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LA BELLEZZA

mercoledì 29 agosto 2018

FELICITA'


La felicità come diritto.
Il 4 luglio 1776, al Congresso di Filadelfia, venne approvata ufficialmente l’Indipendenza delle 13 colonie inglesi dalla Gran Bretagna, dando – così – origine agli Stati Uniti d’America.  Il documento (la Dichiarazione d’Indipendenza, appunto)  che rese possibile questo evento storico tanto importante fu redatto dalla cosiddetta commissione dei cinque, composta da Thomas Jefferson,  John Adams, Benjamin Franklin, Roger Sherman e Robert R. Livingston. La Dichiarazione contiene parole semplici, all’apparenza, ma dotate di una forza e di una potenza straordinarie; una di queste parole è: Felicità. Scritta con la F maiuscola.
“[…]all Men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty, and the pursuit of Happiness”.
“[…] tutti gli Uomini sono creati eguali; [che] essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili Diritti, [che] tra questi [Diritti] vi sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”.
Ogni individuo è  stato creato, è creato e sarà creato con un bagaglio innato di diritti composto dal diritto alla vita, da quello alla libertà e da quello alla ricerca della felicità. Tre valori posti sullo stesso piano e a cui viene attribuita pari importanza. Gli ingredienti del potere sono, dunque, questi e tutti li posseggono. Nessuno rimane escluso, nessuno dovrebbe rimanerne escluso. Perché, allora, la maggior parte degli esseri umani avverte costanti minacce alla propria Vita, ha barattato la propria Libertà con una promessa di sicurezza e ha rinunciato a cercare la Felicità individuale per accontentarsi di ciò che altri hanno deciso di concederle?
“Fu in quel momento che cominciai a pensare a Thomas Jefferson e alla Dichiarazione d’Indipendenza… quando parla del Diritto che abbiamo alla Vita, Libertà e Ricerca della Felicità. E ricordo di aver pensato: come sapeva di dover usare la parola “Ricerca”? Perché la Felicità è qualcosa che possiamo solo inseguire e che forse non riusciremo mai a raggiungere, qualunque cosa facciamo… Come faceva a saperlo?” Cit. tratta dal film del 2006 “La Ricerca della Felicità” (“The Pursuit of Happyness”), diretto da Gabriele Muccino.
Il film, ispirato alla vita dell’imprenditore milionario Chris Gardner, è – invece - la dimostrazione che la Felicità non è solo rincorribile, ma anche raggiungibile! Tanti ce l’hanno fatta e molti, tra coloro che l’hanno raggiunta, si sono presi la briga di mettere a nostra disposizione la loro esperienza. Perché la Felicità non è UN argomento, ma L’argomento per eccellenza; è la cosa che ci accomuna tutti, e tutti ne hanno diritto. La sua Ricerca è il motore che manda avanti le nostre vite e poiché quello alla Vita è un altro inalienabile diritto, possiamo dedurre che ognuno di noi è autorizzato a cercare di vivere una vita felice. Ovviamente non si deve impedire od ostacolare la Ricerca altrui, in alcun modo.

Detto questo, auguro a tutti voi  Buona Ricerca!




Riflessioni personali su un argomento spinoso...


Morte.

