Ai miei gatti
INTRODUZIONE
“E se fa molto male?
Traduci tutto su scala cosmica, prendi il cuore tra i denti, scrivi un libro”.
[Candiani, p. 154,
da V. Šklovskij, “Zoo o Lettere non d’amore”,
trad. it. di S. Leone e S. Pescatori,
Einaudi, Torino 1966, p. 28]
Hai presente quel dipinto di René Magritte che raffigura una pipa corredata da una scritta che dice: “Ceci n’est pas une pipe”? Ecco, questo non è un saggio. Non è nemmeno un romanzo, o un memoir o un reportage, o una raccolta di poesie, o un diario, e neppure un’autobiografia. Questo non è un libro.
È buffo: mi hanno sempre detto che devo definire le cose per quello che sono e non per quello che non sono e io ho appena definito la cosa che stai leggendo un “non-libro”, mentre ha tutte le caratteristiche di un libro. Un libro che non può essere catalogato in nessun genere, ma comunque un libro. Eppure fatico ancora a chiamarlo libro. Per me è un quaderno di appunti, uno sfogo e una consolazione, un insieme di pensieri e di domande, un buco nero.
“Potrei raccontare storie che dicono: se incontri il male, devi combatterlo, e ve ne sono altrettante che raccomandano di fuggire e di non tentare di combatterlo. Alcune dicono: se devi affrontare il male, l’unica cosa che puoi fare è eluderlo con l’inganno. Ma altrettanto numerose sono quelle che esortano all’onestà, persino nei confronti del male, e a non mentire. […] Pari è il numero delle fiabe che consigliano l’una o l’altra alternativa”.[1]
Il tema di questo non-libro è il Male. Perché? Perché sto attraversando anni che, a definirli difficili, si farebbe loro un favore. Un libro sul Male perché sto male e voglio capire che cosa sia il Male e perché ce l’abbia tanto con me e con tutti quelli che stanno male in modo insopportabile.
“Starò con il male come male, senza infiorarlo né velarlo, lascerò che passi in me come una tempesta e gli domanderò cosa sente, perché percuote furiosamente tutto, perché non si lascia ascoltare”.[2]
Le storie sui Faust sono state e sono ancora la mia più grande fonte d’ispirazione e pare che mi seguano per mostrarmi delle cose, delle cose che – come ho detto – sto cercando di capire. Ecco perché questo non-libro non è neppure un saggio: perché non fornisce risposte definitive alla questione in oggetto, non pretende di saperne più degli altri libri o non-libri che siano e non si atteggia a dispensa di critica letteraria, teologica o di qualunque altra materia di studio. Leggo molto e sembra che i libri che leggo siano tutti collegati tra di loro in maniera spesso imperscrutabile. A volte, mentre sto leggendo un libro, mi sento chiamare da un altro testo ed è un richiamo irresistibile che mi induce a intraprendere quella nuova lettura. Ben presto scopro sempre che c’è un riferimento al libro precedente. Oppure, finito un libro, sento il bisogno impellente di leggerne un altro che, pur sembrandomi avulso dai precedenti, vi sarà invece legato da un filo robusto. Immagino che sia il modo misterioso e creativo in cui l’Universo comunica con me. I film che guardo, le canzoni che ascolto, le cose che leggo, le persone che incontro, i luoghi che visito mi mostrano una via ben definita. Spesso lo fanno sulla base di una mia specifica domanda. Le risposte arrivano sempre, in un modo o in un altro, basta solo essere aperti a riceverle. Ad esempio, quando ho domandato all’Universo il perché della mia sofferenza, Esso mi ha messo sotto gli occhi la storia – declinata in una miriade di modi diversi e differenti – del Dottor Faust e quelle di tutti coloro che hanno stipulato patti col Diavolo (o con un diavolo) e accordi infernali. In realtà l’Universo mi stava preparando da anni a scrivere questo libro: periodicamente, infatti, da quando ero molto piccola, mi pone sotto il naso storie di questo genere. Penso, ad esempio, alla “Storia meravigliosa di Peter Schlemihl” di Adelbert von Chamisso che all’epoca della mia prima lettura non