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LA BELLEZZA

giovedì 21 marzo 2024

"Quaderno proibito"

 

Alba de Céspedes, "Quaderno proibito", ed. Mondadori.

“Quaderno proibito” è la storia di un “risveglio”, il risveglio di una donna che si riscopre tale. Valeria – questo è il nome della protagonista – è figlia, moglie, madre, amica, collega, ma – grazie a un atto “sovversivo” – comincia a scavare dentro se stessa per trovarsi e/o ritrovarsi. L’atto in questione è l’acquisto di un quaderno (lascio a voi la scoperta del motivo per cui viene definito “proibito”) che assume la funzione di diario. Nel suo diario – intimo e segretissimo – Valeria annota le tappe del proprio risveglio, raccontando in modo semplice ma estremamente dettagliato e profondo i fatti che le accadono nel quotidiano. Il diario le consente di mettere a fuoco l’inquietudine, il dissidio interiore, il desiderio di essere “vista”, considerata e compresa; il bisogno di sentirsi viva e di avere uno spazio e del tempo tutti per sé.

“Pubblicato a puntate tra il 1950 e il 1951, e un anno dopo in volume, “Quaderno proibito” è considerato il capolavoro di Alba de Céspedes, un libro che è testimonianza storica di un’epoca e tributo a una generazione pre-femminista decisiva per tutte le rivoluzioni successive; ma soprattutto una magistrale prova letteraria capace di svelare l’identità, frammentata e mutevole, dell’essere umano”[1].

“Siamo sempre inclini a dimenticare ciò che abbiamo detto o fatto nel passato, anche per non avere il tremendo obbligo di rimanervi fedeli. Mi pare che altrimenti tutti dovremmo scoprirci pieni di errori, e, soprattutto, di contraddizioni, tra quello che ci siamo proposti di fare e quello che abbiamo fatto, tra quello che avremmo desiderato di essere e quello che ci siamo accontentati di essere in realtà”[2].

Valeria compra il quaderno proprio perché si tratta di un oggetto “proibito” e l’azione stessa di tenere un diario diventa improvvisamente (e automaticamente) qualcosa di proibito. Scrivendo su quelle pagine, non solo scopre molte cose su di sé, ma inizia anche a capire di avere dei diritti – oltre che dei doveri – nella vita.

“Non ti rendi conto di quanto hai lavorato per coprire le cose finché non cerchi di dissotterrarle”[3].

Sono in tanti a farlo (io compresa); sono in tanti a nascondersi dietro le convenzioni sociali, dietro la morale, dietro il senso del dovere, dietro il “così si deve fare perché così si è sempre fatto”. Sono in tanti a mettere da parte i propri bisogni per far spazio a quelli degli altri. La famiglia, il lavoro, gli amici, tutti esigono un “prezzo”, per ognuno di loro portiamo una maschera. Essere uguali a se stessi per tutta la vita non è soltanto impossibile, è innaturale, ma ci imponiamo di farlo perché abbiamo paura di sentirci dire che siamo cambiati, che non ci riconoscono più… La verità è che, così facendo, non conosceremo mai noi stessi e neppure gli altri.

Un altro grande ostacolo alla nostra scoperta/riscoperta/crescita personale è il senso di colpa. Convincersi di essere “sbagliati” frena lo sviluppo della personalità, blocca la creatività, inchioda la voglia di fare e sotterra i desideri. Spesso, chi – come Valeria – cede agli impulsi vitali, si trova poi costretto a fare i conti con i rimorsi di coscienza. In alcuni casi il rimorso è giustificato e, anzi, auspicabile, ma in altri fa il paio col rimpianto. Cioè: o fai una cosa e te ne penti o non la fai e… ti penti di non averla fatta.

“Tu ti senti obbligata a servire tutti […]. Allora anche gli altri, a poco a poco, finiscono per crederlo. Tu pensi che per una donna aver qualche soddisfazione personale, oltre quelle della casa e della cucina, sia una colpa: che il suo solo compito sia quello di servire. Io non voglio, capisci?, non voglio”[4].

