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LA BELLEZZA

sabato 21 ottobre 2023

SIMONE FORTI

 

SIMONE FORTI (una mostra a cura di Elena Volpato) alla GAM di Torino (dal 20 ottobre 2023 al 25 febbraio 2024).

 

Nel “Doctor Faustus” Thomas Mann fa dire ad Adrian, il protagonista: «Apparenza e gioco hanno contro di sé, già oggi, la coscienza dell’arte. L’arte vuole smettere di essere apparenza e gioco, vuole diventare conoscenza. Ma non è forse vero che ciò che smette di concordare con la propria definizione cessa di esistere? E come può vivere l’arte se diventa conoscenza?»

Caro Adrian, mi dispiace, ma non mi trovi d’accordo col tuo ragionamento. L’arte è tante cose, e tutto può diventare arte. L’arte che cambia è ancora arte, ma in un’altra forma. L’arte è soprattutto espressione, è un far uscire ciò che c’è dentro e un camuffare ciò che appare all’esterno. L’arte spiega, nasconde, racconta, enfatizza, simboleggia, interpreta e si lascia interpretare. E poi esiste. Sempre. Perché se “esistere” vuol dire essere in vita, nella realtà, ed “essere” vuol dire accadere, succedere, verificarsi, allora significa che – se esisti – sei. E, se sei, è perché esisti. L’essere è subordinato all’esistenza e presuppone una “sostanza” che si manifesta nella realtà, nel mondo dei fatti. L’arte si manifesta.

«Che cosa è successo? È successa l’arte», scrive Marina Abramović in “Attraversare i muri”.

A volte lo fa attraverso delle “illuminazioni”, delle epifanie che portano a una conoscenza [attenzione Adrian,  ho appena usato la parola “conoscenza” associata ad “arte”!] più profonda delle cose o – addirittura – di noi stessi. L’arte, in questo caso, è un’esperienza, e tale esperienza è la base di partenza - ma anche l’approdo - del lavoro di Simone Forti.

In mostra nella videoteca della GAM di Torino (dal 20 ottobre 2023 al 25 febbraio 2024) due opere di questa artista molto particolare il cui lavoro va a chiudere un ciclo (curato da Elena Volpato)  che ha avuto uno sviluppo annuale ed è cominciato con Michael Snow ed è proseguito con Giuseppe Gabellone. Un progetto che mette in relazione movimento, suono, spazio e tempo.

Per ammissione della stessa Curatrice, le opere in mostra – probabilmente – non verrebbero scelte per rappresentare Simone Forti dato che questa artista è conosciuta in prevalenza per le sue performances di danza, ma la verità è che la stessa Simone Forti parla di queste opere in tutte le sue interviste, le cita e ne discute spesso in quanto costituiscono il seme del suo lavoro, la matrice da cui sono nate molte riflessioni sul significato di movimento, soprattutto della cinematica.

Ed è proprio sul concetto di movimento che Chiara Costa, graphic designer che cura i progetti (grafici, per l’appunto) della GAM, ha giocato sul posizionamento asimmetrico e discontinuo delle lettere che compongono il nome e il cognome di Simone Forti per creare il manifesto della mostra. Ha trovato, in questa idea, la modalità perfetta per rappresentare al meglio il concept dell’esposizione.

ILLUMINATIONS

Simone Forti, "Illuminations", 1972, inchiostro vegetale e grafite su pergamena.

 

All’uscita da scuola, Simone Forti soleva trascorrere i suoi pomeriggi al Coronet Theatre[1] di Los Angeles, luogo cardine della città nel secondo dopoguerra.

Cosa andava a vedere la giovanissima Simone Forti di così interessante?

I film del Surrealismo, come “Le Retour à la raison” di Man Ray e “Ballet mécanique” di Fernand Leger. Fu così che, riprendendo i carousel illuminati nel buio - dell’uno - e i movimenti circolari delle sfere - dell’altro -, Simone Forti diede vita alla performance “Illuminations”[2] [realizzata in collaborazione con Charlemagne Palestine a Cal Arts], durante la quale lei – l’artista – immersa in una luce rossa molto intensa creava vorticosi movimenti circolari[3].

