sulla capacità degli oggetti di racchiudere e raccontare storie al di là del loro usa quotidiano.

Tobias Rehberger, "Kotatsu (J.Stempel)", 2001, legno, ferro, pagine di giornale, porcellana. Prestito della GAM - Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Torino.

L’installazione ricostruisce una casa giapponese, composta da un ingresso, un bagno e una sala da tè con al centro un kotatsu, il tradizionale tavolino basso riscaldato. Il legno utilizzato proviene da mobili di abitazioni tedesche acquistati da Rehberger dopo la morte dei proprietari, successivamente scomposti e riassemblati in nuovi elementi d’arredo sulla base di disegni tecnici forniti dall’artista stesso: “Quello che mi interessa è di cosa è fatta una cosa, il modo in cui è fatta e il fatto che essa è stata a sua volta qualcosa”.

Mobili e arredi diventano qui strumenti di narrazione e riflessione su temi complessi quali la transitorietà, la memoria, la perdita e il cambiamento. Lo spostamento di contesto, evocato anche nel titolo dell’opera che riporta il nome del proprietario originario, crea un legame tra culture e temporalità distanti, muovendosi tra funzionalità e immaginazione, tra una dimensione individuale e una collettiva.

Il lavoro di Tobias Rehberger si sviluppa, dunque, all’incrocio tra arte, design e architettura, intrecciando linguaggi e immagini eterogenei. Tra i suoi riferimenti più ricorrenti vi sono il Modernismo, il design degli anni Cinquanta e Sessanta e la cultura giapponese. La sua pratica artistica trasforma la natura degli oggetti e il loro significato sociale e culturale, sovvertendone la funzione originaria per generare nuove letture e connessioni simboliche.

 

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

 Gioco di presenze/assenze anche nell’opera di Kimsooja - “A Needle Woman” -  un progetto performativo che l’artista ha attivato a partire dal 1999 in otto città diverse del mondo – Tokyo, Shanghai, Delhi, New York, Città del Messico, Cairo, Lagos e Londra – che dimostra l’impegno dell’artista nel confronto con culture diverse. Kimsooja studia pittura all’università di Hongik a Seul dove si laurea nel 1984. Successivamente trascorre sei mesi in Francia grazie a una borsa di studio e tra il 1992 e il 1993 è artista in residenza presso il centro di arte contemporanea MoMA P.S.1 di New York, città nella quale torna nel 1998 e dove si stabilisce per quasi vent’anni pur continuando a viaggiare. Fin dall’infanzia la sua vita si caratterizza per frequenti spostamenti: il padre lavora per i militari durante la guerra di Corea e la sua famiglia si muove da un paesino all’altro, da una città all’altra quasi ogni due anni facendo e disfacendo le valigie.

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

La condizione nomadica e i concetti di luogo e dislocazione, incontro e separazione, nostalgia, desiderio e memoria sono centrali all’interno della sua pratica artistica che muove dall’esperienza personale per giungere ad affrontare e abbracciare la dimensione collettiva: l’esistenza umana e la sua realtà. Le sue opere si caratterizzano per l’utilizzo di materiali di uso domestico e quotidiano mostrandone il valore politico, sociale, temporale e culturale e riconsegnando agli oggetti di cultura materiale la loro forza estetica all’interno della storia dell’arte contemporanea.

Bottari in Corea e in altri paesi asiatici è il nome dato al fagotto utilizzato tradizionalmente come oggetto di trasporto e migrazione in quanto costituisce il modo più facile, leggero e semplice per imballare e proteggere effetti personali e documenti in caso di emergenza.

I Bottari di Kimsooja sono realizzati con copriletti usati e riempiti di biancheria e vestiti appartenuti ad altre persone. In Corea il copriletto ricamato con simboli e messaggi benaugurali è regalato alle coppie appena sposate. “Il letto è il luogo simbolico della nascita, della morte, del fare l’amore, del sognare, del soffrire, e del morire – in qualche modo incornicia la nostra esistenza” come dice l’artista. I Bottari di Kimsooja racchiudono storie di corpi, raccontano al contempo presenze e assenze: le storie personali che contengono sono trasformate in narrazioni pubbliche e condivise, nei corpi che affrontano oppressioni storiche nel tentativo di curarne i traumi.