capii, ma – evidentemente - compresi perché mi rimase dentro fino a che non fui pronta a rileggerlo, poco tempo fa. Non so se ci sia un disegno del Destino dietro tutto questo oppure sia solo frutto del Caso e di semplici coincidenze. Non so se Dio esista oppure no, se sia uno oppure tanti, se sia maschio, femmina o altro, non so se la causa dei nostri mali siamo noi o un qualche diavolo o addirittura Dio stesso. Ho provato a fare delle ricerche, ho provato a gettare un po’ di luce sulla questione per far sì che proiettasse un’ombra il più possibile nitida. Ed è proprio dell’Ombra che leggerai in questo non-libro, di quella che ho chiamato l’Ombra di Dio per motivi che vedrai tu stesso o tu stessa. Nelle mie parole non troverai la Verità, bensì la mia verità: tu potrai farne ciò che vuoi, ma sappi che non ho mai avuto intenzione di offendere nessuno, ho voluto soltanto portare un po’ di scompiglio nei tuoi pensieri perché è bello condividere il Caos con qualcun altro. È una sensazione che ti invito a provare. Perché è bello, dopo, mettere in ordine insieme la soffitta della mente, un luogo in cui le ombre fanno paura perché assomigliano ai mostri di cui ci parlavano da bambini. Ma tra queste pagine non ci sono solo riferimenti ai Faust… Da sempre l’uomo cerca di razionalizzare il Male, di dare un volto e un nome a ciò che lo fa soffrire o, semplicemente, di esorcizzarlo e farlo uscire dalla propria vita e da quella di coloro che gli stanno a cuore. Il mio medium è la scrittura ed è per questo che compro sempre tanti quaderni (e tante penne). In casa ne ho a decine, quasi tutti cominciati: alcuni hanno solo poche righe scritte, altri hanno qualche pagina, pochi sono pieni a metà, ancor meno sono completi. Forse nessuno lo è. Mi piace cominciare le cose, ma mi annoio presto. E poi, forse, mi piace pensare di essere una nuova me ad ogni inizio: nuovo quaderno, vita nuova. Ogni quaderno è un diario e gli eventi traumatici che mi accadono di solito fanno sì che io interrompa la narrazione su quel quaderno, mi prenda un periodo di chiusura in me stessa e, solo dopo, cominci a imbrattarne un altro. Un ciclo di morte e rinascita su carta. Uno dei libri che mi hanno fatto compagnia in questo periodo più buio del solito è – neanche a farlo apposta – “Quaderno proibito” di Alba De Céspedes. La protagonista, Valeria, compra un quaderno su cui cadeva un divieto. In effetti molti fatti della nostra vita si basano su proibizioni e divieti che ci portano, come se fossimo monetine, nelle grinfie dei magneti. Più una cosa è proibita più è ambita, ed è su questo principio che sta ben saldo il Peccato Originale. Ma a questo arriveremo tra un po’. Valeria, dicevo, compra un quaderno “proibito” che diventerà il suo diario segreto e il fatto stesso di tenere un diario diventerà improvvisamente qualcosa di proibito. Scrivendo su quelle pagine, Valeria scopre molte cose di sé e inizia a capire di avere dei diritti oltre che dei doveri, nella vita. “Quaderno proibito” è la storia di un “risveglio”. Ammiro Valeria: lei ha saputo confessare sulla carta i suoi pensieri più intimi. Io, invece, per quanto abbia sempre tenuto un diario, nella mia costante incostanza, al contrario di Valeria non riesco a lasciarmi andare, non riesco ad aprirmi completamente sulle pagine bianche. Ho fatto da poco una scoperta che mi ha lasciata di stucco: so scrivere molte cose come poesie, saggi, testi teatrali, articoli, racconti, biglietti di auguri, slogan, ma ho enormi difficoltà a scrivere di me perché altri mi leggano. Non sono capace di condividere i miei segreti, i miei pensieri più intimi. Il mio limite, paradossalmente, consiste nel non essere in grado di delimitarmi, di definirmi. Lo so da sempre, credo, ma me ne sono resa conto solo da poco. Ho paura di diventare più vulnerabile di quanto non sia già, e ho paura di portare alla luce tutti quei cumuli di materiale tossico che ho dentro.
