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LA BELLEZZA

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martedì 22 aprile 2025

SECONDA RISONANZA


 
SECONDA RISONANZA, dal 16 aprile al 7 settembre 2025, alla GAM di Torino.

Nel precedente articolo vi ho lasciati con una promessa… Ho promesso che vi avrei parlato di… scale. No, non sono impazzita, si tratta di una tessera del grande e complesso “puzzle” che la GAM e il MAO stanno pian piano componendo grazie a una fitta rete di collaborazioni e prestiti. E, quando parlo di prestiti, non intendo solo di opere d’arte, bensì anche di… artisti. Se, infatti, la GAM ha prestato al MAO “Kotatsu (J. Stempel)” di Tobias Rehberger, il MAO ha ricambiato il favore prestandole Chiara Lee e freddie Murphy, il cui intervento sonoro – grazie anche alla collaborazione con l’artista sakha Aldana Duoraan – sorprende i visitatori proprio sulle scale della Galleria d’Arte. L’occasione? Seconda Risonanza. Se ricordate, l’anno scorso la nuova Direttrice della GAM – Chiara Bertola – aveva innescato un meccanismo di profondi cambiamenti che hanno preso il nome di Prima Risonanza[1]. La GAM sta cambiando aspetto e… assetto, grazie all’introduzione di novità come L’Intruso, i Quaderni dell’Intruso[2], il Deposito Vivente, l’ampliamento delle collezioni permanenti con un nuovo allestimento ispirato proprio ai temi della Seconda Risonanza e le mostre temporanee molto particolari. E i mutamenti – sia nell’architettura sia nell’organizzazione degli spazi sia nelle iniziative – stanno proseguendo la loro corsa: quest’anno, infatti, i protagonisti saranno Fausto Melotti, Alice Cattaneo, Giosetta Fioroni e i già citati Chiara Lee, freddie Murphy e Aldana Duoraan. E se nella Prima Risonanza i temi erano luce, colore e tempo, in questa seconda tappa sono ritmo, struttura e segno. Ora mettetevi comodi, così vi racconto il perché…

Collage di opere di Alice Cattaneo

Anche se può sembrare una scelta azzardata, parto con L’Intruso, anche perché l’installazione sonora a cura di Aldana Duoraan, Chiara Lee e freddie Murphy è ciò che accoglie e accompagna i visitatori su e giù per le scale della GAM. A un certo punto il suono “accade”, proprio come un’intrusione nella passeggiata tra le opere, ma non preoccupatevi, quel suono rappresenta una porta invisibile tra i mondi nelle sale. D’altronde non esiste una effettiva delimitazione dello spazio fisico alla GAM, in quanto ogni artista in mostra espande la propria “risonanza” in ogni ambiente. Trovate un po’ di Melotti in giardino, nel Deposito Vivente e nella hall oltre che al primo piano. E, in un certo senso, c’è un po’ di Fausto Melotti nell’”aura” di Alice Cattaneo e un po’ di Cattaneo nelle sculture di Melotti. Vi suona strano, vero? Vi starete chiedendo: come può una persona ancora in vita influenzare le opere di un’altra persona spentasi nel lontano 1986? La risposta, ancora una volta, risiede nel termine “risonanza”. La si avverte nell’astrattismo “conciso” che permea entrambi gli artisti e le rispettive opere. La stessa cosa vale per l’aspetto sonoro di cui parlavo prima: non c’è alcun confine fisico che delimita gli ambienti eppure qualcosa ci avverte che ne stiamo attraversando uno… È una sensazione, ma le sensazioni non arrivano mai a caso e vanno “ascoltate” perché ci raccontano sempre qualcosa di interessante. Questo concetto di sensazione e di limite invisibile, tra l’altro, è alla base del lavoro di Alice Cattaneo, tanto è vero che la mostra dedicata a lei si intitola “Dove lo spazio chiama il segno”. Questo titolo è nato da una conversazione che l’artista ha avuto con un maestro vetraio di Murano il quale, per indicarle quando e in quale punto tagliare il materiale per le sculture, ha suggerito di farlo dove questo “chiama”. Eccoci giunti al dunque: non c’è un segno fisico che dice “Tagliare qui”, ma un segno esiste nel momento in cui entriamo spiritualmente in comunicazione con ciò che ci circonda. Questo vale per tutto. A volte sentiamo che siamo chiamati a fare qualcosa e una voce da dentro – o da fuori, chissà – ci dice come dobbiamo agire. Chiamatelo “istinto”, “intuizione”, “sesto senso”, “magia”, “empatia”, “connessione”, ma il risultato non cambierà. Evidentemente qualcosa del materiale “risuona” nella mente dell’artista e l’unica via percorribile, per lei, è “vibrare” alla stessa frequenza.