A parlare, qui, è la figlia di Valeria – Mirella – che, come la maggior parte delle persone, ama i genitori, ma ha negli occhi anche la voglia di “superamento”. L’obiettivo consiste nel prendere il meglio da chi ci ha messi al mondo e integrarlo col proprio meglio, per superarli e per superarsi. E per essere felici.

Siamo tutti vittime del concetto di “utilità”, ma nessuno viene al mondo – soltanto – per “servire” a qualche scopo…

Valeria è una creatura “invisibile” che, a un tratto, si accorge di esistere e di “essere”. Il quaderno/diario diventa il suo specchio, lo specchio della sua interiorità e la prova del suo essere al mondo. Perché vivere non significa solamente essere in vita, ma anche accorgersi di esserlo e godere di tale fatto. [Pssst pssst, sì tu, proprio tu che stai leggendo questo post: ACCORGITI DI TE!]

E scrivere è un buon modo per accorgersi di sé. All’inizio “è difficile ricreare in parole le cose che vediamo e sentiamo nella mente”[5]… ma:

“Tutti i problemi della scrittura e della recitazione nascono dalla paura. Paura della vulnerabilità, paura della debolezza, paura di non avere talento, paura di fare la figura degli stupidi per averci provato, per avere anche solo pensato di poter scrivere. È sempre paura. Se non ci fosse la paura, immaginate quanta creatività nel mondo. La paura ci trattiene a ogni passo del nostro cammino”[6].

Mettersi a nudo, anche se solo sulla carta, anche se solo per noi stessi, può far paura. Persino la vergogna è una forma di paura. Quindi, spesso, quando ho difficoltà a scrivere qualcosa sul mio diario, penso: cosa mi frena? temo il giudizio degli altri? oppure temo il mio? Ecco, forse il nocciolo della questione è qui, nell’opinione che mi farei di me stessa se mettessi nero su bianco tutta la mia verità, ossia tutti i miei pensieri, tutte le mie motivazioni, tutte le mie azioni, tutto ciò che ho detto e desiderato; e poi tutti i fatti, quelli compiuti e quelli subiti… Ho paura che scrivere di queste cose le renderebbe effettive e irreparabili? È così che scatta l’auto-censura. È questo che scatena il silenzio sulla carta e il frastuono nella mente. È questo che mi fa ammalare…

Anche Valeria ha paura, a volte, ma il bisogno di mettere in ordine i propri pensieri e di trovare la vera se stessa, la Valeria autentica, è più grande della paura. Poi, una volta trovata, non le rimane che una cosa da fare: decidere se tirarla fuori o tenerla tutta per sé. Naturalmente non vi svelerò il finale, ma vi dirò che la sua scelta mi ha lasciata a bocca aperta.

Un altro modo per accorgersi di sé è leggere. Quando leggiamo può infatti capitare di sentirsi affini ai personaggi o alle vicende raccontate: questo accade perché ci sono cose che, per quanto intime e personali possano essere, fanno comunque parte di un patrimonio emozionale più ampio, che molti - prima di noi o insieme a noi – hanno vissuto e che molti – dopo di noi – sperimenteranno sulla propria pelle. Alcuni autori e alcune autrici sembrano parlare di e con noi; leggendo le pagine che hanno scritto, troviamo dei frammenti più o meno grandi del nostro vissuto perché ci sono delle cose che potremmo definire “universali”. Leggere ci fa sentire meno soli, ci fa sentire compresi, ci fa sentire unici ma, nello stesso tempo, “comunitari”. I poteri della lettura, così come quelli della scrittura, non vanno sottovalutati.

Ancora qualche appunto…

1.     Il film di (e con) Paola Cortellesi – “C’è ancora domani” – è un consiglio cinematografico che ben si adatta ai temi che ho trattato in questo articolo. Ma ve lo consiglio a prescindere da tutto, perché è veramente bellissimo.

2.     Se voleste approfondire i poteri della scrittura, ho pubblicato un articolo sui vantaggi di tenere un diario segreto. L'articolo in questione si intitola "Esercizi di scrittura creativa" e potete trovarlo a questo link: http://manumelaracconti.blogspot.com/2023/04/esercizi-di-scrittura-creativa.html

3.     Il libro di Lily King, spesso citato in questo articolo, è:

Lily King, "Scrittori e amanti", ed. Fazi.