Kimsooja, "Bottari", 2022, lenzuola e asciugamani usati da Parigi. Galleria Raffaella Cortese, Milano - Albisola.

 

Il video in mostra è dedicato al capitolo di Tokyo: vestita con un abito nero e con i capelli lunghi raccolti in una coda che si adagiano sulla schiena rivolta verso la telecamera, l’artista è ripresa di spalle mentre attraversa il quartiere Shibouya. Kimsooja procede attraversando il flusso caotico e incessante del traffico pedonale dal quale a tratti sembra essere inglobata. Nelle diverse città in cui ha realizzato la performance la reazione dei passanti è diversa. A Tokyo le persone camminano con un ritmo serrato senza fermarsi a guardarla, ciascuno intento nei propri impegni.

Per tutta la durata del video il volto dell’artista non è mai visibile ma la sua posizione ferma, calma, determinata riporta a un atteggiamento contemplativo e di osservazione dello spazio circostante, un luogo che diventa sia fisico sia mentale. La donna artista è l’ago che cuce insieme il tessuto sociale umano con la realtà delle grandi capitali internazionali, con la complessità della vita contemporanea sempre più frammentata. Il suo corpo è ago e barometro che imperturbabile all’interno del vortice della vita urbana tiene insieme aspetti sociali, culturali, politici ma anche emotivi, unendo i corpi degli esseri umani, le loro singole intimità sia con uno spazio collettivo sia con significati esistenziali.

L’atto del cucire, spesso associato alla sfera domestica femminile, diventa un’azione di presa di consapevolezza critica, una forma di resistenza ma anche di cura e riparazione; l’artista diviene una cosa sola con la folla, trasforma se stessa nel tessuto che avvolge le persone e nell’ago che le cuce insieme.

Poi c’è Yasujirō Ozu, un regista/sceneggiatore che, con la sua produzione cinematografica, ha influenzato e ancora continua a ispirare generazioni di registi, non solo in Giappone, ma anche a livello internazionale. Con grazia e poesia, i suoi film raccontano visivamente la società nipponica tra gli anni ’40 e ’60 del Novecento, avvolta da un processo di trasformazione tra modernità e tradizione. Attraverso inquadrature statiche composte nel minimo dettaglio, Ozu narra con delicatezza e intimità la ritualità della vita quotidiana familiare; episodi di carattere privato si svolgono sullo sfondo della società contemporanea e del panorama storico-politico, fornendo l’occasione per riflettere su condizioni esistenziali, valori e sentimenti condivisi.

Nei suoi film è possibile cogliere particolari di interni domestici e dettagli di arredi che costituiscono aspetti essenziali della cultura giapponese, in cui ogni elemento assume un significato preciso, come parte di una composizione armonica. La ricerca di equilibrio estetico e bellezza coinvolge non solo gli oggetti di uso quotidiano, come gli utensili, ma si estende anche  agli spazi abitativi, come case e giardini. In questo processo di raffinata esplorazione della vita quotidiana e della cultura giapponese diventa persino possibile rintracciare connessioni tra il pensiero Zen e la cerimonia del tè.

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

Nel percorso espositivo è rappresentato un video che raccoglie, come un collage, alcuni episodi di due capolavori di Ozu, restaurati e distribuiti in Italia dalla casa di produzione Tucker: “Viaggio a Tokyo” (1953) e “Inizio estate” (1951). Realizzati nel dopoguerra, questi film proseguono nello stile del regista, già avviato dagli anni ’30, che consente di osservare da vicino i protagonisti e il loro mondo sullo scenario della società contemporanea in trasformazione. In “Inizio estate” (Bakushū), diverse generazioni di una famiglia sono scosse dall’impulsiva decisione di una figlia di sposarsi; in “Viaggio a Tokyo” (Tokyo Monogatari) una coppia di anziani genitori fa visita ai figli ormai cresciuti e indipendenti.

