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Amélie Nothomb, PRIMO SANGUE, Edizioni Voland. Traduzione di Federica Di Lella.
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“Primo sangue” è il
centesimo libro di Amélie Nothomb. Sì, avete capito bene, il libro numero 100.
“Ma ovunque c’è scritto che è il trentesimo”, obietterete voi, “come mai questa
incongruenza?” La risposta è che non si tratta di una incongruenza. “In che
senso?” domanderete, allora. Nel senso che “Primo sangue” è il trentesimo libro
pubblicato su 100 libri effettivamente scritti. [Ad oggi, in realtà, 105.]
Dovete sapere, infatti, che la “madre” di questi “figli di carta”, Amélie
Nothomb, è una donna estremamente prolifica dal punto di vista letterario: ogni
giorno, da molti anni, scrive dalle 4 alle 8 del mattino. Soltanto una volta ha
fatto un’eccezione a questa routine ed è stata per lei un’esperienza orribile,
da non ripetere. “Primo sangue” è un omaggio di Amélie a suo padre, il
diplomatico Patrick Nothomb, morto durante il lockdown imposto a causa del Covid. Patrick, un uomo, un padre,
sopravvissuto a innumerevoli sciagure e disgrazie; e Amélie, una donna, una
figlia addolorata per una perdita tanto
inaspettata, e incredula perché il fatto di non aver potuto partecipare al
funerale le ha reso la notizia dell’accaduto ancor più inverosimile. È dunque
il trauma della perdita a scatenare nella scrittrice il desiderio di far
rivivere il proprio padre; è il trauma a spingerla e a consentirle di “dare la
voce” al padre, tanto è vero che – leggendo “Primo sangue” – il lettore ha
l’impressione di sentir parlare Patrick Nothomb. Chi lo ha conosciuto
personalmente ha potuto constatarne la “presenza” nelle pagine del romanzo,
proprio come se lo avesse scritto lui o, meglio, come se lo avesse raccontato
lui stesso, con le proprie parole, con la propria voce. Allo stesso modo, chi
non lo ha mai conosciuto, ma ha letto il libro di Amélie, ha l’impressione di
aver sentito parlare Patrick. È stato commovente poter ascoltare la scrittrice
che, al Salone Internazionale del Libro di Torino di quest’anno, in ben due
occasioni ha raccontato cosa ha significato per lei suo padre e cosa ha voluto
dire affermando di avergli “dato la voce”. Patrick Nothomb ha avuto un’infanzia
durissima, fatta di fame, di freddo, di privazioni e di violenza, ma il suo
carattere, forgiato in un ottimismo e in un entusiasmo eccessivi, anzi,
esasperati (ed esasperanti per Amélie e i suoi fratelli André e Juliette - che
spesso, da piccoli, venivano portati in gita nei lebbrosari o erano costretti a
vivere vergognandosi per il solo fatto di aver qualcosa da mangiare mentre
intorno a loro regnavano la povertà e la fame), gli ha permesso di conferire
un’aura di bellezza anche alle brutture della sua vita. Il libro, però, non ha
un assetto cronologico standard,
poiché si apre in medias res, in un
episodio della vita di Patrick che ha fatto di quest’ultimo un eroe, nel vero
senso della parola. È una scena, la prima, che richiama in maniera molto vivida
un’esperienza che anche lo scrittore russo Dostoevskij ha vissuto sulla propria
pelle: chi legge, infatti, si trova catapultato nello scenario di una
fucilazione. C’è un plotone di esecuzione, ci sono dodici fucilieri, c’è la
vita che dilata i propri tempi di fronte alla prospettiva della morte. Il
condannato è Patrick. Come risulta chiaro dalle prime parole del mio articolo,
Patrick si salverà, ma il lettore lo intuirà solamente nell’ultima pagina del
romanzo, quando la fine si riunirà al principio, chiudendo il cerchio della
giovinezza del protagonista. Amélie ci lascia, infatti, di fronte al plotone
d’esecuzione per tutta la durata del suo libro, dando la netta impressione che
la vita stia scorrendo davanti agli occhi del padre. [Il romanzo è scritto in
prima persona.] D’altronde lo si sente dire spesso: quando ti trovi in prossimità
della morte, tutta la vita ti passa davanti in pochi istanti, come in un film.
Sarà vero? Beh, che sia vero oppure no, questo detto risulta essere
particolarmente efficace come espediente narrativo. Ma che cosa passa davanti
agli occhi di Patrick Nothomb mentre attende di essere fucilato? Il corpo
centrale del libro racconta proprio questo: 28 anni di vita, dall’infanzia al
primo incarico diplomatico, passando per il matrimonio con Danièle, la nascita dei primi due figli
(André e Juliette) e una fobia quasi invalidante chiamata “emofobia”, ovvero la
tendenza a svenire alla vista del sangue.