Collage di opere di Alice Cattaneo

Un’altra parola chiave di questa Seconda Risonanza potrebbe infatti essere “interconnessioni”.

Collage di opere di Alice Cattaneo

Io non ci capisco molto di arte astratta o concettuale, ma mi affido sempre alle sensazioni, a ciò che le opere mi comunicano quando le osservo o quando il mio sguardo si posa su di esse di sfuggita. Se qualcosa attira la mia attenzione, mi soffermo su quel qualcosa e lascio che mi parli. E, a malincuore, devo dire che ciò che ha destato la mia curiosità è stato quel che sta “dietro” le opere più che le opere in sé. Un po’ come era accaduto per i lavori di Maria Morganti e Mary Heilmann (sulle quali  trovate un articolo sempre qui, su questo blog). Si tratta, per me, di Arte che va oltre l’Arte in una sorta di allargamento dei confini entro i quali rinchiudiamo la nostra idea già consolidata di Arte. Se usciamo da tali schemi mentali, comprendiamo che tutto ciò che ci dona delle emozioni e delle sensazioni può essere una forma d’Arte. Un colore, una sagoma, una consistenza… Nella mostra su Melotti, ad esempio, è stata l’ombra proiettata da un’opera a darmi un piccolo fremito; così come gli spicchi di luna in ferro che caratterizzano alcune sculture. Guardando queste ultime, mi sono resa conto di quanto ogni cosa venga ridimensionata a seconda dell’osservatore. C’è una relatività delle dimensioni che sta alla base di tutto l’universo: siamo minuscoli e insignificanti se osservati dalla Galassia, ma visti con gli occhi di una formica siamo giganteschi e spaventosi, probabilmente. La gravità di un problema varia a seconda che questo sia esterno o interno all’osservatore.

Per quanto riguarda, invece, le opere di Cattaneo, ho provato una certa attrazione per un blu intenso, del quale ho avuto una strana – e, forse, antica - paura; e per un giallo che mi ha dato una sferzata di energia. Mentre passeggiavo tra i cubi disposti a terra, immaginavo di trovarmi tra i ghiacci. E se guardavo soltanto davanti a me o ai miei piedi mi sentivo solo un puntino in mezzo a tanti, mentre se alzavo gli occhi mi accorgevo di far parte di un Tutto più grande e complesso. Con quei montanti di legno che – collegati – andavano da una sala all’altra, potevo davvero sentire una certa “risonanza” col Tutto. Ci vuole sensibilità per accorgersene – mi rendo conto – una sensibilità che, fortunatamente, possiedo. Posso percepire i legami invisibili che tengono unite le cose e che trasformano oggetti inanimati in esperienze, e colori in ricordi. Tuttavia non posso dire che quest’Arte faccia per me. Sono una persona di larghe vedute, ma il mio gusto prescinde dalla mia capacità di analisi.

Collage di opere di Alice Cattaneo

Al di là di tutto questo mio sproloquiare, di cui molto probabilmente non vi importa nulla, restano da dire cose più tecniche e oggettive sui 4 allestimenti che fino al 7 settembre 2025 occuperanno gli ampi spazi della GAM di Torino. Se avrete la pazienza di restare con me ancora un po’ vi entrerò nel dettaglio.

