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Alfred Eisenstaedt. 170 immagini di un grande reporter da scoprire. Dal 13 giugno al 21 settembre 2025 presso Camera - Centro Italiano per la Fotografia, Via delle Rosine 18, Torino. |
Sono andata a vedere la mostra su Alfred Eisenstaedt. Ci sono andata perché ho visto una locandina appesa a un muro, una locandina con una foto che amo ma che non avevo mai avuto il piacere di vedere di presenza. La foto di cui parlo è quella del bacio tra il marinaio e l’infermiera, per intenderci, quella che si vede anche nel film “Una notte al museo 2”. Nel film, il protagonista entra per qualche istante nell’immagine e si sostituisce al marinaio, strappando un sorriso allo spettatore. Ecco, capite anche voi che avendo amato il ciclo dei film di “Una notte al museo”, amando la fotografia – soprattutto quella in bianco e nero – e amando l’arte, le mostre, i musei e la cultura, non potevo ignorare quell’invito del destino ad andare in Via delle Rosine, per vedere quel bacio più da vicino. E mi ero ripromessa che avrei tenuto tutto per me, che non avrei condiviso i miei “stupori e tremori”. Volevo interrompere i miei tentativi – per la maggior parte falliti – di comunicare con questo mondo che va veloce e in una direzione diversa dalla mia. Eppure eccomi qui, a scrivere di un’altra mostra, di un’altra opportunità per quel mondo di rallentare un po’ e godersi il tempo della contemplazione, del pensiero e della riflessione davanti a immagini di vita vera. Da qualche anno il mio interesse nei confronti della fotografia è cresciuto e si è intensificato. Oggi, a differenza di ieri, anche io mi trovo a studiare luci, inquadrature, composizioni e proporzioni senza togliere spontaneità ai momenti; oggi, come ieri, cerco di cogliere gli attimi senza “costruirli”, ma cerco anche di non sprecare scatti; ho fatto mio il motto “buona la prima”, cioè mi impegno per ottenere la foto che desidero al primo colpo. Perché? Perché sono cresciuta, ma ho mantenuto la mentalità anti-spreco, quel tipo di pensiero che c’era una volta, quando le pellicole costavano care e il numero di scatti possibili era molto limitato. Ora abbiamo tanto spazio sui nostri dispositivi, possiamo ritoccare le foto in post-produzione, se non ci convincono, possiamo cancellare e rifare in ogni istante. Ed è per questo che l’arte della fotografia, ultimamente, è stata rivalutata. In tal senso, il mondo si è diviso in due: da una parte ci sono coloro che la svalutano, dall’altra ci sono quelli che la esaltano e – molto spesso – la esasperano, la portano agli estremi, la snaturano.
Molti sostengono che la fotografia sia arte statica, ma - se avessero visto le opere di Eisenstaedt – probabilmente si ricrederebbero. Quelle immagini appese alle pareti di Camera non sono solo singoli fotogrammi, sono lunghi tratti di storia, sono racconti, conversazioni, atmosfere; sono emozioni su pellicola. E si può avvertire il movimento, il dinamismo della vita e del mondo. Ogni foto è come un’eco da un passato che non è poi così passato e, forse, è proprio questo che rende il tutto tanto vivo. I ritratti non sono immagini fisse e “calcificate” di volti, al contrario, sembrano parlare dal loro tempo con una voce che - in maniera quasi magica - riesce a farsi udire fino a noi, fino a oggi, fino a qui. Non è strano, infatti, trovarsi a fare il confronto con l’attuale scenario storico, politico e sociale. In quegli scatti c’è il racconto di quasi un secolo; è come un film in cui però sono stati colti anche aspetti più “marginali” che, grazie all’obiettivo di Eisenstaedt, sono diventati protagonisti. In fondo, se ci pensiamo bene, anche i film sono il risultato di una sequenza di scatti: in un solo secondo possono entrare dai 24 ai 120 fotogrammi, a quanto pare. Impossibile non avere la schiena percorsa dai brividi nel vedere alcune foto, soprattutto quelle scattate nel periodo della guerra, perché è lì che, inevitabilmente, s’impone il confronto con l’oggi e non è difficile notare le somiglianze: siamo più vicini a quel periodo di quanto potremmo immaginare, è come se ogni guerra iniziata non fosse mai veramente terminata. Forse è per questo che la mostra è così impattante. Io, almeno, ne sono rimasta colpita. E non si tratta solo di un interesse tecnico o di pura curiosità, è proprio una sensazione di vicinanza, di “prossimità”.