“Ma come ha fatto,
Amélie, a scrivere del padre, con la “voce” del padre, se lui non parlava quasi
mai?” Ve lo state chiedendo, vero? Se è così, sappiate che la domanda è
legittima e la risposta è: dalla moglie (cioè la madre di Amélie) e dagli zii
del padre, coetanei dello stesso Patrick. [Sì, è bizzarro, avete ragione ma tant'è.]
Prima di proseguire,
vorrei chiarire una cosa: sto scrivendo questo articolo di getto, senza l’ausilio
di una scaletta, però adesso mi corre l’obbligo – più che altro per chiarezza
espositiva – di argomentare in maniera più approfondita le informazioni a cui
fino ad ora ho strizzato l’occhio. Partirei dalla tendenza parsimoniosa di
Patrick nell’uso delle parole. Patrick era un diplomatico con una sorta di
“schizofrenia del linguaggio” - passatemi questa brutta definizione – per la
quale era portato a intrattenere lunghe e complesse conversazioni all’interno
del contesto lavorativo, mentre centellinava le parole quando si trovava
all’interno del contesto famigliare/privato. La sua non era semplice
riservatezza; Patrick Nothomb parlava poco, pesava e soppesava le parole perché
credeva nella loro responsabilità, nella loro potenza. A questo si aggiungeva
anche, forse, il timore di non saper fare il padre, perché – va detto – lui
stesso non ne aveva avuto uno. [Il padre di Patrick, un militare, morì a 25
anni, tentando di sminare un terreno quando lui aveva soltanto otto mesi.]
Mancandogli, dunque, un riferimento paterno diretto, le sue fondamenta di padre
dovevano sembrargli troppo poco solide per ricoprire in modo adeguato un ruolo
tanto importante. Ma è difficile (e complicato) sapere che cosa gli passasse
davvero per la testa…
La figlia Amélie ha
in parte ereditato questa parsimonia linguistica, che si manifesta
nell’attenzione verso le parole da usare e nella scelta oculata di queste
ultime. È pur vero che il fatto di aver vissuto per un po’ in Giappone, le ha
fatto acquisire maggiormente la consapevolezza della lingua francese. Ad Anna
Lombardi, che l’ha intervistata all’Arena Robinson del Salone, racconta di
sognare in francese ma con l’inserimento sporadico di alcune parole giapponesi.
Fa l’esempio della parola Tokonoma
che è il termine giapponese per identificare e definire un particolarissimo
spazio della casa in cui si conservano i beni più preziosi che si possiedono.
Il Giappone, per i membri della famiglia Nothomb, non è soltanto un luogo in
cui hanno trascorso una parte della vita, è anche e soprattutto uno stile di
vita. La filosofia di vita di Patrick e di sua moglie Danièle è più simile a
quella Orientale che a quella Occidentale. Ciò che invece lega Amélie al
Giappone è una particolare esperienza lavorativa: la scrittrice belga ha
infatti rivestito per alcuni mesi il ruolo di guardiana dei WC maschili. È
stata un’esperienza degradante e umiliante, tuttavia propedeutica al
consolidamento della volontà e della capacità di mettersi in gioco di Amélie
che, senza di essa, non avrebbe forse mai avuto il coraggio di lanciarsi nel
mondo della scrittura. E, a proposito di scrittura, non posso esimermi dal
riportare ciò che Amélie ha raccontato durante l’incontro avvenuto in Sala
Azzurra.
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Nella Sala Azzurra del Salone del Libro di Torino. A sx: Stefano Petrocchi; in centro: Amélie Nothomb; a dx: Daria Galateria. Foto: Manuela Barbagallo.
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Dialogando con la moderatrice Daria Galateria, ha dichiarato infatti
di aver avuto, fin dall’inizio della sua carriera, l’appoggio del padre. Patrick
ha letto tutti i suoi romanzi: non appena ne veniva pubblicato uno nuovo,
Amélie lo sottoponeva al giudizio meticoloso del genitore che, dopo aver
trascorso la notte a leggere, al mattino esprimeva i propri pensieri, le
proprie considerazioni e il proprio giudizio alla figlia. Restando in tema di
scrittura come filo di collegamento padre-figlia, c’è ancora un episodio che
vale la pena di riportare da quell’incontro in Sala Azzurra che ho nominato qui
sopra. Amélie ha scoperto per caso che il padre aveva rilasciato un’intervista
in cui dichiarava che avrebbe tanto voluto che sua figlia scrivesse un libro su
di lui. Così è stato, in effetti, perciò anche se la morte li ha separati, la
scrittura li ha riuniti.
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All'Arena Robinson del Salone del Libro di Torino. A sx: Amélie Nothomb; in centro: Daniela Di Sora (Voland); a dx: Anna Lombardi. Foto: Manuela Barbagallo.