E c’è Wang Tuo, con “Tungus” che costituisce la terza parte di una serie di video - “The Northeast Tetralogy” – a cui l’artista inizia a lavorare nel 2017. Questo progetto a lungo termine, ambientato nel Nordest della Cina, affronta i dilemmi geopolitici del Nordest asiatico prendendo spunto da alcuni momenti della sua storia recente: a partire dal Movimento del 4 maggio, che nel 1919 diede inizio alla modernizzazione del Paese.

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

Uno dei contesti storici principali di Tungus è l’assedio di Changchun, la capitale dello stato fantoccio giapponese del Manchukuo, nel 1948; a quella data, dopo la fine della seconda guerra mondiale, il Giappone aveva ceduto da poco il suo controllo. Fu una battaglia silenziosa all’interno della guerra civile tra il Kuomintang e il Partito Comunista Cinese, combattuta senza fuoco e fumo e che nessuna delle due parti vuole ricordare; centinaia di migliaia di civili, intrappolati nel vuoto di credenze e ideologie creato dall’accerchiamento militare dei  due eserciti, persero la vita in una maniera primitiva: per fame.

Nel film, mentre tentano di fuggire da Changchun, due soldati della Divisione indipendente coreana dell’esercito popolare di liberazione cinese cominciano a rendersi conto di trovarsi in uno spazio e in un tempo che si sovrappongono a quelli dell’isola di Jeju, dove si era da poco verificato il massacro noto come “Jeju Uprising”, all’ombra della guerra di Corea. Nello stesso tempo uno studioso di mezza età che si rifiuta di lasciare la città di Changchun rivive, in un’allucinazione provocata dalla fame, i moti del 4 maggio 1919 e di conseguenza prenderà nuove decisioni. Partendo da questi fatti storici, Wang Tuo adatta, intreccia le narrazioni delle storie e delle antiche leggende popolari cinesi alle vicende dei suoi personaggi inserendo il tutto in uno spazio e in un tempo che rivelano il mutare della geografia del Nordest cinese.

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

La storia di stallo ideologico e brutalità comune al Nordest asiatico non ha ricevuto molta attenzione nella storiografia nazionale. Eppure da nessun’altra parte è percepita con più acutezza che in questo freddo delirio la ricerca di verità e autoconservazione in relazione alle masse, a una società che non sembra ancora reale.

Attraverso questi momenti allucinatori, il film illustra una conversione collettiva a quello che Wang Tuo definisce “pan-sciamanesimo”, in cui i corpi fisici delle persone diventano un mezzo di consapevolezza storica. Le loro esperienze inconsce del tempo e dello spazio diventano diacroniche e si rianimano, in un momento di radicale trasformazione.

L’artista vede la realtà del Nordest asiatico rimodellata dal potere della psiche intrappolata nel trauma storico. Al tempo stesso le radici dei dilemmi geopolitici del Nordest asiatico, sepolte in profondità nella sua storia recente, vengono portate gradualmente allo scoperto e ricostruite. In questo modo, Tungus diventa una testimonianza simbolica del possibile punto di incontro tra storia e futuro, tra eredità spirituale e modernità.

Gli artisti in mostra si concentrano sul tema della memoria, rappresentando fedelmente il periodo storico-politico che la mostra affronta  inerente all’espansionismo e all’imperialismo giapponese (colonizzazione del Giappone della Corea dal 1905 e poi ufficialmente  dal 1910 e poi l’invasione della Manciuria in Cina nel 1932).

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

Passeggiando per le sale si sente forte e chiaro il concetto di cultura materiale in quanto le opere esposte sono dotate di una dignità estetica – per l’alta qualità artigianale/manifatturiera – hanno dei significati rituali e spi-rituali, e sono in grado di collegare la tradizione e la Storia passata alla contemporaneità.