Durante la performance, i cerchi, la luce rossa, l’artista e il movimento si fondono insieme; il movimento si fa più veloce e frenetico, i passi più ristretti, la luce acquista un’intensità maggiore, il cerchio diventa come infuocato e l’artista stessa ha l’impressione che il suo corpo prenda fuoco…

Alla GAM non troverete Simon Forti in carne e ossa, bensì nella sua trasposizione su pergamena, anzi, su quattro pergamene, sulle quali spiccano dei “bolli” rossi, arricchiti da una sorta di “ritmo” ottenuto grazie proprio all’azione della “timbratura”. Quei timbri rossi sono anche un concentrato dei due film surrealisti citati poco fa, ma non v’è staticità in quelle immagini fisse, al contrario… Il segreto (dell’illusione?) del movimento è racchiuso nella forma circolare[4] che, non avendo un inizio e neppure una fine, si inserisce nella dimensione spaziale dell’infinito e in quella temporale dell’eternità. In pratica, un cerchio è “sempre”. È come se Simone Forti stesse ancora oggi ballando/disegnando, in un loop senza fine ma composto da innumerevoli partenze e altrettanti ritorni. Le une indistinguibili dagli altri. E in questo eterno e infinito ritorno entriamo anche noi spettatori che, guardando il rosso dei cerchi, ci illuminiamo e diventiamo fuoco. Nel titolo stesso ravviso un duplice significato: illuminazioni intese come eventi luminosi, e illuminazioni intese come epifanie, prese di coscienza.

Così il loop diventa una sorta di mantra e, lavorare all’interno di uno spazio, non soltanto ci permette di definire quello spazio, ma anche di uscirne… Lo spiega molto bene Marina Abramović nella sua autobiografia:

«Ripetere il mantra in continuazione ha un effetto stabilizzante sul corpo e sulla mente; sonno e veglia diventano indistinguibili; i sogni fluiscono nella realtà. E nel momento in cui entri in questo stato mentale, attingi a un’energia illimitata, a un luogo dove puoi fare ciò che vuoi. Non sei più un piccolo io con tutti i suoi limiti. [...] Quando si presenta questo tipo di libertà, è come essere connessi a una coscienza cosmica».

E poiché il mantra è indissolubilmente legato al suono, ecco che entra in gioco la seconda opera di Simone Forti esposta nella videoteca della GAM.

BOTTOM

Simone Forti, "Bottom", 4 cartoline con disegni e spartito.


 

Apparentemente di un anno successiva a “Illuminations”, il concepimento di “Bottom” avvenne già nel 1968, proprio nel periodo in cui l’artista si trasferì con suo marito – Robert Morris – da Los Angeles a New York compiendo un viaggio coast to coast. Forti tenne traccia dei suoi spostamenti scegliendo di volta in volta una cartolina che ritraeva l’entroterra americano. Alla fine del viaggio si ritrovò così ad avere quattro[5] cartoline (montagne, cascate, deserto, bufalo) ad ognuna delle quali associò un suono: il ritmo veloce e costante di un tamburo – per la prima -, un alto accordo continuo di tre voci – per la seconda -, un aspirapolvere – per la terza -, e il proprio fischiettio per l’ultima.

Nessuno di questi accostamenti è casuale.

I tamburi hanno un suono “duro” e cadenzato che ben si sposa sia con la “durezza” delle rocce sia con il rimbalzare da una cima montuosa all’altra, in modo continuo e incessante; le voci sostituiscono il fluire dell’acqua con il fluire del suono; l’aspirapolvere è – invece – in intermezzo “giocoso” [visto, Adrian? L’arte avrà sempre voglia di giocare finché ci saranno artisti che hanno voglia di giocare!] che smorza la tensione senza però spezzare la continuità sonora[6]; e il motivo fischiettato da Forti riconduce ad un’atmosfera bucolica dove c’è serenità mista a un pizzico di malinconia.

Simone Forti, "Bottom", 1973, part. video, col, sound, 20'.

L’opera è esposta in due versioni: in una proiezione da 5 minuti per ogni cartolina (per un totale di 20 minuti di filmato) e in un quadro che raccoglie le quattro cartoline con i rispettivi disegni e lo spartito.

