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Collage di Haori, dalla mostra "HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone", dal 12 aprile al 7 settembre 2025 al MAO di Torino.
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“L’arte trova la propria perfezione in se stessa e non al di fuori.
Non può essere giudicata alla stregua di un criterio esterno di simiglianza.
Essa è un velo piuttosto che uno specchio. Ha fiori che nessuna foresta
conosce, uccelli che nessuna selva alberga. Crea e distrugge i mondi e può
tirare la luna giù dal cielo con un filo di scarlatto. Sono sue le «forme più
vere che il vero», suoi i grandi archetipi dei quali le cose esistenti non ci
sembrano che copie imperfette. Per essa la natura non ha leggi, non ha
uniformità. L’arte può operare miracoli a volontà, e quando chiama i mostri
dalle profondità, essi vengono. Può far fiorire il mandorlo d’inverno e coprire
di neve le messi mature. A un suo comando la brina posa il dito argenteo sulle
labbra ardenti del giugno, ed i leoni alati escono cauti dalle tane delle
colline della Lidia, fauni sorridono stranamente quando essa si avvicina. È
adorata da deità dalla faccia di falco, e i centauri galoppano al suo fianco”.
Questa citazione di Oscar
Wilde trova la sua massima applicazione nelle mosse che la Fondazione Torino
Musei sta attuando sulla grande scacchiera progettuale che vede coinvolti, in
particolare, GAM e MAO. Artisti, opere e collaborazioni sono come fluidi che
permeano le sale (e le scale, ma questa è una storia che potrete leggere nel
prossimo post) e le mostre di queste grandi Istituzioni culturali. Dal 12
aprile al 7 settembre, infatti, il MAO espone “HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone”,
una mostra che non ha attualmente precedenti né in Italia né in Europa e si
pone quindi come una novità assoluta nel panorama delle proposte aventi come
tematica l’arte dell’estremo Oriente. Essa indaga la cultura materiale
nipponica volgendo lo sguardo esclusivamente alla moda maschile. Nel suo
contesto, una rigorosa selezione di giacche sovra-kimono e vesti sotto-kimono,
accompagnate da alcune vesti tradizionali da bambino, conduce passo passo alla
scoperta di un patrimonio in cui le immagini tessute, stampate o dipinte
rivelano un mondo affascinante e al contempo celato. I kimono da uomo custodiscono un universo iconografico unico che
nella varietà decorativa dei soggetti declina le sfaccettature della cultura
del Paese del Sol Levante in puntuali riferimenti alla letteratura e al mondo
naturale, all’arte della guerra e alle sfide del progresso.
Non trascurando il valore
estetico intrinseco di ogni capo d’abbigliamento, la mostra ha il merito di
presentare questi abiti sotto una nuova luce, mettendone in risalto un
importante valore documentario fino ad ora poco considerato.
Le immagini presenti sui kimono non sono solo esempi di preziosa
manifattura, ma documenti e testimonianze che illustrano e approfondiscono le
fasi cruciali della storia giapponese del primo Novecento, periodo segnato da
profonde trasformazioni dovute alla modernizzazione accelerata e a conflitti
generazionali. Come tali costituiscono l’occasione per affrontare temi di
grande attualità, fra cui le questioni legate all’espansione giapponese del XX
secolo in Asia e le implicazioni politiche, sociali e culturali che ne
scaturirono, in un tiremmolla fatto di modernizzazione accelerata e tensioni
imperialiste.
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Francesca Corrias "dischiude" un HAORI della mostra "HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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All’interno del percorso
espositivo sono presentate opere di artisti contemporanei come strumenti di analisi
e riflessione, che invitano i visitatori a orientarsi in un’epoca storica di
relazioni complesse tra Giappone, Cina e Corea ancora poco conosciuta in
Italia. Dagli anni Venti agli anni Cinquanta, dunque, ma con “intrusioni”
contemporanee. Come dicevo, si tratta di un lavoro compiuto sulle culture
materiali, ossia su ciò che la cultura nella sua interezza rappresenta. Così,
dal suono all’immagine, passando per tutto ciò che ci sta in mezzo, come il design e l’architettura, “si dà spazio all’artista contemporaneo più
che all’arte contemporanea, e allo sguardo dell’artista sulle complessità
storiche e culturali che tratta, che vive e che comunica”. Queste le parole
del Direttore Davide Quadrio in merito alla fitta rete di collaborazioni che ha
portato il MAO a poter allestire una mostra tanto articolata.