“Non ti rendi conto di quanto hai lavorato per coprire le cose finché non cerchi di dissotterrarle”.[3]
Dice così un altro dei libri che ho letto recentemente e che mi ha donato molte perle come queste che seguono, le quali mi calzano a pennello:
“Credo che la passione [per la lettura] mi sia arrivata quando ho cominciato a scrivere. A quel punto ho capito quant’è difficile ricreare in parole le cose che vediamo e sentiamo nella mente”.[4]
“Tutti i problemi della scrittura e della recitazione nascono dalla paura. Paura della vulnerabilità, paura della debolezza, paura di non avere talento, paura di fare la figura degli stupidi per averci provato, per avere anche solo pensato di poter scrivere. È sempre paura. Se non ci fosse la paura, immaginate quanta creatività nel mondo. La paura ci trattiene a ogni passo del nostro cammino”. [5]
Sì, ho paura, è questo il mio problema. Temo il giudizio degli altri e temo il mio. Ecco, forse il nocciolo della questione è qui, nel giudizio che darei a me stessa se mettessi nero su bianco le cose che ho fatto, che ho detto, ma anche quelle che ho subìto. Perché, anche quando non è colpa mia, io mi sento comunque colpevole e ho il talento di passare da vittima a carnefice di me stessa in un attimo. Ho paura di vedere il disprezzo negli occhi di chi prima mi ammirava o semplicemente mi ignorava, ho paura di non riuscire più a guardarmi allo specchio. Ho paura dell’Inferno in Terra più di quello in un possibile Aldilà. Ho provato a camuffare le mie esperienze, a mimetizzarle in un paio di racconti sull’auto-sabotaggio, ma mi sono bloccata anche così, sul più bello.
Muore solo chi osa farlo
“Sono morta il 5 Gennaio 2020, sui binari a stento illuminati di una stazione ferroviaria sperduta nel cuore dell’Emilia Romagna. Qualche ora dopo essermi gettata sotto il treno, solo una parte di me è tornata a casa: non sono ancora riuscita a capire quale.
È inutile che cerchiate il mio necrologio sui giornali, nessuno – a parte me – sa che sono morta. Ma forse è meglio così. E ho capito che cosa prova un’arancia, sbucciata e spaccata in due, e poi fatta a spicchi. Ho sentito anche il rumore dello squarcio, ancor più disgustoso e orripilante dal momento che proveniva dalla mia stessa anima. Ho visto me stessa fare un passo oltre la linea gialla e poi un altro, abbagliata dai fari del treno, e poi un rumore sordo prima dello schianto. Dopodiché sono salita sul treno – l’altra me lo ha fatto – e sono tornata a casa.
Mi sono sempre chiesta che effetto faccia morire. Forse è un po’ come nascere. Si soffre a nascere? O è come svegliarsi? Ogni tanto, allora, muoio. È un esercizio assai utile. Serve a rinascere, a ripartire da zero, a guardare il mondo con occhi nuovi”.
Il mio killer o Caro Killer Non sono riuscita a scegliere nemmeno il titolo.