Collage di opere di Fausto Melotti

 

I curatori e sound artist Chiara Lee e freddie Murphy sono gli Intrusi[3] invitati per questa Seconda Risonanza. A loro è stato dato l’arduo compito di trasformare le scale del museo in strumento musicale. Il progetto è in collaborazione con il MAO Museo d’Arte Orientale di cui da circa 3 anni curano il public program Evolving Soundscapes. Lee e Murphy si sono a loro volta avvalsi della collaborazione di Aldana Duoraan, artista sakha che, attraverso il suono, esplora la cosmologia sakha delle tre anime, o Üs Kut. In questa tradizione, l’anima è composta da tre componenti: il Salgyn Kut (Spirito dell’aria), il Lye Kut (Anima della madre) e il Buor Kut (Spirito della terra), che si separano e si riuniscono in un ciclo continuo di transizione tra mondi fisici, simbolici e spirituali. Tale  passaggio tra i mondi si concretizza in un suono che riflette la tradizione del khomus (strumento che ricorda uno scacciapensieri) e che stimola riflessioni sullo scorrere del tempo, sulla fluidità dell’esistenza e sulle intersezioni tra il visibile e l’invisibile.

Collage di opere di Fausto Melotti

Salendo le scale ci si imbatte in “Lasciatemi divertire”[4], la mostra sulle opere di Fausto Melotti, il cui titolo trae ispirazione da un’ironica affermazione dell’artista e sottolinea l’approccio giocoso e sperimentale che ha caratterizzato la sua ricerca. L’esposizione – un percorso attraverso l’intera produzione di Melotti dagli esordi astratti degli anni Trenta fino alla maturità artistica – presenta oltre 150 opere dislocate in varie aree del Museo, compreso il giardino, in cui campeggia Modulazione ascendente (opera del 1977). La mostra si sviluppa in 8 sezioni, organizzate secondo un criterio cronologico e tematico. Il cuore dell’esposizione è rappresentato da un allestimento che sia architettonicamente sia metaforicamente simboleggia il periodo più intenso della produzione dell’artista. 

Collage di opere di Fausto Melotti

Questo cuore è racchiuso infatti nelle sale interne del percorso di visita ed evoca gli studi dell’artista a Milano (via Leopardi) e Roma (via Margutta), spazi di intensa creatività in periodi differenti della sua carriera. Le narrazioni delle altre sale si concatenano, talvolta sfumando l’una nell’altra. Il percorso espositivo attraversa i principali nuclei tematici della poetica melottiana: dall’Arte astratta della prima metà degli anni Trenta alle suggestioni urbane e naturali di Città e foreste, passando per Cosmologie e i miti antichi, fino agli Alfabeti, testimonianza del profondo legame di Melotti con la scrittura, oltre che al disegno e alla scultura. 

Collage di opere di Fausto Melotti

Due sezioni, intitolate Intervalli e contrappunti e Pioggia e vento, raccolgono opere ispirate rispettivamente alla musica e ai ritmi naturali. Risonanze che si intrecciano indissolubilmente ai concetti di vuoto e silenzio.

Collage di opere di Fausto Melotti

 Infine, ampio spazio è riservato alla Produzione ceramica e ai Teatrini, piccoli scenari abitati da figure antropomorfe che Melotti ha realizzato a partire dalla metà degli anni Quaranta. La presentazione delle opere tiene conto delle esposizioni storiche di Melotti, adottando soluzioni espositive da lui stesso ideate, come i caratteristici piedistalli a “I”. Per completare il quadro, la Biblioteca della GAM espone al proprio interno una selezione di documenti e fotografie.

Collage di opere di Fausto Melotti

“Dove lo spazio chiama il segno”[5] di Alice Cattaneo racconta invece diversi momenti della ricerca dell’artista, una ricerca improntata su parole come ritmo, interruzione e cura.