Il progetto espositivo si
avvale, infatti, della consulenza curatoriale di Silvia Vesco (docente di
Storia dell’Arte Giapponese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia), Lydia
Manavello, You Mi (curatrice indipendente e attualmente docente di Arte ed
Economia all’Università di Kassel), in collaborazione con il Direttore del MAO
Davide Quadrio, e la curatrice Anna Musini, con l’assistenza di Francesca
Corrias.
Ma
entriamo nel vivo di HAORI…
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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I kimono da uomo (a differenza di quelli
femminili) racchiudono e definiscono un universo che si rende accessibile solo nel contesto domestico o nel segreto di
un incontro amoroso. A rivelare l’anima di chi li indossa sono i soggetti che
impreziosiscono gli interni delle giacche o l’intera superficie dei sotto-kimono: immagini seduttive o narrative,
sempre sofisticate, abilmente tessute o dipinte, elaborate con minuzia o appena
suggerite da qualche tratto d’inchiostro, raccontano
la cultura del Sol Levante con riferimenti alla letteratura e all’arte della
guerra, al mondo naturale e alla sfera divina.
Tradizionalmente considerati
espressione dell’intimità quotidiana, gli haori
e le juban in mostra assumono un
nuovo significato e diventano un’occasione per affrontare temi di grande attualità, fra cui le
questioni legate all’espansione giapponese del XX secolo in Asia e alle implicazioni politiche e sociali che ne
caratterizzarono il contesto storico.
All’interno di ogni kimono – sia femminile che maschile –
sono sedimentati molteplici livelli di lettura: da quello estetico – magari
anche appariscente e/o scontato – a quello via via più profondo, pregno di
significati, contesti, nessi, che sono in grado, alla stregua di un
documento cartaceo, di raccontare una parte della Storia del Giappone.
Non
solo indumenti, dunque, bensì Storia e Cultura di un popolo affascinante e
misterioso, così lontano eppure così attraente da destare sempre
molto interesse.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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Le parole di Oscar Wilde si
adattano perfettamente al contesto della mostra in oggetto in quanto vedono l’Arte
come un velo che custodisce la propria bellezza all’interno e, sebbene
rappresenti spesso la realtà, si tratta comunque di una rappresentazione unica
e irripetibile. Anche gli haori possiedono
queste caratteristiche: le loro decorazioni si trovano all’interno, custodite
dal velo di seta
e protette dal corpo di chi li indossa. Allo stesso modo, anche l’anima della
persona che porta il kimono gode
della protezione di quest’ultimo. È interessante notare che tale parallelismo
può essere applicato non solo ai singoli individui, ma anche alla cultura
collettiva; il popolo nipponico, infatti, sembra avere due identità: una
pubblica e una privata…
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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A questo punto, anche se non è
lo scopo della mostra, è inevitabile un confronto tra Oriente e Occidente:
mentre nella consuetudine occidentale la fodera rimanda a una stoffa di
trascurabile valore, nella moda maschile nipponica diviene la parte più
preziosa della veste, quella che, pur celata ai più, svela il gusto o la
personalità di chi la indossa; un trattamento analogo viene riservato ai sotto-kimono, la cui attraente superficie
colloca in secondo piano quella del sobrio kimono
indossato sopra. Tale pratica riflette un aspetto importante dell’estetica
giapponese, che rifugge dall’ostentazione preferendo un’eleganza discreta.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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Questa scelta si traduce,
all’occhio occidentale, in una scoperta entusiasmante che rivela, in una
sequenza serrata di fotogrammi, l’intero racconto di un popolo e di una nazione
attraverso originalissime immagini della vita quotidiana o inquietanti
rappresentazioni dei successi bellici, presenti all’interno degli abiti. Nei
tessuti giapponesi questi soggetti vengono definiti con il termine omoshirogara, traducibile con “disegno
bizzarro” in riferimento ai motivi decorativi moderni individuabili nei kimono degli anni Trenta e Quaranta.