Per quanto siano immagini fisse, neanche qui c’è la staticità che ci si potrebbe aspettare, perché torna il tema della ciclicità. La riproduzione in sequenza delle immagini, infatti, non dà l’idea di un percorso lineare. Per i suoni ad esse associati vale la stessa cosa: ascoltandoli, non si capisce se ci si trova all’inizio, a metà o alla fine del “brano”. Come nel cerchio non si distingue l’inizio dalla fine, così anche in “Bottom” sembra non esserci un vero e proprio bandolo da cui partire e un punto di arrivo in cui fermarsi. Le immagini sono in sequenza continua, i suoni sono monotoni e costanti, un po’ come lo erano nelle opere di Snow e di Gabellone.

La sensazione che si avverte è di essere immersi in un continuum spazio-temporale ipnotico dove non esistono un prima e un dopo, un sopra e un sotto, un davanti e un dietro, ma c’è solo la ripetizione con le sue conseguenze, positive e negative: la sicurezza, l’ossessione, la serenità, l’inquietudine, la noia, la paralisi, l’angoscia, la calma, la stabilità, la stasi, il movimento perpetuo.

Come dicevo, l’arte interpreta e si presta ad essere interpretata. Io vi ho dato la mia interpretazione, ora tocca a voi.

Da sx: Luigi Cerutti (Segretario Generale Fondazione per l'Arte Moderna e Contemporanea CRT), Elena Volpato (Conservatrice GAM Torino e Curatrice della mostra), Riccardo Passoni (Direttore GAM Torino), Massimo Broccio (Presidente Fondazione Torino Musei).

 

 

Nota: si ringrazia la Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT per il sostegno alla collezione della VideotecaGAM il cui programma di mostre nel 2023 (dedicate a Michael Snow, Giuseppe Gabellone e Simone Forti) si è sviluppato attorno alle loro recenti acquisizioni per la GAM. Si ringrazia inoltre per la collaborazione la Galleria Raffaella Cortese presso la quale le due opere  di Simone Forti sono state acquisite in occasione di due diverse edizioni di Artissima, nel 2019 e nel 2022.



[1] In quello stesso teatro ebbe luogo la prima mondiale dello spettacolo di Bertold Brecht intitolato “Vita di Galileo”.

[2] A partire dal 1971.

[3] Il cerchio era già allora oggetto di studio di Forti, la quale si stava esercitando a comporne – a mano – di perfetti.

[4] Forma particolarmente cara all’artista che, nel cerchio, vede un riferimento alla stella di David, dunque alle proprie origini.

[5] Sarà una coincidenza il fatto che la mostra presenti 4 cartoline e 4 pergamene? Chissà…

[6] Sono stati scelti suoni che potrebbero andare avanti all’infinito.

mercoledì 18 ottobre 2023

HAYEZ - L'officina del pittore romantico

 

Francesco Hayez, "L'ultimo addio di Giulietta a Romeo", 1833

Hayez - L'officina del pittore romantico, alla GAM di Torino, 17 ottobre 2023 - 1 aprile 2024. Acura di Fernando Mazzocca ed Elena Lissoni e in collaborazione con l'Accademia di Belle Arti di Brera. Iniziativa organizzata e promossa da Fondazione Torino Musei, GAM Torino e 24 Ore Cultura.

C’è chi va a visitare una mostra perché conosce l’artista, chi perché è stato invitato dall’amico di un amico di un amico; qualcuno ci va per seguire la moda o perché è chic, altri ci vanno perché così hanno qualcosa da raccontare sui Social; ma ci sono anche quelli che ci vanno semplicemente perché sono curiosi e quelli che – invece – non sanno cosa fare, ma pur di uscire di casa andrebbero ovunque. Non dimentichiamo poi quelli che frequentano mostre e Musei per lavoro e coloro che lo fanno perché amano le novità.