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

Salvatore Settis – archeologo e storico dell’arte – ha tenuto una lectio magistralis di cui qualche giorno fa è stato pubblicato un estratto su Il Sole 24 Ore e Silvia Vesco, in conferenza stampa, ha citato quelle parole così calzanti a ciò che il Museo e la mostra in questione si propongono di fare e  di essere:

“In verità, per tutti – anche i più colti – il Museo è luogo di spaesamenti, una continua altalena fra il noto e l’ignoto, l’ovvio e il sorprendente; ma per tutti può essere una macchina per pensare, il segno e il simbolo di una comunità che frequenta il passato per creare il nuovo. Il Museo è il sommario del mondo: repertorio di oggetti e diritti, archivio di invenzioni, laboratorio di emozioni. Il cuore del Museo è proprio qui, nel precario equilibrio fra ciò che ci offre e ciò che ci nega, fra ciò che comprendiamo e ciò che ci sfugge, fra le molteplici presenze e le inevitabili assenze. Il Museo strappa gli oggetti al loro contesto di origine, ma rivendica per sé il ruolo di teatro della memoria. È un’isola propizia alla solitudine, ma anche alla creatività, non solo artistica, ma anche civile. Infatti nasce con un altrove separato dalla polis che lo ha generato, ma non ha senso e non ha futuro se a quella polis non torna per rigenerarla”.

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

Parafrasando le parole di Davide Quadrio, possiamo dire che per “Haori. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone” è stato usato un linguaggio che coniuga visitatore, opera d’arte ed esperienza. Questa mostra è la dimostrazione che il lavoro ben fatto risponde anche alle Istituzioni in quanto il Consolato Generale del Giappone ha voluto dare il patrocinio a questa mostra. Cosa non banale, non usuale e non scontata. E un lavoro ben fatto è sicuramente il frutto di collaborazioni ben riuscite. Si pensi, ad esempio, a quella tra GAM e MAO – come ritorno della e alla polis – ma anche a quella con la Galleria Raffaella Cortese, con Camilla Mammoliti (per il restauro degli haori), con Chiara Lee e freddie Murphy, coi volontari MioMao, e i tantissimi altri. Le interconnessioni tra Musei e Istituzioni possono davvero cambiare la concezione dell’Arte!

"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"

 

Per Jean Clair “il collezionare è un passatempo malinconico, ma favorisce il pensiero creativo. È malinconico lo sforzo di radunare ogni cosa spinti dall’horror vacui per scoprire che tale sforzo non ha oggetto e non ha fine. Mancherà sempre il pezzo con cui la nostra collezione potrebbe chiudersi. Non arriverà mai l’istante in cui la sabbia della nostra clessidra possa versare l’ultimo granello”.

Ma, per fortuna, la vasta collezione di Lydia Manavello – da cui provengono le opere in mostra – non è fonte di malinconia per lei, anzi, il fatto di esporre i pezzi d’arte in suo possesso la rende felice. Non è una collezionista gelosa, poiché il suo spirito di collezionismo è animato dal concetto della condivisione. Una collezione fine a se stessa, dal suo punto di vista, non ha senso perché gli oggetti non possono continuare a dialogare tra loro e con il tempo che li accoglie. In più, collezionare abiti, la porta in contatto con le persone che si ipotizza li abbiano indossati, fatti confezionare, commissionati, fatti decorare e abbiano scelto determinate decorazioni/soggetti. Per lei non ci sono opere d’arte più vive degli abiti. Gli abiti, infatti, se pregevoli, si possono perfino appendere alle pareti come fossero quadri. E, indossandoli, se ne possono reinterpretare i contenuti, si possono condividere o si possono semplicemente sfoggiare. La collezione di Manavello è nata proprio dalla volontà di ricostruire una parte della storia giapponese. Nobile intento, notevole risultato, oserei dire.

 Mi sono sentita molto onorata per aver potuto visitare la mostra sugli haori in anteprima, sia per la sua unicità sia per la sua bellezza. Se potete, visitatela anche voi: la sua aura intima e misteriosa vi conquisterà, perché gli haori non solo solo abiti, ma Arte e Storia!