Un’altra
differenza non trascurabile tra la cultura orientale e quella
occidentale è il modo in cui le forme del corpo – sia maschile sia femminile –
vengono trattate: se da noi sono messe in risalto con abiti succinti e
attillati, da loro è l’opposto. Se noi diamo più importanza al “chi”, loro
danno maggior risalto al “cosa”. Il kimono
“egualizza” i corpi che riveste perché dà spazio all’estetica dell’abito. È per questo motivo che il ricamo, il dipinto
o la stampa sembrano essere, per i giapponesi, più rilevanti del corpo che li
porta, ma in verità ogni ricamo, ogni dipinto e ogni stampa svelano e
dischiudono informazioni molto intime e personali della persona che li indossa.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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A dirla tutta, HAORI è una
mostra imperniata sui contrasti: tradizione e innovazione, antico e moderno,
storia passata e contemporaneità, sfera pubblica e sfera privata; differenze
tra maschio e femmina, interno ed esterno, estetica e intimità, bellezza
interiore e bellezza fisica, visibile e invisibile, individuo e
collettività. Differenze non tanto tra Oriente ed Occidente, dunque, bensì tra
Giappone e Giappone. Basti pensare al fatto che non è raro veder passeggiare
nella stessa strada giapponesi vestiti all’occidentale e giapponesi vestiti con
abiti tradizionali.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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Ci sono paragoni tra tessuto
sociale e tessuto degli abiti; parallelismi tra Storia dipinta (o ricamata) e
Storia “vera”, “reale”; melting pot di
nazionalismo ed esterofilia, patriottismo ed espansionismo. Gli haori, raccontano mondi: per prima cosa
perché – come ho già avuto modo di dire - la decorazione è nascosta, e - in
secondo luogo - perché svelano contesti, significati e immagini attinenti agli
ambiti più diversi. Da quelli più tradizionali e pertinenti alla natura, alle
religioni, alla cultura, a quelli che sono stati creati a partire dagli anni Dieci del Novecento e che hanno
dimostrato un nesso con le vicissitudini storico-politiche che in questo
periodo travolgono e stravolgono il Giappone e non solo…
Infatti, tra la fine del
secolo XIX e il principio di quello successivo, il Giappone, seguendo un
programma governativo improntato alla rapida acquisizione della tecnologia
moderna e al rinnovamento delle istituzioni statali, era riuscito ad accrescere
il proprio potere economico e militare, tanto da arrivare a competere, in tempi
rapidissimi, con le grandi potenze industriali del tempo. Consapevole della
propria forza e aspirando all’ampliamento dei propri confini, il Paese del Sol
Levante aveva così intrapreso una politica estera aggressiva volgendo lo
sguardo alle vicine Cina, Russia e Corea.
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Kimono della performance "Kishi the Vampire" (2016) di Royce Ng. Replica di un kimono di propaganda giapponese originale della fine degli anni '30, con una mappa della Manciuria e della Corea sotto il dominio giapponese sul retro. Courtesy l'artista.
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L’entusiasmo per la cultura
occidentale aveva contemporaneamente portato la società giapponese ad
acquisirne i tratti fondamentali, modernizzando le infrastrutture e la
fisionomia delle città, potenziando l’esercito e l’industria, promuovendo la
fondazione di università e la formazione dei propri studenti all’estero.
Frattanto, gli esiti vittoriosi delle campagne militari, pur non privi di
conseguenze sul piano internazionale, avevano alimentato l’orgoglio nazionale,
rafforzando ulteriormente l’impegno nella politica espansionistica. In questo
scenario di profondo mutamento, l’abbigliamento venne ad assumere un ruolo
assai rilevante nel rappresentare efficacemente le aspirazioni e le
contraddizioni della società del tempo.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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All’epoca il kimono era ancora ampiamente diffuso e,
se da un lato gli abiti all’occidentale erano funzionali alla vita e al lavoro
nelle grandi città, esso, rinnovandosi nei tessuti e nei motivi decorativi, si
era mantenuto attuale. Si assiste allora alla produzione di kimono da bambino improntati, per i maschi,
alla rappresentazione di vivaci fantasie inneggianti alla modernità nelle sue
più diverse accezioni. Inizialmente vi furono raffigurati innocui giocattoli in
forma di automobiline, tram e treni insieme agli sport più in auge (baseball, equitazione, atletica), ma
dagli anni Trenta in avanti prevalsero le immagini di bimbi in uniforme, della
cavalleria, di aerei, navi e carri armati in azione. I tempi erano cambiati e
la collettività andava assumendo una fisionomia spiccatamente militarista,
della quale i piccoli kimono divennero
protagonisti: per loro tramite la propaganda di stato puntava a instillare
nelle giovani generazioni l’amor di patria e lo spirito di sacrificio.