E poi ci sono io. Io, che frequento i Musei e le Gallerie d’Arte perché ho sete di conoscenza e fame di stimoli, di bellezza e di meraviglia. Io, che ci vado perché amo il fermento e, nello stesso tempo, la solennità che aleggia in quelle sale, il silenzio che a volte fa spazio a un brusio sommesso, la calma che a volte lascia il posto all’eccitazione; amo il profumo delle cose antiche e l’aroma seducente di quelle moderne. Ci vado per sentire i sussurri del passato e le grida del futuro, ma anche le voci distinte del presente intorno a me.

Quando vado a visitare una mostra o un Museo faccio quasi sempre delle ricerche – prima – e degli approfondimenti – dopo – perché voglio che ciò che ho visto/vedrò si imprima bene nella mia memoria, fosse anche solo quella emozionale. E a volte capita che io sia impaziente di andare a vedere una certa esposizione… È capitato, ad esempio, per una mostra su de Chirico e per una su Frida Kahlo, ed è capitato anche per l’allestimento su Francesco Hayez. Perché? Perché quando a scuola, durante una lezione di Storia dell’Arte, il professore ti fa aprire il libro di testo su un capitolo che ha delle foto di dipinti talmente belli e talmente realistici che sembrano… foto, beh, non puoi non innamorarti a prima vista! E cosa succede quando ti innamori? Succede che vuoi saperne di più sull’oggetto del tuo amore, e vuoi vedere dal vivo ciò che ha scatenato in te quell’emozione.

Nel mio libro di Storia dell’Arte[1] c’erano: “Aiace d’Oileo” del 1822 (sia in bozzetto su carta sia in olio su tela, nella sua versione definitiva), l’ “Atleta trionfante” del 1816, “La congiura dei Lampugnani (o di Cola Montano)”[2], realizzato tra il 1826 e il 1829, “Pensiero malinconico” del 1842, “Il bacio” del 1859[3] e il ritratto di Massimo D’Azeglio, del 1864.


I meme che circolano oggi in rete ci hanno abituati a vedere “Il bacio” associato a ogni genere di citazione romantica e io speravo di trovarlo alla GAM, ma la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino mi ha riservato una serie di chicche inaspettate e sorprendenti. Innanzitutto, appena entrata nella prima sala, sulla destra si stagliava di fronte a me, in tutta la sua magnificenza, il nudo dell’ “Atleta trionfante” (che mai avrei pensato di trovare). Per ragioni che potrete ben immaginare non metterò qui la foto, comunque sappiate che quel dipinto occupa quasi una parete…

C’erano dipinti a tema mitologico che mi hanno colpita ancor più dell’Aiace stampato sul libro;

 

Francesco Hayez, "L'educazione di Achille", 1813

 al posto del “Pensiero malinconico” c’era addirittura un trittico di pensieri malinconici; c’erano i Lampugnani che congiuravano lì di fronte a me, insieme a numerosi altri dipinti storici; c’era, sì, un ritratto di Massimo D’Azeglio, ma realizzato da Giuseppe Molteni nel 1835…

E “Il bacio”? – vi starete domandando. C’era anche quello, ma una versione a me sconosciuta che ho apprezzato moltissimo perché è stata inserita in una sala “romantica” insieme a Romei, Giuliette e addii tormentosi.

Un collage "romantico" realizzato con alcuni dipinti di Francesco Hayez.

«È il capo della scuola di Pittura Storica che il pensiero Nazionale reclamava in Italia».

Queste le parole di Giuseppe Mazzini, contenute in un saggio apparso su una rivista inglese nel 1840. Parole riferite proprio ad Hayez, il quale fu una figura di riferimento per quanto riguarda non soltanto la pittura storica, ma anche la ritrattistica, i numerosi e caratteristici disegni preparatori, i bellissimi nudi, l’uso sapiente del colore, del chiaroscuro e delle ombreggiature. Alla GAM le sale sono state allestite secondo un ordine tematico per poter ospitare al meglio i numerosissimi dipinti di questo artista eccezionale[4].