Giosetta Fioroni, "La ragazza della TV", 1964, smalto su tela.

Per quanto riguarda Giosetta Fioroni[6], invece, c’è poco da dire, ma… molto da guardare. La mostra[7], seppur piccina piccina - si compone infatti, di un dipinto e quattro filmati, proiettati su altrettanti schermi – parla al visitatore senza far uso del sonoro.  I film, proprio come il dipinto, sono muti, ma raccontano di specchi e riflessioni, e della strana risonanza che mette in collegamento vanità e timidezza, tangibilità e inconsistenza, essenza e apparenza. Come specchi negli specchi, le immagini che vediamo nelle opere di Giosetta Fioroni non sono di prima mano, ma rappresentano riflessi di immagini, e questo dà l’impressione di trovarsi in una realtà bidimensionale che fa di tutto per apparire a tre dimensioni. L’ “argento” – colore dominante delle pellicole in b/n (e del dipinto) – accentua, secondo me, questa impressione. Ma io non so granché nemmeno di Arte filmico-cinematografica, quindi mi rifaccio, ancora una volta, alle mie sensazioni… Comunque sia, a proposito delle sue opere, Fioroni ha detto: “Cercavo la leggerezza quasi di un’antica sequenza dei fratelli Lumière, del primo cinema, qualcosa che proprio trascorre […], qualcosa che poteva suggerire in chi guardava un che di tremulo, di estremamente lieve: un’apparenza, una dissolvenza”.

 

Le mostre di cui vi ho parlato in questo articolo sono talmente particolari che non so se affermare che sono adatte a tutti o solo ad alcuni, ma una cosa è certa: se andrete a visitarle, non limitatevi a osservarle con gli occhi, cercate di “sentirle” con lo stomaco.



[1] Se volete saperne di più, potete consultare l’articolo che scrissi in merito. Lo trovate a questo link: 

https://manumelaracconti.blogspot.com/2024/10/berthe-morisot-e-la-nuova-gam.html 

[2] Generosamente offerti e pubblicati da Allemandi Editore.

[3] Dal 16 aprile al 7 settembre 2025 alla GAM di Torino.

[4] A cura di Chiara Bertola e Fabio Cafagna, in collaborazione con Fondazione Fausto Melotti e con il contributo di Galleria Christian Stein e il sostegno di Hauser & Wirth. Dal 16 aprile al 7 settembre 2025. Alla GAM di Torino.

[5] A cura di Giovanni Giacomo Paolin. Dal 16 aprile  al 7 settembre 2025. Spazio del Contemporaneo, GAM Torino.

[6] Coppie, Gioco, Goffredo e Solitudine femminile – questi i titoli delle pellicole – sono stati girati tutti nel 1967, ma la mostra si apre con un dipinto del 1964, intitolato La ragazza della TV.

 

[7] A cura di Elena Volpato. Visitabile dal 16 aprile al 7 settembre 2025. Nella videoteca della GAM di Torino.

 


lunedì 4 novembre 2024

MARIA MORGANTI e MARY HEILMANN

 

La "Ciotola" - unica tavolozza di Maria Morganti - in cui l'artista crea ogni giorno un nuovo colore a partire da quello, ancora umido, del giorno precedente.

“Nulla può tanto poco toccare un’opera d’arte quanto un discorso critico. […] Le cose non si possono afferrare o dire tutte come ci si vorrebbe di solito far credere; la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in  uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura”.[1]