Tuttavia, come attestano gli abiti esposti in questa sala, i motivi palesemente
moderni convissero, con assoluta disinvoltura, con quelli di soggetto bellico
tradizionale, quali l’elmo e l’armatura da samurai, le frecce e la spada, a
dimostrazione del permanere di un forte legame con le proprie origini.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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Per dare vita a questa mostra è stata operata una
selezione molto stretta di haori dalla
collezione di Lydia Manavello. Sono stati scelti circa 50 haori e juban che coprono
la prima metà del Novecento, sono state create delle sezioni tematiche su base
cronologica e, per facilitare il percorso ai visitatori, su una delle prime
pareti sono stati riportati i fatti
storici più salienti del Giappone.
In dialogo con i kimono sono presentate opere di artisti
contemporanei in forma di video e di installazione, volti a costituire
ulteriori strumenti di confronto e riflessione, invitando così il pubblico a
orientarsi in un’epoca storica di relazioni complesse e attualissime tra
Giappone, Cina e Corea.
Gli
artisti e le artiste partecipanti sono: FUJI|||||||||||TA, Tsubasa Hori,
Kimsooja, Mizu, Royce Ng,
Yasujirō Ozu, Tobias Rehberger, Wang Tuo.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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I temi trattati, invece, vanno
dal massacro dell’isola di Jeju allo Zodiaco, passando per l’utilizzo dei kimono da bambino come mezzo
propagandistico,
il giardino ideale, la botanica, la Tigre e il Drago, il monte Fuji, la
natura imperfetta e transitoria ma proprio per questo viva e reale. E ancora:
monaci, eroi, letterati, lanterne, luce e ombra, la ritualità del quotidiano,
la guerra, il progresso, lo sport e gli scambi culturali con l’Occidente.
Le parole chiave della mostra
sono: memoria, assenza e presenza.
Visibili soprattutto nell’opera di Tobias
Rehberger - “Kotatsu (J. Stempel)”
- realizzata nel 2001 per la mostra DO NOT EAT INDUSTRIALLY PRODUCED EGGS alla
Staatliche Kunsthalle Baden-Baden (Germania), che si inserisce nella più ampia
ricerca dell’artista sulla capacità degli oggetti di racchiudere e raccontare
storie al di là del loro usa quotidiano.
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Tobias Rehberger, "Kotatsu (J.Stempel)", 2001, legno, ferro, pagine di giornale, porcellana. Prestito della GAM - Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Torino.
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L’installazione ricostruisce
una casa giapponese, composta da un ingresso, un bagno e una sala da tè con al
centro un kotatsu, il tradizionale
tavolino basso riscaldato. Il legno utilizzato proviene da mobili di abitazioni
tedesche acquistati da Rehberger dopo la morte dei proprietari, successivamente
scomposti e riassemblati in nuovi elementi d’arredo sulla base di disegni
tecnici forniti dall’artista stesso: “Quello che mi interessa è di cosa è
fatta una cosa, il modo in cui è fatta e il fatto che essa è stata a sua volta
qualcosa”.
Mobili e arredi diventano qui
strumenti di narrazione e riflessione su temi complessi quali la transitorietà, la memoria, la perdita e
il cambiamento. Lo spostamento di contesto, evocato anche nel titolo
dell’opera che riporta il nome del proprietario originario, crea un legame tra
culture e temporalità distanti, muovendosi tra funzionalità e immaginazione,
tra una dimensione individuale e una
collettiva.
Il lavoro di Tobias Rehberger
si sviluppa, dunque, all’incrocio tra arte, design
e architettura, intrecciando linguaggi e immagini eterogenei. Tra i suoi
riferimenti più ricorrenti vi sono il Modernismo, il design degli anni
Cinquanta e Sessanta e la cultura giapponese. La sua pratica artistica
trasforma la natura degli oggetti e il loro significato sociale e culturale,
sovvertendone la funzione originaria per generare nuove letture e connessioni
simboliche.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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Gioco di presenze/assenze
anche nell’opera di Kimsooja - “A Needle Woman” - un progetto performativo che l’artista ha
attivato a partire dal 1999 in otto città diverse del mondo – Tokyo, Shanghai,
Delhi, New York, Città del Messico, Cairo, Lagos e Londra – che dimostra
l’impegno dell’artista nel confronto con culture diverse. Kimsooja studia
pittura all’università di Hongik a Seul dove si laurea nel 1984.