FRANCESCO HAYEZ

Francesco Hayez, "Autoritratto a settantun anni", 1862

 

Francesco Hayez nacque a Venezia il 10 febbraio 1791 e proprio nella città lagunare fece i suoi primi studi che lo portarono a vincere, nel 1809, il Premio Roma (bandito dall’Accademia di Belle Arti di Venezia) e a ottenere una borsa di studio con la quale poté trasferirsi nell’Urbe. Lì entrò in contatto col mondo antico e, in particolare, con le opere di Raffaello, che tanto lo ispirarono. Ricevette grande aiuto da Antonio Canova, che lo introdusse negli ambienti colti romani e lo favorì in diverse occasioni. L’artista visse, quindi, tra Roma e Venezia, ma nel 1823 si trasferì definitivamente a Milano, dove divenne un punto di riferimento per l’alta borghesia liberale, la nobiltà e i circoli patriottici dell’epoca: fu il maggiore interprete dei costumi e degli ideali che contraddistinsero quel periodo storico.

Dal 1850 fu professore di pittura all’Accademia di Brera e il suo operato lo ha portato ad aggiudicarsi un posto d’onore tra i pilastri che hanno fatto la storia (in vari ambiti) di quel periodo, ovvero: Alessandro Manzoni, Giuseppe Verdi e i già citati Massimo D’Azeglio[5] e Giuseppe Mazzini. Hayez fu, infatti, “il più grande dei pittori di storia e si trovò ad operare proprio quando la pittura storica, alla stregua del romanzo storico a sfondo patriottico, divenne un mezzo per diffondere nell’animo degli Italiani una comune coscienza di Nazione proponendo un glorioso passato a favore della libertà e contro la tirannide. […] L’opera d’arte, infatti, è rivolta non più a una élite, come nel passato, ma al popolo intero e ha funzione educativa”.

Dopo una prima totale e coinvolgente adesione al Neoclassicismo (durata fino al 1820), Hayez si dedicò alla rappresentazione del vero e del bello. Il vero, naturalmente, si riferisce alla realtà del suo tempo, alla società e ai sentimenti, sia collettivi sia individuali. Il bello, invece, è legato sia al campo estetico dell’immagine sia a quello dell’ideale di pensiero. La realtà, pertanto, non è mai rappresentata in modo crudo, ma sempre restando sul filo di una certa “delicatezza”.

“Con uno stile che abbandona deliberatamente la correttezza più convenzionale del disegno accademico a favore di una nuova naturalezza, esaltate dal colore ispirato ai maestri veneti del Cinquecento, Hayez si distacca dalla dimensione ideale del Neoclassicismo e dai soggetti ispirati alla mitologia e alla storia antica, proponendo una pittura romantica e nazionale, capace di farsi interprete anche delle tensioni politiche di quegli anni”.

“Il successo del nuovo genere – e la conseguente popolarità e diffusione, per il tramite di riproduzioni a stampa, dei dipinti di Hayez – era favorito dal clima politico italiano, del quale desiderio di libertà e aspirazione unitaria erano gli ingredienti di base”.

 

 

I TEMI BIBLICI

Francesco Hayez, "Ecce Homo", 1867-75
“Nel repertorio di Hayez come in quello dell’opera lirica contemporanea – si pensi al popolarissimo ‘Nabucco’ di Giuseppe Verdi – i temi biblici hanno avuto un grande rilievo anche perché consentivano la resa di costumi e atmosfere che sconfinavano nella passione  ottocentesca per l’Oriente. In questo gusto per il pittoresco esotico, ricco di spunti e di possibilità inventive, si inseriscono alcuni dipinti ispirati a episodi dell’Antico Testamento, come “L’incoronazione di Gioas” (1840), nel quale l’ambientazione scenografica e i panneggiamenti sono risolti attraverso una tecnica superba, in un raffinatissimo gioco cromatico e luminoso, che evoca un mondo lontano e affascinante, scenario di drammatici eventi della storia antica.

Su un diverso versante, con un repertorio più disimpegnato di smaglianti “Interni di harem” e sensuali “Odalische”, dove trionfa la seduzione, l’artista sperimenta nuove formule  espressive legate alla resa del nudo femminile, confrontandosi con la grande tradizione della pittura rinascimentale, tra Tiziano e Correggio, fino a raggiungere soluzioni di straordinaria modernità. Così, le sublimi eroine bibliche – Tamar di Giuda, Ruth, Rebecca – sono struggenti icone di donne ideali, esaltate nella loro malinconica bellezza, capaci di esprimere, proprio grazie a un’estenuata perfezione delle forme coniugata con una grande forza sentimentale e introspettiva, lo spirito e l’inquietudine dei tempi moderni, proiettandoli in una dimensione universale”.

