La domanda sorge spontanea: Jodi Picoult è stata coraggiosa o
presuntuosa, nello scrivere questo libro?
Per rispondere a questo
interrogativo tanto spinoso occorre fare una premessa: Jodi Picoult stessa
ritiene che questo libro sia diverso da tutti i suoi precedenti libri perché
scriverlo ha fatto sì che si scatenasse un radicale cambiamento nel suo modo di
pensare e credo che l’autrice abbia addirittura sentito il BISOGNO di scriverlo
per poter far ordine e chiarezza nei suoi pensieri, prima ancora che nei
pensieri e nelle opinioni del lettore. Dopotutto, l’argomento affrontato è
estremamente delicato, sebbene molto diffuso. Per dar vita a questo romanzo, la
Picoult ha attuato un durissimo lavoro di ricerca e di analisi: non ha soltanto
preso dei semplici spunti da fatti realmente accaduti e da persone realmente
esistite, ma ha rielaborato tutte le informazioni raccolte con grande
intensità. L’intento era ed è quello di esortare ognuno di noi a guardarsi dentro,
nel profondo dell’anima. Bisogna ascoltare sé stessi oltre che gli altri prima
di poter formulare pensieri non privi di coscienza e morale. L’autrice stessa
ha imparato a farlo e ha imparato – soprattutto – a fare tesoro delle
testimonianze e delle esperienze vissute in prima persona o da altri, ed è per
questo che è riuscita a scrivere con cognizione di causa la storia contenuta in
“Piccole grandi cose” rendendo giustizia ad ogni singolo punto di vista. Sì,
perché la struttura narrativa di “Piccole grandi cose” è identica a quella di
uno dei suoi precedenti romanzi, intitolato “La custode di mia sorella”. La
narrazione – infatti – si snoda attraverso molteplici punti di vista, così da
far entrare maggiormente il lettore all’interno del pensiero di tutti i
personaggi principali. Grazie a questo espediente narrativo è possibile
evincere una delle caratteristiche più importanti del razzismo: esso non è mai
unilaterale. Non si è razzisti solo quando si giudica un’altra razza inferiore
alla propria, ma lo si è anche quando ci si ripara dietro la razza come se
fosse una giustificazione alle nostre azioni o alle nostre inadempienze. Si è
razzisti quando ci si rifiuta di ammettere che certe cose hanno a che fare col
razzismo. Si è razzisti non solo quando si agisce a sfavore di un’altra razza,
ma anche quando non si agisce per proteggere il diritto inalienabile che TUTTI
abbiamo di stare su questa Terra. Non siamo tutti uguali, ma neanche tutti
diversi: semplicemente, apparteniamo ad un’UNICA RAZZA, ossia la RAZZA UMANA (o
genere umano, che dir si voglia). Questo non significa che bisogna far finta di
essere tutti uguali – perché sarebbe ipocrita – ma neanche sottolineare le
differenze con la chiara intenzione di sminuire l’altro, è una cosa moralmente
inaccettabile! Il bello di questo romanzo è proprio che tutti i personaggi
descritti e i loro punti di vista, sono trattati in maniera equa (o almeno
questa era l’intenzione della Picoult). Il rischio – scrivendo un romanzo
incentrato sul tema del razzismo – è - infatti - quello di risultare ovvi, scontati, a volte banali (di quella
banalità legata all’uso degli stereotipi) oppure ipocriti. Per fortuna, nella
scrittura della Picoult, non ho trovato alcuna di queste cose. Razzismo non
significa – infatti – solo pregiudizio; il razzismo non è la semplice – seppur
deplorevole – discriminazione fondata sul colore della pelle: il razzismo
implica anche il fatto di svantaggiare o avvantaggiare una razza rispetto a
un’altra. Talvolta questo “schieramento” avviene in maniera inconscia,
involontaria o inconsapevole, ma ciò non significa che sia una forma di
razzismo meno pericolosa perché il razzismo è spesso sinonimo di ignoranza, di
ottusità oltre che – altrettanto spesso – di cattiveria e di odio. E
l’ignoranza è difficile da combattere esattamente quanto lo è l’odio. Il
razzismo va di pari passo con la mancanza di comunicazione e – ATTENZIONE – non
ho detto mancanza di parole, ma di comunicazione (cosa che può avvenire anche
senza l’ausilio delle parole, per l’appunto). Il rispetto, innanzitutto.
Dobbiamo ricordare che chiunque, dentro di sé, ha sia luce sia oscurità, quindi
non ha senso identificare un’INTERA razza come il bene assoluto e un’altra come
il male assoluto!
Tutto questo è reso – come dicevo
poche righe sopra – grazie alla struttura narrativa, ma anche lo stile narrativo
gioca sicuramente un ruolo fondamentale nella complicatissima operazione di
rendere giustizia ad ogni punto di vista adottato. I sentimenti che i
personaggi provano – infatti – sono comprensibili anche grazie al linguaggio,
al tipo di termini utilizzati ad hoc dalla Picoult. Figure retoriche come
metafore e similitudini sono particolarmente esplicative delle situazioni o
degli stati d’animo narrati. Paradossalmente, la prosa della Picoult è molto
poetica, mai pesante o pretenziosa, ma – al contrario – ricca di pathos e –
all’occorrenza – di un’arguta ilarità che trovo sempre particolarmente
azzeccata. La scrittura di questa autrice esercita su di me un grande fascino,
la trovo quasi scenografica. La Picoult ha la capacità di farmi entrare nel
vivo della storia avvolgendomi in una sorta di “Dolby Surround” letterario. E’
una scrittura evocativa di immagini,
sensazioni, odori che mi lascia sempre dei segni sotto la pelle.
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