Successivamente trascorre sei mesi in Francia grazie a una borsa di studio e
tra il 1992 e il 1993 è artista in residenza presso il centro di arte
contemporanea MoMA P.S.1 di New York, città nella quale torna nel 1998 e dove
si stabilisce per quasi vent’anni pur continuando a viaggiare. Fin
dall’infanzia la sua vita si caratterizza per frequenti spostamenti: il padre
lavora per i militari durante la guerra di Corea e la sua famiglia si muove da
un paesino all’altro, da una città all’altra quasi ogni due anni facendo e
disfacendo le valigie.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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La condizione nomadica e i
concetti di luogo e dislocazione,
incontro e separazione, nostalgia, desiderio e memoria sono centrali
all’interno della sua pratica artistica che muove dall’esperienza personale per
giungere ad affrontare e abbracciare la dimensione
collettiva: l’esistenza umana e la sua realtà. Le sue opere si
caratterizzano per l’utilizzo di materiali di uso domestico e quotidiano
mostrandone il valore politico, sociale, temporale e culturale e riconsegnando
agli oggetti di cultura materiale la loro forza estetica all’interno della
storia dell’arte contemporanea.
Bottari
in
Corea e in altri paesi asiatici è il nome dato al fagotto utilizzato
tradizionalmente come oggetto di trasporto e migrazione in quanto costituisce
il modo più facile, leggero e semplice per imballare e proteggere effetti
personali e documenti in caso di emergenza.
I Bottari di Kimsooja sono realizzati con copriletti usati e riempiti
di biancheria e vestiti appartenuti ad altre persone. In Corea il copriletto
ricamato con simboli e messaggi benaugurali è regalato alle coppie appena
sposate. “Il letto è il luogo simbolico della nascita, della morte, del fare
l’amore, del sognare, del soffrire, e del morire – in qualche modo incornicia
la nostra esistenza” come dice l’artista. I Bottari di Kimsooja racchiudono storie di corpi, raccontano al
contempo presenze e assenze: le storie personali che contengono sono
trasformate in narrazioni pubbliche
e condivise, nei corpi che affrontano oppressioni storiche nel tentativo di
curarne i traumi.
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Kimsooja, "Bottari", 2022, lenzuola e asciugamani usati da Parigi. Galleria Raffaella Cortese, Milano - Albisola.
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Il video in mostra è dedicato
al capitolo di Tokyo: vestita con un abito nero e con i capelli lunghi raccolti
in una coda che si adagiano sulla schiena rivolta verso la telecamera,
l’artista è ripresa di spalle mentre attraversa il quartiere Shibouya. Kimsooja
procede attraversando il flusso caotico e incessante del traffico pedonale dal
quale a tratti sembra essere inglobata. Nelle diverse città in cui ha
realizzato la performance la reazione dei passanti è diversa. A Tokyo le
persone camminano con un ritmo serrato senza fermarsi a guardarla, ciascuno
intento nei propri impegni.
Per tutta la durata del video
il volto dell’artista non è mai visibile ma la sua posizione ferma, calma,
determinata riporta a un atteggiamento contemplativo e di osservazione dello
spazio circostante, un luogo che diventa sia fisico sia mentale. La donna
artista è l’ago che cuce insieme il tessuto sociale umano con la realtà delle
grandi capitali internazionali, con la complessità della vita contemporanea
sempre più frammentata. Il suo corpo è ago e barometro che imperturbabile
all’interno del vortice della vita urbana tiene insieme aspetti sociali,
culturali, politici ma anche emotivi, unendo i corpi degli esseri umani, le
loro singole intimità sia con uno spazio collettivo sia con significati
esistenziali.
L’atto del cucire, spesso
associato alla sfera domestica femminile, diventa un’azione di presa di
consapevolezza critica, una forma di resistenza ma anche di cura e riparazione;
l’artista diviene una cosa sola con la folla, trasforma se stessa nel tessuto
che avvolge le persone e nell’ago che le cuce insieme.
Poi c’è Yasujirō Ozu, un regista/sceneggiatore che, con la sua produzione
cinematografica, ha influenzato e ancora continua a ispirare generazioni di
registi, non solo in Giappone, ma anche a livello internazionale. Con grazia e
poesia, i suoi film raccontano visivamente la società nipponica tra gli anni
’40 e ’60 del Novecento, avvolta da un processo di trasformazione tra modernità
e tradizione. Attraverso inquadrature statiche composte nel minimo dettaglio,
Ozu narra con delicatezza e intimità la ritualità
della vita quotidiana familiare; episodi di carattere privato si svolgono sullo sfondo della società contemporanea e del panorama storico-politico, fornendo
l’occasione per riflettere su condizioni esistenziali, valori e sentimenti
condivisi.