Qualche giorno fa mi è stato regalato un libro che desideravo da tanto tempo: “Lettere a un giovane poeta” di Rainer Maria Rilke. Leggendolo, vi ho trovato delle splendide riflessioni sull’arte. Poi, per una serie di coincidenze o di intrighi del destino, mi è capitato fra le mani un libretto di aforismi di Oscar Wilde in cui ho trovato una marea di pensieri e riflessioni sul mondo dell’arte. Ho detto che si è trattato di una serie di coincidenze non a caso, infatti, proprio in questi giorni, ho potuto assistere all’anteprima di due mostre d’arte, alla GAM di Torino, che riguardavano Maria Morganti e Mary Heilmann. I due libri – quello di Rilke e quello di Wilde - sono venuti in mio aiuto mentre cercavo le parole per redigere l’articolo su ciò che avevo visto alle mostre. Pensavo: io non sono un critico d’arte, forse non sono qualificata per parlare di Astrattismo, come faccio a raccontare queste opere?, cosa posso dire per non cadere in una recensione astratta quanto ciò che ho visto?, come posso descrivere l’arte non figurativa?, è meglio che scriva due articoli separati o uno solo che racchiuda entrambe le mostre?, e altre cose così. Poi, mi è venuta un’idea… Ho pensato di estrarre tutte le citazioni sull’arte che avevo letto, ordinarle secondo un criterio logico-discorsivo e creare così un breve saggio critico-non-critico. Per arricchire il mio lavoro sono andata a curiosare anche sui miei vecchi testi scolastici[2] e ho trovato un sacco di materiale che mi ha aiutata a contestualizzare le mie intuizioni e le mie suggestioni. In breve, ho cercato di dare un senso al fluire dei miei pensieri. Per farlo, sono partita da quello che mi sembrava un punto a mio svantaggio, ovvero: io non sono un critico d’arte.

“Il critico è colui che sa trasformare in una nuova foggia o in un materiale nuovo le impressioni da lui riportate intorno alle cose belle”.[3]

“La critica, tanto nella forma più alta che nella più bassa sua espressione, non è che una forma di autobiografia”.[4]

“Anche il critico è a suo modo un artista”.[5]

“La critica è in se stessa un’arte… Non può essere giudicata alla stregua di un basso criterio di imitazione o di somiglianza, né più dell’opera del poeta o dello scultore. Il rapporto che esiste fra il critico e l’opera d’arte ch’egli esamina, è lo stesso che corre fra l’artista e il mondo visibile di forma e di colore o il mondo invisibile della passione e del pensiero. La sua arte per raggiungere la perfezione non esige neppure i materiali più fini. Tutto può servire al suo scopo”.[6]

Saper raccontare opere d’arte è un’arte, perciò posso dire che più che un critico sono un’artista; un’artista che, parlando di cose che stanno fuori, dice di sé più di quanto vorrebbe ammettere. Per esempio, potrei far trapelare che l’Astrattismo non è il genere di arte che preferisco, ma nonostante i miei gusti propendano per altri generi, tengo vive le mie capacità empatiche e la mia sensibilità per poter ugualmente trovare dei punti di contatto con le opere e con gli artisti (e le artiste) che meno raggiungono il mio “palato”.

“Un’opera d’arte è buona, s’è nata da necessità”.[7]

“Il senso del dovere è simile a un’orribile malattia. Distrugge i tessuti del pensiero come certe malattie distruggono i tessuti del corpo”.[8]

Arte come necessità e necessità come bisogno, ma bisogno di cosa esattamente? Mi sono posta questa domanda pensando sia alle opere di Maria Morganti sia a quelle di Mary Heilmann. Ho assistito alla conferenza stampa, nella quale sono state dette molte cose su entrambe. La prima era addirittura presente e ha parlato in prima persona del proprio lavoro, ma io me lo domando comunque. Per produrre arte, sotto qualsiasi forma, occorre provare una sensazione di bisogno, un desiderio imperioso e cocente, un impulso dall’interno. Cosa avrà spinto queste due artiste a dipingere? E per quale motivo hanno deciso di esprimersi proprio adottando lo stile e le tecniche che usano? Se senti di “dover” fare qualcosa – non per imposizione dall’esterno, bensì da un potente slancio interiore, da un fortissimo desiderio personale – allora di sicuro darai vita a qualcosa di unico, autentico, eccezionale. Kandinskij riteneva che ogni artista dovesse obbedire a una necessità interiore; pertanto, la scelta dei mezzi espressivi sarebbe potuta cadere su qualsiasi cosa e portare sia a un risultato realistico sia ad uno astratto. Qual è, dunque, la scintilla di Morganti e Heilmann? Cosa le ha spinte nella direzione che hanno imboccato?