“Ho assoldato un killer: dovrà uccidermi. Gli ho dato una scadenza, voglio morire nello stesso giorno in cui sono nata – il 2 Novembre – perché mi piace quel giorno, e poi voglio fare un’uscita a effetto. Mi piace vedere la reazione di chi scopre che sono nata il giorno dei morti; non oso immaginare come possa essere chi scopre che in quel giorno sono venuta al mondo e dal mondo sono evaporata. Scatenare reazioni mi dà una strana sensazione, mi fa sentire come se avessi un superpotere. Il potere di scardinare le coscienze, di suscitare emozioni, di rompere le palle. Passare inosservata mi ha stufato. E poi mi piacciono le coincidenze, mi sono sempre piaciute anche se ho imparato ad ammetterlo solo da poco; mi piacciono perché trovo che covino il loro fascino nel mistero. Mi danno l’idea che ci sia qualcosa che guida i nostri passi, qualcosa di più grande, qualcosa di insondabile. Solo che quella insondabilità mi attrae e mi disturba, nello stesso tempo; mi infastidisce, mi ricorda che sono umana, imperfetta e fallibile. E anche molto fallita, una perfetta fallita, nel senso che sono caduta troppe volte. Ma forse è proprio in questo che risiede la mia e l’altrui perfezione.
Ho trovato il mio carnefice in un posto in cui nessuno può addentrarsi, ma – anche se fosse possibile – dubito che qualcuno oserebbe farlo. Ma sto correndo troppo, forse è meglio che parta dal principio e proceda con ordine.
Sono nata il 2 Novembre 1985…”
E qui cominciano i problemi: cancello e ricomincio e niente di ciò che scrivo mi convince, perché parla di me. Non ho problemi a entrare nel mio intimo, ma non mi fido a condividerlo. Mi sento patetica, noiosa ed esposta, nuda, senza pelle. È anche per tale ragione che questo non-libro è tanto strano: ha in sé pezzi di me che ho cercato di nascondere dietro pensieri, poesie, citazioni, domande, Miti e fiabe.
Da qui in poi il racconto dovrebbe esplorare il mio vissuto fin nei dettagli più intimi, ma ho molti segreti e molte cose che non mi sento pronta a condividere col mondo, perciò mi blocco, la mia penna decide di non trasporre sulla carta le tragedie, i peccati, le disgrazie, le sciagure, i dolori inflitti e quelli subiti, la depressione, i disturbi alimentari e tutto ciò che la mia mano trema ad ammettere. Così immagino di porre una data di scadenza a questa perenne sofferenza, una sorta di morte programmata che si attuerà attraverso lo sviluppo di una malattia. Si tratta di una malattia nata dalla mia mente, stanca dei tormenti che le vengono inflitti senza sosta ogni giorno e ogni notte. Il tutto dovrebbe chiudersi con l’unico evento positivo della mia vita che, però, arriva troppo tardi… Proprio mentre i miei occhi si chiudono per il sonno eterno, il cellulare emette il tipico suono delle notifiche: è un’e-mail dell’editore che ha appena accettato di investire sul mio libro. Forse quando saprà che sono morta alzerà le spalle, un po’ rammaricato di aver perso del tempo per leggere qualcosa che non vedrà mai la luce; o forse deciderà di far uscire ugualmente la mia opera d’esordio e di commiato. Postuma. Gli è piaciuto l’incipit, che recitava: “Ho assoldato un killer: dovrà uccidermi”. Peccato che Halloween sia appena passato, sarebbe stato perfetto come lettura creepy. Ma è il 2 novembre, ormai è tardi.
Sono riuscita a scrivere solo il principio e la fine non perché non sappia cosa scrivere nel mezzo, ma perché non riesco a scriverlo. Ho voluto giocare su un finale che riprende le parole dell’inizio, come ha fatto Stefano Benni ne “Il bar sotto il mare”. È una tecnica molto affascinante e di grande effetto, secondo me. Inoltre ho lasciato intendere di essere effettivamente morta il giorno del mio compleanno, perciò ecco creato il cortocircuito perfetto. Peccato che non riesca a riempire quell’enorme buco nero nel mezzo. La paura mi blocca.