Nei suoi film è possibile
cogliere particolari di interni domestici e dettagli di arredi che
costituiscono aspetti essenziali della cultura giapponese, in cui ogni elemento
assume un significato preciso, come parte di una composizione armonica. La
ricerca di equilibrio estetico e bellezza coinvolge non solo gli oggetti di uso
quotidiano, come gli utensili, ma si estende anche agli spazi abitativi, come case e giardini.
In questo processo di raffinata esplorazione
della vita quotidiana e della cultura giapponese diventa persino possibile
rintracciare connessioni tra il pensiero
Zen e la cerimonia del tè.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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Nel percorso espositivo è
rappresentato un video che raccoglie, come un collage, alcuni episodi di due capolavori di Ozu, restaurati e
distribuiti in Italia dalla casa di produzione Tucker: “Viaggio a Tokyo” (1953) e “Inizio
estate” (1951). Realizzati nel dopoguerra, questi film proseguono nello
stile del regista, già avviato dagli anni ’30, che consente di osservare da
vicino i protagonisti e il loro mondo sullo scenario della società
contemporanea in trasformazione. In “Inizio
estate” (Bakushū), diverse
generazioni di una famiglia sono scosse dall’impulsiva decisione di una figlia
di sposarsi; in “Viaggio a Tokyo” (Tokyo Monogatari) una coppia di anziani
genitori fa visita ai figli ormai cresciuti e indipendenti.
E c’è Wang Tuo, con “Tungus”
che costituisce la terza parte di una serie di video - “The Northeast Tetralogy” – a cui l’artista inizia a lavorare nel
2017. Questo progetto a lungo termine, ambientato nel Nordest della Cina,
affronta i dilemmi geopolitici del
Nordest asiatico prendendo spunto da alcuni momenti della sua storia
recente: a partire dal Movimento del 4 maggio, che nel 1919 diede inizio alla
modernizzazione del Paese.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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Uno dei contesti storici
principali di Tungus è l’assedio di
Changchun, la capitale dello stato fantoccio giapponese del Manchukuo, nel
1948; a quella data, dopo la fine della seconda guerra mondiale, il Giappone
aveva ceduto da poco il suo controllo. Fu una battaglia silenziosa all’interno
della guerra civile tra il Kuomintang e il Partito Comunista Cinese, combattuta
senza fuoco e fumo e che nessuna delle due parti vuole ricordare; centinaia di
migliaia di civili, intrappolati nel vuoto di credenze e ideologie creato
dall’accerchiamento militare dei due
eserciti, persero la vita in una maniera primitiva: per fame.
Nel film, mentre tentano di
fuggire da Changchun, due soldati della Divisione indipendente coreana
dell’esercito popolare di liberazione cinese cominciano a rendersi conto di
trovarsi in uno spazio e in un tempo che si sovrappongono a quelli dell’isola
di Jeju, dove si era da poco verificato il massacro noto come “Jeju Uprising”,
all’ombra della guerra di Corea. Nello stesso tempo uno studioso di mezza età
che si rifiuta di lasciare la città di Changchun rivive, in un’allucinazione
provocata dalla fame, i moti del 4 maggio 1919 e di conseguenza prenderà nuove
decisioni. Partendo da questi fatti storici, Wang Tuo adatta, intreccia le
narrazioni delle storie e delle antiche leggende popolari cinesi alle vicende
dei suoi personaggi inserendo il tutto in uno spazio e in un tempo che rivelano
il mutare della geografia del Nordest cinese.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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La storia di stallo ideologico
e brutalità comune al Nordest asiatico non ha ricevuto molta attenzione nella
storiografia nazionale. Eppure da nessun’altra parte è percepita con più
acutezza che in questo freddo delirio la ricerca di verità e autoconservazione
in relazione alle masse, a una società che non sembra ancora reale.
Attraverso questi momenti
allucinatori, il film illustra una conversione collettiva a quello che Wang Tuo
definisce “pan-sciamanesimo”, in cui i corpi fisici delle persone diventano un
mezzo di consapevolezza storica. Le loro esperienze inconsce del tempo e dello
spazio diventano diacroniche e si rianimano, in un momento di radicale trasformazione.