Sul significato di questo termine (bello, tra l’altro vedere la parola “morte” accanto alla parola “termine”) il genere umano si divide in due macro-categorie: la prima è quella di coloro che vedono l’uomo come fosse una macchina, costituita da un corpo, tenuta in vita da un motore (il cuore) e guidata da un computer di bordo (il cervello). Spentosi  il motore, non c’è più nulla da fare, secondo il loro punto di vista. Vorrei che queste persone mi spiegassero l’origine della personalità, del carattere, dei sentimenti, dei ricordi (magari di vite precedenti), delle percezioni extrasensoriali e – perché no? – del pensiero, ma senza tirare in ballo ormoni, neuroni o sinapsi…
La seconda categoria, invece, crede che nel corpo ci sia un’anima che continuerà a vivere anche dopo la morte del suddetto corpo.
Per i primi avrei un suggerimento non tanto perché cambino idea, ma perché possano valutare anche un’altra prospettiva: perché non provate a vedere la morte come un naturale passaggio di stato anziché come la cessazione della vita? Il corpo potrebbe essere un vestito, in fin dei conti, un utilissimo “abito” che traduce all’esterno ciò che abbiamo all’interno.
La morte non è soltanto lo smettere di battere da parte del cuore; non avviene soltanto perché sangue e, di conseguenza, ossigeno non arrivano più al cervello; non è solo lo spegnersi dei sensi. La morte è anche il periodico ricambio cellulare (attenzione: delle cellule, non del telefonino);  morte vuol dire anche cambiamento: moriamo ogni volta che subiamo una sconfitta, otteniamo una vittoria o affrontiamo una perdita (che può essere anche di una parte di noi); morte significa anche cessazione della ricerca, del desiderio di scoperta, ovvero l’abbandono della volontà.
Pochi esempi, questi, che ci possono invitare a pensare che la morte si verifica ogni giorno nelle nostre vite, anche se spesso non ce ne accorgiamo perché è il frutto di passaggi graduali. Piccoli cambiamenti di stato che mutano il nostro essere. Prendendo per vero questo semplice presupposto per cui è naturale morire ogni giorno, va da sé che ognuno di noi è anche in grado di rinascere ogni giorno o, comunque, ogni volta che lo desidera.
Certo è che la morte fa paura. Abbiamo paura che sopraggiunga troppo presto e ci impedisca di realizzare i nostri sogni; abbiamo paura di soffrire o di creare sofferenza ai nostri cari; abbiamo paura di cosa ci attende dall’altra parte, se qualcosa dall’altra parte c’è… Allora mi piace pensare che si tratti davvero di un passaggio di stato, magari di un ritorno alla nostra vera natura, al nostro stato originario. E mi chiedo: “Se fossimo sempre noi?” Voglio dire: pensate se i sette miliardi di individui che abitano il pianeta Terra fossero, in realtà, sempre le stesse persone che si re-incarnano in corpi ogni volta differenti… Se così fosse, per quale motivo, ad ogni re-incarnazione, dimentichiamo tutto? Forse per avere la possibilità e l’opportunità di vivere ogni vita senza portarci dietro la zavorra di antichi retaggi, errori commessi, sensi di colpa, rimorsi o rimpianti di qualsivoglia natura? O forse, come nel mito di Er, al momento di “ritornare” beviamo l’acqua del fiume Amelete?
 Chissà… Forse tutti gli spermatozoi con i quali, quando sono stata concepita, ho gareggiato per venire al mondo erano tutti me e qualunque di loro avesse “vinto” la corsa per la vita sarebbe diventato me. E’ inquietante, ma  possibile.
Chissà se nasciamo liberi di fare davvero ciò che vogliamo o se abbiamo una missione da compiere, un Destino già segnato. E chissà se quel Destino lo abbiamo pianificato noi stessi, prima di venire “giù” o se lo ha fatto Qualcun altro per conto nostro.
Chissà…

martedì 14 agosto 2018

Riflessioni su "Robinson Crusoe" di Daniel Defoe, Giunti.


L’hanno cercata tutti, in ogni epoca. E’ una sorta di Terra Promessa, un’Isola del Tesoro, un’Isola che non c’è. La Felicità, quella con la “F” maiuscola, ha avuto molti nomi, soprattutto nella letteratura. Ma essa non è un luogo fisico, una realtà fuori di noi: essa è qualcosa dentro di noi. La Felicità non è un luogo che non c’è perché, altrimenti, non sarebbe raggiungibile, ma un “luogo-non-luogo”; non è un’ora, un minuto, un giorno, ma un “momento-senza-tempo”, un istante che esula dalle nostre misurazioni temporali: può durare un attimo oppure a lungo, ma è più probabile che in un solo attimo ci sembri di aver vissuto una vita intera e – viceversa – in una vita fatta di tanti momenti felici ci sembri di aver vissuto un solo istante. La Felicità è una percezione, un senso che – come tutti gli altri sensi – va sviluppato e, ancor prima di essere sviluppato, va coltivato con amore. Ognuno la trova in cose diverse: le persone felici sembrano tutte uguali – e forse lo sono davvero – ma quel che le distingue è il motivo della loro Felicità. Per trovarla, per provarla, occorre capire quali sono le cose a cui dare veramente importanza e quali quelle che ci illudono solamente.

“Alla vista del denaro sorrisi fra me e non potei trattenermi dall’esclamare ad alta voce: «Oh, illusione! A che cosa servi? Non vali niente, per me, niente: nemmeno la fatica di raccoglierti. Ha più valore uno di questi coltelli di tutto il gruzzolo che rappresenti: di te non saprei proprio che farmene. Rimani perciò lì dentro e finisci pure in fondo al mare: non sei cosa che meriti di essere salvata»”. (pag. 78)

“Ma che importanza aveva tutta questa roba? Per me aveva valore solo ciò che mi serviva”. (pag. 85)