La raccolta completa dei 221 scatti dell'anno 2012 prodotti da Maria Morganti al rio del Gozzi (Venezia). Posizione, inquadratura e angolazione sono sempre le stesse, cambiano solo i giorni in cui sono state scattate le fotografie.

“L’artista non desidera mai dimostrare una qualsiasi cosa”.[9]

“L’arte è sempre inutile”.[10]

“L’arte è a un tempo rappresentativa e simbolica”.[11]

“Ogni arte è immorale”.[12]

“Lo scopo dell’arte non è la semplice verità, ma la complicata bellezza. L’arte è in fondo una forma di esagerazione delle cose, […]”.[13]

“L’emozione per l’emozione è il fine dell’arte; e l’emozione per l’emozione è il fine della vita, […]”.[14]

“La vera scuola dell’arte non è la vita, ma l’arte stessa”.[15]

‘Emozionarsi’ è la parola d’ordine. Emozionarsi mentre si crea, mentre si produce, senza preoccuparsi dell’effetto che avrà sugli spettatori: è questa la chiave di tutto?

Mary Heilmann, alcune opere tra cui spicca, in alto a sinistra, "Orbit".

 

“L’arte ha le sue origini nell’ornato, nel lavoro di pura immaginazione e di diletto che si occupa dell’irreale e del non esistente. È questo il suo primo stadio. Poi la vita subisce il fascino di questa nuova meraviglia e chiede di essere accolta entro il cerchio magico. L’arte accetta la vita come facente parte della sua materia prima, la crea di nuovo foggiandola in forme nuove; l’arte ostenta la più assoluta indifferenza per i fatti; essa immagina, inventa, sogna, e mantiene fra sé e la realtà la barriera impenetrabile della bellezza stilistica, del trattamento decorativo e idealistico. Poi succede un terzo stadio, quando la vita acquista la superiorità e caccia l’arte nel deserto. Questa è la vera decadenza di cui soffriamo attualmente”.[16]

“L’arte crea un effetto incomparabile ed unico, e ciò fatto passa oltre”.[17]

“Conoscere i princìpi dell’arte suprema vuol dire conoscere i princìpi di tutte le arti”.[18]

“L’artista è colui che crea cose belle”.[19]

“Il vero artista non si preoccupa minimamente del pubblico. Per lui il pubblico non esiste”.[20]

“L’opera d’arte deve signoreggiare lo spettatore. Non sta allo spettatore signoreggiare l’opera d’arte”.[21]

Mary Heilmann, alcune opere, tra cui "Trellis" (1996) in alto a sinistra.

 

Dunque nell’Astrattismo, così come in qualunque altro genere, non si tiene conto dell’effetto ma soltanto della causa. Quale sia questa causa - questo bisogno impellente di stendere quel colore su quella tela, in quel modo e in quella forma - forse non ci verrà mai rivelato, ma possiamo sempre contare sul fatto che –inevitabilmente, anche se non è lo scopo dell’artista – un’opera d’arte avrà comunque un impatto sul pubblico. Un osservatore formula sempre un’opinione su ciò che osserva, e – così facendo – diventa esso stesso un artista, cioè un critico che ‘fa a pezzi’ l’opera di partenza per ‘ricostruirla’, a modo proprio, nella propria mente, infarcendola con il proprio ‘sentire’.

E nelle mostre di Maria Morganti e Mary Heilmann io ho ‘sentito’ il colore. 

Maria Morganti, ""Dentro la pittura #2" e "Gemmazione #7"

 

Il colore è diventato materia, perché nel colore c’è già tutto: c’è l’immagine, la forma, il tempo, l’emozione provata e quella trasmessa. Il colore diventa un’opera d’arte, fatta e finita. Sempre che si dia il giusto peso anche al modo in cui viene steso… Sembra, infatti, che Heilmann non dipinga solo coi pennelli, ma anche a mani nude, lasciando  segni del proprio passaggio sulle superfici pigmentate.