L’artista vede la realtà del
Nordest asiatico rimodellata dal potere della psiche intrappolata nel trauma
storico. Al tempo stesso le radici dei dilemmi geopolitici del Nordest
asiatico, sepolte in profondità nella sua storia recente, vengono portate
gradualmente allo scoperto e ricostruite. In questo modo, Tungus diventa una testimonianza simbolica del possibile punto di
incontro tra storia e futuro, tra eredità spirituale e modernità.
Gli artisti in mostra si
concentrano sul tema della memoria, rappresentando fedelmente il periodo
storico-politico che la mostra affronta
inerente all’espansionismo e all’imperialismo giapponese (colonizzazione
del Giappone della Corea dal 1905 e poi ufficialmente dal 1910 e poi l’invasione della Manciuria in
Cina nel 1932).
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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Passeggiando per le sale si
sente forte e chiaro il concetto di cultura materiale in quanto le opere
esposte sono dotate di una dignità estetica – per l’alta qualità
artigianale/manifatturiera – hanno dei significati rituali e spi-rituali, e
sono in grado di collegare la tradizione e la Storia passata alla
contemporaneità.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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Salvatore Settis – archeologo
e storico dell’arte – ha tenuto una lectio
magistralis di cui qualche giorno fa è stato pubblicato un estratto su Il Sole 24 Ore e Silvia Vesco, in
conferenza stampa, ha citato quelle parole così calzanti a ciò che il Museo e
la mostra in questione si propongono di fare e
di essere:
“In
verità, per tutti – anche i più colti – il Museo è luogo di spaesamenti, una
continua altalena fra il noto e l’ignoto, l’ovvio e il sorprendente; ma per
tutti può essere una macchina per pensare, il segno e il simbolo di una
comunità che frequenta il passato per creare il nuovo. Il Museo è il sommario
del mondo: repertorio di oggetti e diritti, archivio di invenzioni, laboratorio
di emozioni. Il cuore del Museo è proprio qui, nel precario equilibrio fra ciò
che ci offre e ciò che ci nega, fra ciò che comprendiamo e ciò che ci sfugge,
fra le molteplici presenze e le inevitabili assenze. Il Museo strappa gli
oggetti al loro contesto di origine, ma rivendica per sé il ruolo di teatro
della memoria. È un’isola propizia alla solitudine, ma anche alla creatività,
non solo artistica, ma anche civile. Infatti nasce con un altrove separato
dalla polis che lo ha generato, ma non ha senso e non ha futuro se a quella
polis non torna per rigenerarla”.
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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Parafrasando le parole di
Davide Quadrio, possiamo dire che per “Haori.
Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone” è stato usato
un linguaggio che coniuga visitatore, opera d’arte ed esperienza. Questa mostra
è la dimostrazione che il lavoro ben fatto risponde anche alle Istituzioni in
quanto il Consolato Generale del Giappone ha voluto dare il patrocinio a questa
mostra. Cosa non banale, non usuale e non scontata. E un lavoro ben fatto è
sicuramente il frutto di collaborazioni ben riuscite. Si pensi, ad esempio, a
quella tra GAM e MAO – come ritorno della e alla polis – ma anche a quella con
la Galleria Raffaella Cortese, con Camilla Mammoliti (per il restauro degli haori), con Chiara Lee e freddie Murphy,
coi volontari MioMao, e i tantissimi altri. Le interconnessioni tra Musei e
Istituzioni possono davvero cambiare la concezione dell’Arte!
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"HAORI. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone"
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Per Jean Clair “il collezionare è un passatempo
malinconico, ma favorisce il pensiero creativo. È malinconico lo sforzo di
radunare ogni cosa spinti dall’horror vacui per scoprire che tale sforzo non ha
oggetto e non ha fine. Mancherà sempre il pezzo con cui la nostra collezione
potrebbe chiudersi. Non arriverà mai l’istante in cui la sabbia della nostra
clessidra possa versare l’ultimo granello”.