Francesco Hayez, "Carolina Zucchi come Maddalena", c. 1822
In un “capitolo” a parte “si collocano i ritratti di Carolina Zucchi, sua modella e amante, raffigurata nell’intimità della camera da letto, come pure in molti quadri di storia, oltre che nelle prime versioni della “Maddalena”, un tema ripetutamente indagato dall’artista partendo dalla rivisitazione del modello canoviano fino ad approdare a una nuova provocante sensualità”.

IL ROMANTICISMO DI HAYEZ

«Hayez fu il primo pittore che aprì alle menti il mondo cavalleresco. Egli fu il primo a condurre i dotti e il popolo in quel mondo, sospiro dei poeti e, più ancora, delle donne romantiche, fra guerrieri e dame, trovatori e romei». (Antonio Rondani, “Scritti d’arte”, 1872)

“Con queste parole la critica riconosceva nell’artista l’artefice del passaggio dalla mitologia classica a un nuovo repertorio romantico, alimentato dalla storia medievale e dal romanzo moderno, i cui eroi ed eroine stanno al centro di travolgenti passioni – spesso dagli esiti fatali -, in sintonia con la sensibilità dell’epoca. È soprattutto il mito di Giulietta e Romeo, nato nel Rinascimento e consolidato da Shakespeare, a godere di un’enorme fortuna, entrato nell’immaginario ottocentesco grazie alla letteratura, al teatro, alle arti figurative, fino a raggiungere una dimensione universale. Hayez lo ha trattato variandone l’interpretazione  lungo tutto il corso della sua carriera alternandolo alla tragica vicenda di Imelda de’ Lambertazzi, incentrata sul dramma dell’addio tra i due amanti, un motivo che ritorna – con una più spiccata accezione sentimentale – anche nella piccola composizione ispirata alla relazione amorosa tra Luigi XIV e Mademoiselle de La Valliere. Questa serie dedicata agli amanti perduti troverà il suo esito nell’opera più importante dell’artista, quel celebre “Bacio” che rappresenta il momento più intenso e poetico della relazione tra due persone che si amano, nel quale si poteva riconoscere la passione che aveva accompagnato la nascita dell’Italia unita, ma così pieno di fascino e di mistero da diventare immagine iconica di un sentimento universale”. (Milano, Pinacoteca di Brera)

I RITRATTI E LA MALINCONIA

Trittico di "Un pensiero malinconico" di Francesco Hayez, c. 1842

 

In mostra – come ho già accennato al principio di questo articolo – è possibile ammirare tre “variazioni sul tema” della malinconia grazie al trittico “Un pensiero malinconico”. La malinconia era uno stato d’animo a cui veniva dato ampio spazio anche nella poesia di quell’epoca.

La “caduta esteriore” è immagine speculare della “caduta interiore”, uno squilibrio emotivo che ha il suo corrispettivo nello “squilibrio” dell’abito, scivolato sulla spalla sinistra della fanciulla, soggetto protagonista del ritratto. La tristezza sale in superficie e traspare proprio nell’istante in cui i nostri occhi incontrano lo sguardo affranto della ragazza. E, a rafforzare la sensazione depressiva, il pittore ha dipinto dei fiori appassiti, sulla sinistra, cosicché la combinazione di ritratto e natura morta diviene quasi un trattato di psicologia…

“È forse nei ritratti[6] che Francesco Hayez riesce a mostrare tutte le sue qualità di colorista e di sottile interprete della personalità del ritrattato”.