“C’è in me il senso di aver detto una volta una bugia, non so quale, e di essere condannata a restarvi fedele”.[6]
“Tu ti credi obbligata a servire tutti […]. Allora anche gli altri, a poco a poco, finiscono per crederlo. Tu pensi che per una donna aver qualche soddisfazione personale, oltre quelle della casa e della cucina, sia una colpa: che il suo solo compito sia quello di servire. Io non voglio, capisci?, non voglio”.[7]
Lasciamo che gli altri vantino su di noi dei diritti che non hanno: solo noi abbiamo quei diritti su noi stessi. Mentre verso gli altri forse abbiamo degli obblighi che ci fanno sentire in colpa se non li adempiamo. Io però penso che la cosa più importante nella vita sia il rispetto: verso la vita stessa, innanzitutto. E come si rispetta la vita? Provvedendo al proprio bene e cercando, al tempo stesso, di non arrecare danni agli altri. L’equilibrio è difficile da trovare, lo so molto bene. A volte, per essere felici, rendiamo infelici gli altri, ma credo che non si possa sempre accontentare tutti. Rimanere fedeli all’idea che gli altri si sono fatti di noi anche quando quell’idea non ci corrisponde più implica un feroce tradimento: il tradimento della nostra vera natura. Sto capendo tutto questo a mie spese. In questi ultimi anni, in particolare, ho compreso quanto il compiacimento dei desideri altrui mi abbia danneggiata. Ed è anche peggio se penso che quelle persone che ho voluto così disperatamente compiacere nemmeno sanno quali siano i loro veri desideri. Mi sono corrosa per la mia incapacità di dire di no, di esporre e sostenere il mio pensiero, di anteporre il mio benessere a quello di chi era convinto di detenere un qualsivoglia diritto nei miei confronti. Quella tizia che si è gettata sotto il treno era la parte di me stanca di lottare con se stessa per il mio bene. Prima di buttarsi, forse, mi ha detto qualcosa tipo: “Ora vediamo che cosa farai senza il mio aiuto”, ma io non ho sentito oppure non ho voluto ascoltare. E così mi sono ammalata. Forse i due racconti sono uno solo, cominciato con quella me che si è lanciata sotto il treno e che terminerà con l’immagine della buona notizia che arriva in ritardo. Forse, se avrò il coraggio di raccontare e raccontarmi, guarirò. Forse potrei dare un finale diverso al libro della e sulla mia vita, ma per ora – nella partita tra il mio silenzio e la mia verità - il silenzio sta avendo la meglio. Ed è per questo che ho deciso di dare voce ad almeno una di quelle domande che accomunano tutti gli esseri umani sofferenti: perché devo soffrire? Già, perché esiste il male e perché si abbatte con tale e tanta violenza su certi individui?
Recentemente ho letto un libro di Massimo Recalcati contenente un breve inciso su un’esperienza vissuta dall’autore. Si tratta di una parentesi che ha del provvidenziale. Mentre lavorava a un testo di introduzione teorica a Lacan, Recalcati si sentiva impantanato in un dubbio che bloccava la sua creatività. Il dubbio consisteva nel fatto che il suo maestro-analista sembrava aver già scritto tutto ciò che era possibile scrivere su Lacan: cosa avrebbe potuto aggiungere lui a una così vasta ed esauriente esplorazione? Stretto nella morsa di tale dubbio, il libro stentava a prendere corpo e tutto ciò che scriveva lo lasciava profondamente insoddisfatto. A un tratto, qualcosa cambia: Recalcati perde il quaderno nero sul quale aveva annotato e riportato molti spunti interessanti su Lacan, presi proprio dal lavoro del suo maestro-analista. Era come scomparso nel nulla, volatilizzato. La perdita del suo più grande punto di riferimento - nonché possibile fonte primaria di spunti per il suo libro - generò in lui due sensazioni: angoscia, ma anche distacco. L’essere rimasto senza punti fermi lo aveva gettato inizialmente nel panico, ma poi ecco delinearsi l’opportunità di creare qualcosa di veramente nuovo che partisse da ciò che di Lacan aveva interiorizzato in tutti quegli anni. “Quella dimenticanza mi impediva di diventare un plagiario, cioè di ripetere passivamente ciò che avevo assimilato, senza aggiungere nulla di soggettivo”.[8] La cosa sorprendente è che una volta terminata la stesura del libro il quaderno fu ritrovato (per poi essere nuovamente e definitivamente perso, in seguito).