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Veniamo ora al
titolo del romanzo. “Premier sang” ha più di una valenza: rappresenta,
innanzitutto, il punto debole di Patrick, l’emofobia e il momento in cui sviene
per la prima volta alla vista del sangue. Punto debole che Patrick riesce –
grazie alla propria astuzia diplomatica e/o linguistica – a trasformare in
punto di forza durante il suo primo incarico lavorativo. Ostaggio dei ribelli
in Congo, dovette assistere all’omicidio di molte persone [1500 era il numero
totale di ostaggi; 1400 quelli che Patrick, grazie alla sua forza di volontà e
alle sue facoltà di negoziazione, riuscì a salvare diventando a tutti gli
effetti un eroe]. Ogni volta che i ribelli uccidevano qualcuno, lui era costretto
a distogliere lo sguardo, destando sospetti negli aguzzini che – se fossero
venuti a conoscenza della sua debolezza – avrebbero immediatamente smesso di
ammirarlo e rispettarlo per poi ucciderlo. Ad ogni domanda dei ribelli sui
motivi del suo comportamento bizzarro lui rispondeva che distoglieva lo sguardo
per rispetto dell’anima dei defunti. Che cosa, però, ha fatto di Patrick
Nothomb un eroe? Come è riuscito a salvare quelle 1400 persone? La risposta è:
con la forza della parola. Ogni giorno – dall’alba a notte fonda – trattava coi
ribelli e li rabboniva perché non mettessero in atto le loro minacce di morte.
Dovette, per ben 4 mesi, fare appello a tutto se stesso per non crollare sotto
il peso delle responsabilità, della paura e della stanchezza che lo schiacciavano,
lo opprimevano e lo soffocavano. Persino un attimo prima dell’esecuzione ciò
che riuscì a salvargli la vita fu proprio la parola. Ma non vi racconterò
questo, che è l’episodio conclusivo del romanzo, perché possiate scoprire quale
espediente lo ha risparmiato.
Premier
sang,
però, è anche un modo per dire “primo cento”. Ci ho messo un po’ a capire cosa
volesse intendere l’autrice con “primo cento”, ma poi ho realizzato che
effettivamente questo romanzo è il centesimo e – per via della velocità di scrittura
di Amélie – probabilmente rappresenta uno spartiacque, una linea di demarcazione
che divide i primi cento romanzi dai prossimi cento.
“Primo sangue”,
inoltre, ricorda l’espressione usata negli antichi duelli in cui, proprio allo
spuntare del primo sangue, i contendenti interrompevano il combattimento.
Arrivati a questo
punto, forse, vi starete chiedendo se Primo sangue contiene solo episodi
tragici e/o tristi. Beh, posso affermare - con il sorriso sulle labbra per ciò
che mi riporta alla mente questa domanda - che “l’autobiografia biografica”
[come amo definire questo libro] di cui Amélie è l’autrice e il padre Patrick è
il protagonista contiene anche spezzoni di vita teneri e altri addirittura
divertenti che, ovviamente, non vi svelerò.
Posso dire altro di
questa scrittrice meravigliosa e brillante? Ci sarebbero tante, tantissime cose
da dire su di lei, ma mi limiterò a riportarvi quelle che lei stessa ha
raccontato al Salone. [Per avvalorare la tesi che, per scrivere bene bisogna
prima di tutto leggere tanto] Amélie si dichiara un’attenta e appassionata
lettrice, tanto è vero che – sapendo di dover venire a Torino – si è preparata
leggendo Natalia Ginzburg. E, quando le hanno domandato il titolo del libro che
l’ha spinta in direzione della scrittura, ha risposto che - a segnarla
profondamente - è stato “Lettere a un giovane poeta” di Rainer Maria Rilke.
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Amélie Nothomb all'Arena Robinson del Salone del Libro di Torino. Foto: Manuela Barbagallo.
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Ho amato tutti i
libri di Amélie che ho letto fino ad ora e “Primo sangue” non ha costituito
un’eccezione, perciò speravo con tutto il cuore che vincesse il Premio Strega
Europeo per il quale era candidata proprio con questo libro. La Casa Editrice
Voland, che da anni ormai pubblica i suoi romanzi qui in Italia, aveva già
portato a casa una vittoria l’anno scorso grazie a Georgi Gospodinov e al suo
splendido “Cronorifugio” [di cui potete trovare la recensione sul mio profilo
Instagram]. Ed è stata una bellissima sorpresa poter festeggiare la “doppietta”
perché quest’anno Amélie Nothomb – e, con lei, la Voland – ha vinto ex aequo
insieme a Michail Shishkin e il suo “Punto di fuga” (21lettere).
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L'autografo e la dedica di Amélie Nothomb.
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Daniela Di Sora,
Direttrice della Casa Editrice Voland, ha certamente avuto occhio quando ha
assunto il carico di pubblicare Amélie Nothomb in Italia. Per poterlo fare,
dovette accettare di pubblicare ben quattro titoli in un colpo solo, perché
come abbiamo già appurato Amélie scrive moltissimo e al momento di stipulare il
contratto con la Voland aveva già prodotto quattro libri. Fu una sfida ardua,
in quanto la Casa Editrice italiana era agli albori, ma io – e, con me, tutti/e
coloro che amano i romanzi di Amélie – le sono/siamo immensamente grata/i per
aver portato il grande talento letterario e la grande sensibilità di questa
artista nel nostro Paese.