[1] Estratto dalla seconda di copertina.

[2] Alba de Céspedes, “Quaderno proibito”, ed. Mondadori, pag. 40.

[3] Lily King, “Scrittori e amanti”, ed. Fazi, pag. 177.

[4] Alba de Céspedes, “Quaderno proibito”, ed. Mondadori, pag. 111.

[5] Lily King, “Scrittori e amanti”, ed. Fazi, pag. 279.

[6] Lily King, “Scrittori e amanti”, ed. Fazi, pag. 323.

 

lunedì 11 marzo 2024

Amélie Nothomb, "Le Catilinarie"

 

Amélie Nothomb, "Le Catilinarie", Voland. Traduzione di Biancamaria Bruno.

“Non sappiamo niente di noi. Ci crediamo abituati a essere noi stessi. È il contrario. Più gli anni passano e meno capiamo chi sia la persona nel nome della quale agiamo e parliamo. Non costituisce un problema. Che c’è di male a vivere la vita di uno sconosciuto? Forse è meglio: conosci te stesso e ti prenderai in antipatia”.

Un incipit folgorante, un’introduzione che ci porta dritti al cuore di uno dei temi più indagati nella storia della Letteratura: l’Io. Ma non tanto la faccia che mostriamo al mondo quanto quella più nascosta e più oscura, quella da cui cerchiamo di fuggire rifugiandoci nella solitudine e nel silenzio. La nostra Ombra, insomma.

Che differenza c’è tra mutismo e silenzio?

E tra silenzio e assenza?

E tra agire e reagire?

Quanto influisce la presenza degli altri sulla nostra felicità?

Quando la compagnia sfocia nella molestia?

Che cos’è il vuoto?

Quand’è che una vita si può definire tale?

Dove si trova il confine tra saggezza e follia?

E dove quello tra compassione e delitto, tra favore e crimine?

In fondo siamo tutti una miscellanea indefinibile di Dottor Jekyll e Mr. Hyde e chi ci circonda è ignaro di rappresentare l’innesco che fa emergere l’uno o l’altro, a seconda delle occasioni. Eppure…

“[…] tutti si portano dentro un grosso mucchio immobile, basta lasciarsi andare e quello spunta fuori. Nessuno è vittima di nessuno, se non di sé stesso”.

“Il vantaggio delle rotture di scatole è che mettono gli individui con le spalle al muro”.

Il modo in cui reagiamo agli altri dice molto di più su chi siamo noi che su chi siano loro.

“Il signor Bernardin non era il male, era un grande otre vuoto in cui sonnecchiava il gas malefico. […] Si avvelenava la vita avvelenando la mia”.

Amélie Nothomb esplora il terreno minato del suicidio, il tabù della morte – comprendendo anche il decesso per mano altrui, ovvero l’omicidio – e sviscera in tal modo i concetti estremi chiamati Felicità, Dignità, Disperazione, Vita, Coscienza e quella cosa chiamata Realtà, che a volte è un sogno, mentre altre volte è un incubo.

E così, senza condannare né tantomeno assolvere, Nothomb – attraverso i suoi personaggi - si fa portavoce dei drammi e delle spaccature che ogni individuo infligge e/o subisce; si muove con destrezza, intelligenza e tuttavia cautela sul confine che, in realtà, non separa vittima e carnefice; si sposta fra grazia e abominio, tra pietà e crudeltà.

La verità è che non sappiamo chi siamo, e dire “Io sono” è relativo, parziale e impreciso – e anche riduttivo - almeno quanto lo è dire “Io non sono”. Ma è proprio questo il bello: la relatività ci permette di essere chiunque e qualunque cosa.

“Descrivere un essere cominciando da ciò che non è ha qualcosa di vertiginoso. Cosa succederebbe se tentassimo di dire tutto ciò che non siamo?”

Un po’ come Ulisse, che – dichiarandosi Nessuno di fronte a Polifemo – fu tutto e niente, tutti e… nessuno. E si salvò.