A me è capitata una cosa simile. Ho letto, studiato e preso appunti per anni prima di riuscire a dar corpo a questo non-libro e un giorno la persona che inconsapevolmente mi ha fatto da mentore in questi anni ha pubblicato un libro che conteneva molti dei miei pensieri. Lui, ovviamente non poteva sapere a cosa stessi lavorando io, dato che il mio libro ancora non era stato divulgato, ma io – che seguivo il suo lavoro da anni – mi sono resa conto che quella cosa che sembrava essere una inquietante connessione mentale tra me e lui era invece frutto della mia ammirazione per le sue idee che sentivo immensamente vicine al mio modo di pensare. Capito questo, ho preso in mano la stesura del mio non-libro con il proposito di formulare le mie ipotesi sulla base di ciò che negli anni avevo appreso e interiorizzato. Sarebbe nata così un’opera che aveva un po’ di lui – certo – ma molto di me. Come Recalcati, inizialmente non pensavo di poter aggiungere niente al lavoro del mio ignaro mentore, eppure, dopo aver scoperto che i miei pensieri erano una conseguenza delle mie esperienze passate, dei miei studi, dei miei interessi, del mio sentire e ANCHE - ma non solo - del suo lavoro, ho potuto finalmente ritenermi libera da un totalizzante debito intellettuale nei suoi confronti e creare la mia opera. Le mie idee sono il risultato del mio vissuto che include, per via indiretta, il vissuto di tutti gli autori e le autrici con cui ho avuto contatti. Dentro di me c’è un po’ di Mann, un po’ di Goethe, un po’ di Marlowe, di Milton, di Jung, di Massimo Recalcati, di Amèlie Nothomb, di alcune serie TV, di film, c’è un po’ di Igor Sibaldi, di Caparezza, di Dostoevskij, di Tolstoj, di Bulgakov e di un sacco di altri. L’elenco sarebbe lunghissimo, ma penso tu abbia capito. Sono loro debitrice e insieme non lo sono perché ho assimilato molto dal loro lavoro, ma poi l’ho rielaborato secondo le mie esperienze personali, secondo le mie sensazioni e secondo le mie intuizioni. Forse anche, come me, tu ti ritroverai nelle parole che altri hanno scritto o pronunciato. Potresti ritrovarti persino nelle mie e, per me, questo sarebbe un onore, ma ti esorto a non smettere mai di cercare la TUA verità.
[1] Marie-Louise von Franz, “L’Ombra e il male nella fiaba”, Bollati Boringhieri, p. 115
[2] Chandra Livia Candiani, “Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano”, Einaudi, p. 152
[3] Lily King, “Scrittori e amanti”, Fazi, p. 177
[4] Lily King, “Scrittori e amanti”, Fazi, 279
[5] Lily King, “Scrittori e amanti”, Fazi, 323
[6] Alba De Céspedes, “Quaderno proibito”, Mondadori, p. 99
[7] Alba De Céspedes, “Quaderno proibito”, Mondadori, p. 111
[8] Massimo Recalcati, “Elogio dell’inconscio”, Castelvecchi, p. 68
Nessun commento:
Posta un commento
Grazie per essere passato/a di qua. Cosa pensi di questo post? Lasciami un commento e ti risponderò al più presto!!!