“Insomma, riflettendo e meditando, avevo capito che la natura e l’esperienza mi davano questo insegnamento: che le buone cose di questo mondo sono tali solo se possono esserci utili, e che noi godiamo di tutto ciò che riusciamo ad accumulare, anche per farne parte agli altri, solo nella misura in cui possiamo usufruirne e non di più. Se si fosse trovato nella mia situazione, anche l’avaro più rapace e più avido del mondo sarebbe guarito dal suo male, perché avrebbe posseduto, come me, molto più del necessario. Non c’era nulla, infatti, che potessi desiderare se non quelle cose di cui sentivo la mancanza non per il loro valore intrinseco ma perché mi sarebbero state utili. Come ho detto prima, avevo un sacchetto di monete d’oro e d’argento, per circa trentasei sterline. Che cosa potevo mai farmene di quello sporco metallo che, ahimè, restava inutilmente chiuso nella sua custodia? Spesso pensavo che ne avrei dato volentieri una manciata per dodici dozzine di pipe o per un mulino a mano con cui macinare il grano. Che dico? L’avrei dato tutto per mezzo scellino di di semi di rapa e di carota inglesi o per un pugno di piselli e fagioli, e una boccetta d’inchiostro. Nella mia situazione attuale, quel denaro non mi procurava alcun vantaggio, non mi dava alcun sollievo; ammuffiva in una cassetta nell’umidità della grotta, durante la stagione delle piogge, e anche se la cassetta fosse stata piena di diamanti nulla sarebbe cambiato per me; neppure i diamanti avrebbero avuto qualche valore, perché non mi servivano a niente”. (pagine 185 e 186)

I desideri sono bisogni e di cosa può aver bisogno un uomo prigioniero di se stesso su un’isola deserta come Robinson Crusoe? Il denaro sicuramente non gli serve: per lui è un’illusione ed è, pertanto, inutile desiderare di possederlo. A Robinson mancano la compagnia, il contatto umano, alcuni cibi e bevande, attrezzi e utensili vari, il conforto nei momenti difficili. Scopre le sue più grandi paure, le guarda in faccia, le affronta e le vince. Con l’aiuto del tempo trasforma i rimpianti e i rimorsi in insegnanti e apprende, da loro, lezioni di vita essenziali. Trova la Fede, ne fa la propria principale fonte di conforto e si mette in discussione, continuamente. Comprende il vero significato del concetto di libertà e, insieme a lui, anche noi – leggendo la sua storia – arriviamo alla grande intuizione che spesso la prigionia è dentro di noi, nella nostra mente.
Con Robinson Crusoe si può intraprendere un cammino speciale che porta a trovare motivi di gioia autentica anche e soprattutto nelle piccole cose. E si arriva a constatare che quelle cose di cui gioiamo non sono poi tanto piccole, per noi… D’altronde la Felicità dipende in gran parte dall’appagamento di due diverse tipologie di bisogni: quelli del corpo e quelli della mente (o dell’anima, se preferite). Anche il filosofo greco Epicuro ne era fermamente convinto: la Felicità, quella vera, è data dal perfetto equilibrio di Benessere e Serenità. La buona salute fisica e la tranquillità mentale sono i mattoncini con cui costruire una vita felice. Ma questi due elementi contengono, a loro volta, numerosi consigli come quello – utilissimo – di seguire i sensi ogni volta che ci troviamo a dover prendere una decisione.
Quanti di noi sono ancora in grado di abbandonarsi alla meraviglia, allo stupore estatico e alla gratitudine? Quanti sanno ancora esprimere desideri autentici? E, di questi, quanti sanno fare dei desideri una “propulsione” per crescere e superare se stessi?
Una delle cose che possono colpire maggiormente il lettore è il “bilancio” che Robinson fa, ad un certo punto, della propria situazione: è una netta distinzione che vede i lati positivi da una parte e i lati negativi dall’altra; un modo per combattere lo scoraggiamento che inevitabilmente lo aveva colpito dopo l’approdo sull’isola. (pagine 89 e 90)

“[…] e vorrei che questo potesse servire come l’ammonimento, da parte di chi ha sperimentato la condizione più infelice del mondo, che anche in una congiuntura disagiata si può sempre scoprire, se ci mettiamo a cercare il bene e il male, qualcosa che ci conforta”. (pag. 91)

Robinson Crusoe è, dunque, una storia di ingegno, di coraggio, di speranza, ma anche di dolore, di solitudine, di sofferenza e di angoscia, nonché di bisogni e di soddisfazioni, di desideri e di paure, di gratitudine, di Fede e di Destino. E’ un libro in cui compare puntualmente la parola “Felicità” in tutte le sue declinazioni più “alte” (come la parola “Gioia”) e più “basse” (come la parola “Infelicità”). E’ un libro che narra il valore della vita e dei “segni” che Qualcosa o Qualcuno ci manda per condurci, giorno dopo giorno, proprio sulla strada della vita. Tutto dipende dall’uso che decidiamo di fare di quei “segni”: se li ascoltiamo e diamo loro retta andremo in una direzione, se non li ascoltiamo andremo in un’altra. Ogni cosa dipende dal punto di vista dell’osservatore e, che ci sia un Disegno Divino oppure no a guidare i nostri passi, poco importa: l’importante è vivere al meglio delle nostre possibilità e fare tesoro di ogni esperienza.