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sabato 26 agosto 2017

PICCOLE GRANDI COSE di Jodi Picoult. Corbaccio



La domanda sorge spontanea:  Jodi Picoult è stata coraggiosa o presuntuosa, nello scrivere questo libro?
Per rispondere a questo interrogativo tanto spinoso occorre fare una premessa: Jodi Picoult stessa ritiene che questo libro sia diverso da tutti i suoi precedenti libri perché scriverlo ha fatto sì che si scatenasse un radicale cambiamento nel suo modo di pensare e credo che l’autrice abbia addirittura sentito il BISOGNO di scriverlo per poter far ordine e chiarezza nei suoi pensieri, prima ancora che nei pensieri e nelle opinioni del lettore. Dopotutto, l’argomento affrontato è estremamente delicato, sebbene molto diffuso. Per dar vita a questo romanzo, la Picoult ha attuato un durissimo lavoro di ricerca e di analisi: non ha soltanto preso dei semplici spunti da fatti realmente accaduti e da persone realmente esistite, ma ha rielaborato tutte le informazioni raccolte con grande intensità. L’intento era ed è quello di esortare ognuno di noi a guardarsi dentro, nel profondo dell’anima. Bisogna ascoltare sé stessi oltre che gli altri prima di poter formulare pensieri non privi di coscienza e morale. L’autrice stessa ha imparato a farlo e ha imparato – soprattutto – a fare tesoro delle testimonianze e delle esperienze vissute in prima persona o da altri, ed è per questo che è riuscita a scrivere con cognizione di causa la storia contenuta in “Piccole grandi cose” rendendo giustizia ad ogni singolo punto di vista. Sì, perché la struttura narrativa di “Piccole grandi cose” è identica a quella di uno dei suoi precedenti romanzi, intitolato “La custode di mia sorella”. La narrazione – infatti – si snoda attraverso molteplici punti di vista, così da far entrare maggiormente il lettore all’interno del pensiero di tutti i personaggi principali. Grazie a questo espediente narrativo è possibile evincere una delle caratteristiche più importanti del razzismo: esso non è mai unilaterale. Non si è razzisti solo quando si giudica un’altra razza inferiore alla propria, ma lo si è anche quando ci si ripara dietro la razza come se fosse una giustificazione alle nostre azioni o alle nostre inadempienze. Si è razzisti quando ci si rifiuta di ammettere che certe cose hanno a che fare col razzismo. Si è razzisti non solo quando si agisce a sfavore di un’altra razza, ma anche quando non si agisce per proteggere il diritto inalienabile che TUTTI abbiamo di stare su questa Terra. Non siamo tutti uguali, ma neanche tutti diversi: semplicemente, apparteniamo ad un’UNICA RAZZA, ossia la RAZZA UMANA (o genere umano, che dir si voglia). Questo non significa che bisogna far finta di essere tutti uguali – perché sarebbe ipocrita – ma neanche sottolineare le differenze con la chiara intenzione di sminuire l’altro, è una cosa moralmente inaccettabile! Il bello di questo romanzo è proprio che tutti i personaggi descritti e i loro punti di vista, sono trattati in maniera equa (o almeno questa era l’intenzione della Picoult). Il rischio – scrivendo un romanzo incentrato sul tema del razzismo – è - infatti - quello di risultare  ovvi, scontati, a volte banali (di quella banalità legata all’uso degli stereotipi) oppure ipocriti. Per fortuna, nella scrittura della Picoult, non ho trovato alcuna di queste cose. Razzismo non significa – infatti – solo pregiudizio; il razzismo non è la semplice – seppur deplorevole – discriminazione fondata sul colore della pelle: il razzismo implica anche il fatto di svantaggiare o avvantaggiare una razza rispetto a un’altra. Talvolta questo “schieramento” avviene in maniera inconscia, involontaria o inconsapevole, ma ciò non significa che sia una forma di razzismo meno pericolosa perché il razzismo è spesso sinonimo di ignoranza, di ottusità oltre che – altrettanto spesso – di cattiveria e di odio. E l’ignoranza è difficile da combattere esattamente quanto lo è l’odio. Il razzismo va di pari passo con la mancanza di comunicazione e – ATTENZIONE – non ho detto mancanza di parole, ma di comunicazione (cosa che può avvenire anche senza l’ausilio delle parole, per l’appunto). Il rispetto, innanzitutto. Dobbiamo ricordare che chiunque, dentro di sé, ha sia luce sia oscurità, quindi non ha senso identificare un’INTERA razza come il bene assoluto e un’altra come il male assoluto!
Tutto questo è reso – come dicevo poche righe sopra – grazie alla struttura narrativa, ma anche lo stile narrativo gioca sicuramente un ruolo fondamentale nella complicatissima operazione di rendere giustizia ad ogni punto di vista adottato. I sentimenti che i personaggi provano – infatti – sono comprensibili anche grazie al linguaggio, al tipo di termini utilizzati ad hoc dalla Picoult. Figure retoriche come metafore e similitudini sono particolarmente esplicative delle situazioni o degli stati d’animo narrati. Paradossalmente, la prosa della Picoult è molto poetica, mai pesante o pretenziosa, ma – al contrario – ricca di pathos e – all’occorrenza – di un’arguta ilarità che trovo sempre particolarmente azzeccata. La scrittura di questa autrice esercita su di me un grande fascino, la trovo quasi scenografica. La Picoult ha la capacità di farmi entrare nel vivo della storia avvolgendomi in una sorta di “Dolby Surround” letterario. E’ una scrittura evocativa  di immagini, sensazioni, odori che mi lascia sempre dei segni sotto la pelle.

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