Ma, per fortuna, la vasta
collezione di Lydia Manavello – da cui provengono le opere in mostra – non è
fonte di malinconia per lei, anzi, il fatto di esporre i pezzi d’arte in suo
possesso la rende felice. Non è una collezionista gelosa, poiché il suo spirito
di collezionismo è animato dal concetto della condivisione. Una collezione fine
a se stessa, dal suo punto di vista, non ha senso perché gli oggetti non
possono continuare a dialogare tra loro e con il tempo che li accoglie. In più,
collezionare abiti, la porta in contatto con le persone che si ipotizza li
abbiano indossati, fatti confezionare, commissionati, fatti decorare e abbiano
scelto determinate decorazioni/soggetti. Per lei non ci sono opere d’arte più
vive degli abiti. Gli abiti, infatti, se pregevoli, si possono perfino
appendere alle pareti come fossero quadri. E, indossandoli, se ne possono reinterpretare
i contenuti, si possono condividere o si possono semplicemente sfoggiare. La
collezione di Manavello è nata proprio dalla volontà di ricostruire una parte
della storia giapponese. Nobile intento, notevole risultato, oserei dire.
Mi sono sentita molto onorata per aver potuto
visitare la mostra sugli haori in
anteprima, sia per la sua unicità sia per la sua bellezza. Se potete,
visitatela anche voi: la sua aura intima e misteriosa vi conquisterà, perché gli haori non solo solo abiti, ma Arte e Storia!
ALTRE NOTE:
- Il MAO ha una nuova guida in
tre lingue, prodotta da Silvana Editoriale.
- Tra settembre e ottobre
saranno a disposizione tutti i libri in collana che mostreranno il lavoro fatto
nella sua totalità al MAO sotto la direzione di Davide Quadrio.
- Continua la collaborazione
del MAO con la Corea (Torino, infatti, è gemellata con Gwangju, una città
coreana).
- Per “EXPOSED Torino foto
Festival” – mostra fotografica visitabile dal 16 aprile al 2 giugno – espongono
16 artisti internazionali, in rappresentanza di 12 Paesi diversi. La sede
principale dell’evento si trova all’Accademia Albertina di Belle Arti e ospita 5
mostre, tra le quali quella di un artista congolese di grande interesse.
- A maggio il MAO allestirà
nuovamente le 53 stazioni della Tōkaidō Hiroshige, nell’area giapponese.
- Prossimamente – a fine ottobre
- il MAO sarà protagonista di una grande trasformazione architettonica.
Poiché
le giacche sovrakimono (haori) maschili tradizionalmente
presentano la parte decorata (destinata
a una fruizione personale e intima di chi le possiede e indossa) all’interno, sono
state esposte rovesciate, cioè con l’interno rivolto verso l’esterno.
Silvia
Vesco, infatti, dichiara: “Non si narra
tanto il rapporto tra Oriente e Occidente, ma un linguaggio. Gli haori esposti
trattano un periodo complesso per il Giappone, attraverso la modernizzazione,
dopo il periodo Meiji e quindi l’apertura forzosa verso l’Occidente e questa
volontà di modernizzazione a volte esagerata che si è unita a un’idea di
espansione verso Cina e Corea”.
Nei
periodi Taishō (1912-1926) e primo Shōwa (1926-1950) la progressiva
appropriazione degli abiti occidentali non soppiantò l’uso dei kimono e l’abbigliamento maschile
tradizionale, pur mostrandosi ancora affezionato ai motivi decorativi connessi
al tema naturale, alla religione o alle arti, accentuò il proprio carattere di
unicità attingendo a vivide immagini tratte dalla vita quotidiana o dai fatti
più significativi della storia contemporanea.
Negli
anni Trenta e Quaranta del Novecento, il Giappone si era dotato di strutture
industriali e apparati militari all’avanguardia, tali da permettere
l’occupazione di territori stranieri. Contemporaneamente, la recente introduzione
dell’economia capitalistica aveva dato vita a un’imprenditoria industriale e
mercantile dinamiche, che avevano stimolato tanto la produzione di generi e
beni destinati all’esportazione, quanto il commercio interno, agevolando la
nascita di un’economia improntata al consumo di massa. L’apertura ai contatti
con il mondo esterno aveva favorito i viaggi e incoraggiato la diffusione della
cultura occidentale attraverso la conoscenza dell’arte e della produzione
letteraria. Anche l’ambito sportivo fu coinvolto nel rinnovamento, promuovendo
la passione per gli sport sia nella pratica quotidiana sia nella partecipazione
a eventi e partite: al tradizionale e seguitissimo sumo, lo sport nazionale, si
aggiunsero il baseball, le corse dei cavalli, l’atletica e lo sci.