 

 

ALTRE NOTE:

- Il MAO ha una nuova guida in tre lingue, prodotta da Silvana Editoriale.

- Tra settembre e ottobre saranno a disposizione tutti i libri in collana che mostreranno il lavoro fatto nella sua totalità al MAO sotto la direzione di Davide Quadrio.

- Continua la collaborazione del MAO con la Corea (Torino, infatti, è gemellata con Gwangju, una città coreana).

- Per “EXPOSED Torino foto Festival” – mostra fotografica visitabile dal 16 aprile al 2 giugno – espongono 16 artisti internazionali, in rappresentanza di 12 Paesi diversi. La sede principale dell’evento si trova all’Accademia Albertina di Belle Arti e ospita 5 mostre, tra le quali quella di un artista congolese di grande interesse.

- A maggio il MAO allestirà nuovamente le 53 stazioni della Tōkaidō Hiroshige, nell’area giapponese.

- Prossimamente – a fine ottobre - il MAO sarà protagonista di una grande trasformazione architettonica.

 

 



[1] Oscar Wilde, “Aforismi”, pp. 85-86, Newton Compton Editori

[2] Poiché le giacche sovrakimono (haori) maschili tradizionalmente presentano la parte decorata  (destinata a una fruizione personale e intima di chi le possiede e indossa) all’interno, sono state esposte rovesciate, cioè con l’interno rivolto verso l’esterno.

 

[3] I tessuti più usati sono: taffetà di seta e crespo di seta.

[4] Silvia Vesco, infatti, dichiara: “Non si narra tanto il rapporto tra Oriente e Occidente, ma un linguaggio. Gli haori esposti trattano un periodo complesso per il Giappone, attraverso la modernizzazione, dopo il periodo Meiji e quindi l’apertura forzosa verso l’Occidente e questa volontà di modernizzazione a volte esagerata che si è unita a un’idea di espansione verso Cina e Corea”.

 

[5] Nei periodi Taishō (1912-1926) e primo Shōwa (1926-1950) la progressiva appropriazione degli abiti occidentali non soppiantò l’uso dei kimono e l’abbigliamento maschile tradizionale, pur mostrandosi ancora affezionato ai motivi decorativi connessi al tema naturale, alla religione o alle arti, accentuò il proprio carattere di unicità attingendo a vivide immagini tratte dalla vita quotidiana o dai fatti più significativi della storia contemporanea.

 

[6] Il video “Kishi the Vampire” di Royce Ng presenta una narrazione con contenuti e riferimenti espliciti che potrebbero urtare la sensibilità dei visitatori. Si consiglia la visione ad un pubblico adulto.

[7] In mostra è presente una sezione interamente dedicata agli abiti da bambino.

[8] Tigre e Drago: rispettivamente forza terrena e saggezza celeste, rappresentano energie opposte che promuovono la creazione di un unico equilibrio vitale.

[9] Negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, il Giappone si era dotato di strutture industriali e apparati militari all’avanguardia, tali da permettere l’occupazione di territori stranieri. Contemporaneamente, la recente introduzione dell’economia capitalistica aveva dato vita a un’imprenditoria industriale e mercantile dinamiche, che avevano stimolato tanto la produzione di generi e beni destinati all’esportazione, quanto il commercio interno, agevolando la nascita di un’economia improntata al consumo di massa. L’apertura ai contatti con il mondo esterno aveva favorito i viaggi e incoraggiato la diffusione della cultura occidentale attraverso la conoscenza dell’arte e della produzione letteraria. Anche l’ambito sportivo fu coinvolto nel rinnovamento, promuovendo la passione per gli sport sia nella pratica quotidiana sia nella partecipazione a eventi e partite: al tradizionale e seguitissimo sumo, lo sport nazionale, si aggiunsero il baseball, le corse dei cavalli, l’atletica e lo sci.