Francesco Hayez, "Busto di donna dai capelli sparsi (Angiolina Rossi Hayez)", 1876

Ma una sorta di inquietudine permea anche altre opere e altre sale… Penso, ad esempio, alla scultura di Vincenzo Vela (“La Desolazione”, 1850)

Vincenzo Vela, "La Desolazione", 1850

 

 

 o a quella di Antonio Canova (“Maddalena penitente”, datata tra il 1793 e il 1796),

 

 

 

 

Antonio Canova, "Maddalena penitente", 1793-1796

 nonché le Maddalene dipinte dallo stesso Hayez…

I NUDI

Francesco Hayez, "Bagnante", 1859
I nudi – sia quelli femminili che quelli maschili – hanno, secondo me, molte chiavi di lettura: si possono interpretare secondo il detto “mettere a nudo”, così da vedere lo stato d’animo dei personaggi senza il filtro degli abiti; poi si possono interpretare come un mezzo per esaltare la bellezza e dare così ai dipinti un valore estetico oltre che “didascalico”; vi si può ravvisare persino un filo di continuità che lega l’arte antica alla modernità; un desiderio di “realismo idealizzato”, cioè la volontà di ritrarre la realtà nella sua esasperazione. Mi rendo conto che possa sembrare un ossimoro, ma mi affascina molto l’idea di “leggere” i lavori di Hayez con un tocco di onirico tra le righe… D’altronde l’uso del chiaroscuro, delle luci e delle ombre, dei colori vibranti conferiscono ai suoi dipinti una profondità e un realismo tali da far sfumare il possibile nell’impossibile e viceversa.

 Le linee sinuose danno morbidezza alle carni, i colori fanno della pelle un panno di velluto e regalano ai tessuti l’illusione della tangibilità…

 I DISEGNI PREPARATORI

Francesco Hayez, Studio per "Accusa segreta", 1847-48

Francesco Hayez, "Accusa segreta", 1847-48
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ce ne sono tantissimi in mostra, ma non sono normali disegni preparatori, statici… Gli schizzi di Hayez sono quasi “cangianti”, in movimento, sono mutevoli, in perenne evoluzione, sono bozze che trovano la loro forza nell’incompletezza. Ma – attenzione – non per questo sono frettolosi o approssimativi, anzi, direi piuttosto che sono “possibilisti”, nel senso che - nella loro precisione - lasciano comunque spazio al cambiamento.

 

Francesco Hayez, "Il consiglio alla vendetta", 1851
Francesco Hayez si spense a Milano il 21 dicembre 1882, alla veneranda età di 91 anni. Ci ha lasciato opere che trasudano esotismo, mistero, ideali, sentimenti, sensualità, bellezza e sanno trasmettere sensazioni ed emozioni forti. La GAM ce ne propone un centinaio, incorniciate ed esaltate da un allestimento che le fa “respirare”. Così, nello stesso momento in cui noi le osserviamo, loro osservano noi e comunicano con noi; e, raccontandoci cosa provano, ci mostrano sempre qualcosa di noi che avevamo dimenticato o che, forse, non avevamo mai compreso.

 

 

 



[1] Alcune delle citazioni che trovate in questo articolo sono tratte da “Itinerario nell’Arte – Dall’Età dei Lumi ai giorni nostri”, vol. 3 (Giorgio Cricco, Francesco P. Di Teodoro), Zanichelli. Altre citazioni, invece, provengono dalle didascalie della mostra.

[2] “Il 26 dicembre 1476, intenzionati a porre fine alla tirannia di Galeazzo Maria Sforza, tre giovani, ispirati dall’umanista Cola Montano (in primo piano nel dipinto), uccidono il Duca di Milano nella Chiesa di Santo Stefano. La presenza nel dipinto dei ritratti di noti personaggi dell’epoca contribuisce a creare una corrispondenza tra ricostruzione storica e attualità politica contemporanea, in un’immagine altamente evocativa del mito della gioventù carbonara, all’indomani dei moti insurrezionali del 1824”.

[3] 1859 – La Seconda Guerra d’Indipendenza, con le vittorie di Magenta, di Solferino e di San Martino, apriva definitivamente le porte all’unità d’Italia.

[4] Alla GAM sono oltre un centinaio le opere esposte nell’ambito della mostra “HAYEZ – L’officina del pittore romantico”.

[5] Massimo D’Azeglio – pittore e letterato, oltre che uomo politico uno dei maggiori del nostro Risorgimento) – fu amico di Hayez.

[6] In mostra, oltre ai numerosi ritratti, ci sono anche molti autoritratti di Hayez.