Sembrerà una cosa banale da dire, ma il fatto di sapere che si tratta di foto autentiche, originali, reali, in questo momento storico in cui IA e fotoritocco impazzano, è confortante; la mente è libera dalla morsa del pensiero che sussurra: “Sarà vera o frutto dell’Intelligenza Artificiale?” E poi emerge spontaneità, non c’è contraffazione delle espressioni e del mondo immortalato. Trapelano eleganza, dolore, gioia, tensione, stanchezza, disperazione, ma anche continuità, equilibri e squilibri. Alcuni scatti sono divertenti, ironici, si potrebbe dire spensierati, eppure a me hanno trasmesso una sorta di inquietudine, come un formicolio.
La mostra è senza “fronzoli”, c’è solo quel che ci deve essere. E tanto basta. Ci sono le foto, brevi didascalie a corredo delle immagini e, nell’ultima sala, le imponenti, patinate e lucidissime riviste dell’epoca, pronte per essere sfogliate, consultate e assorbite con gli occhi.
Grazie alle foto “tattili” è possibile – anche per i non vedenti – “vedere” le immagini, alcune, le più particolari. Ho fatto un’esperienza nuova, stranissima: ho potuto accarezzare le rughe di un volto immortalato in una fotografia, ed è stato illuminante. Si parla tanto di inclusività, a volte in modo esagerato, ma qui l’inclusività l’ho davvero toccata con mano, è proprio il caso di dirlo.
Vedere il ritratto fotografico di Albert Einstein o di Marlyn Monroe è stato più emozionante di quel che mi aspettassi: sento di aver stretto loro la mano, di averli guardati negli occhi come se fossero stati in carne e ossa di fronte a me. Ho sbirciato in un angolo delle loro vite, ma non come dal buco di una serratura, piuttosto come da una finestra… Nello spazio di pochi metri quadrati ho “incontrato” così tante perone illustri che mi gira la testa! Oppenheimer, Kennedy, Hemingway, Sophia Loren, Bill Clinton e la sua famiglia sono solo alcuni tra i numerosissimi personaggi ritratti che ho potuto vedere in mostra. Ci sono ben 170 foto che aspettano di essere osservate e che in qualche modo osservano lo spettatore, sondano, indagano gli occhi che a loro volta scrutano nelle profondità della pellicola. È uno scambio continuo di sguardi che, alla fine, ti lascia qualcosa dentro… E ho sostenuto a fatica lo sguardo di accusa e disprezzo di Goebbels, ve lo assicuro.
Alcune foto sembrano effettivamente dei dipinti, per via della luce, dell’inquadratura, della composizione, e questo fa emergere lo studio e l’ammirazione di Eisenstaedt per alcuni pittori come Rembrandt e Rubens.
Come dicevo all’inizio, ero andata a vedere questa mostra principalmente perché sapevo che ci sarebbe stata la foto iconica del bacio. L’emozione nel vederla di persona è stata grande, ma ho potuto anche conoscerne i retroscena, e questo mi ha decisamente turbata. Tutte le cose hanno una loro profondità, vanno guardate non solo frontalmente, facendosi bastare la superficie, ma vanno anche analizzate in prospettiva, anzi, da più angolazioni. Dietro ogni immagine può celarsi una verità che non ci aspettiamo e questo dovrebbe far riflettere. Oggi, nell’epoca dei Social Media, attribuiamo grande potere alle immagini, siamo spinti a credere a ciò che vediamo; viviamo, formuliamo pensieri e agiamo sulla base di ciò che vediamo. Sarebbe il caso, invece, di prestare molta attenzione e altrettanta cautela prima di prendere posizione.
“Un fotografo ha bisogno di un collegamento diretto tra il cervello e le dita. Le cose accadono: a volte come previsto, più spesso in modo inaspettato. Devi essere pronto a catturare l’attimo giusto, perché se perdi l’occasione, le immagini potrebbero svanire per sempre. […] La vita si muove rapidamente e inaspettatamente; non aspetterà che tu ti distragga con il controllo della messa a fuoco o l’avanzamento della pellicola”.
Alfred Eisenstaedt, 1969