Mary Heilmann, "Deep water" (2022) e "Dive under" (2022), acrilico su pannelli.

L’immagine è ‘denaturata’, de-composta e infine ricompattata in puro colore. L’aspetto è denso, come quello che aveva il pongo che usavo da bambina e che stendevo sulla carta per colorare i miei disegni.

Mary Heilmann, alcune opere, tra cui "Chemical Billy" (2000), in basso a sinistra.

Il colore è un modo per arrivare all’essenza primaria delle cose e della natura, staccandosi però dalla riconoscibilità delle forme naturali. Così come accadde ai dipinti di Kandinskij, che si allontanarono dalle rappresentazioni della realtà esterna per rispecchiare invece la sfera emotiva e spirituale dell’artista, grazie all’uso delle geometrie e degli accostamenti di colore.

Mary Heilmann, "French Screen", 1978

Franz Marc sosteneva che occorre distruggere, e non riprodurre, la natura per cercare non le apparenze, ma le leggi che essa nasconde. Occorre, quindi, dipingere la forma ideale, originale ed essenziale delle cose.

E, infatti, le altre cose che ho ‘sentito’ sono le forme.

Mary Heilmann, particolare di "Good Vibrations Diptych, remembering David" (2012), ceramiche smaltate.

Nel 1926 Kandinskij pubblicò “Punto, linea nel piano”, un testo nel quale analizzava le proprietà del punto, inteso come essenzialità, come entità da cui tutte le forme geometriche hanno origine, e della linea, intesa invece come traslazione del punto sul piano. Ecco, di linee e punti se ne vedono parecchi, nei lavori di Heilmann… Cerchi e rette e composizioni di rette a creare – nella mia testa – analogie con le opere di un altro artista votato all’Astrattismo, ovvero Piet Mondrian.

Maria Morganti, "Progressione lunga #1", "Progressione lunga #2", "Progressione lunga #4"

L’uso della geometria delle combinazioni di colori e non colori rappresentava, per Mondrian, una tensione continua verso la realizzazione della fusione dell’arte con l’interiorità e, forse, anche in  Heilmann è in atto la stessa ricerca.

Maria Morganti, "Confronto con Balestra dopo il restauro". Si tratta della risposta cromatica di Morganti alla "Madonna" settecentesca di Antonio Balestra.

 

Paul Klee affermò:

“La natura può permettersi di essere prodiga in tutto, l’artista deve essere economo fino all’estremo. La natura è loquace fino a essere confusa, l’artista sia ordinatamente riservato […]. Se i miei dipinti destano talora l’impressione del primitivo, questa ‘primitività’ si spiega con la disciplinata riduzione del tutto a pochi tratti. Essa è soltanto senso dell’economia: in definitiva, perfetta capacità professionale, l’opposto della vera primitività”.[22]

Ho ravvisato questa ‘economia’ nei lavori di Maria Morganti più che in quelli di Mary Heilmann. Il suo quotidiano rituale della ciotola mi ha ricordato il costante rinnovo del lievito madre, tenuto in vita dalla cura, quasi maniacale, del suo creatore. Ogni giorno, nella ciotola al centro del suo studio, Morganti dà vita a un nuovo colore – ‘empatico’ – ravvivando il colore del giorno precedente, che in questo modo non si secca mai, ma si ‘reincarna’ in uno diverso, adatto al tempo, alle circostanze, alle atmosfere e al ‘sentire’ di Morganti in quel momento.  Morganti, stando alle parole di Elena Volpato – Curatrice della mostra – trasforma il tempo e il colore in un’unica materia concreta, e con quella dipinge.

"Rimpicciolimento Luogogesto". Si tratta della rappresentazione in miniatura del Luogogesto di Maria Morganti (compartecipazione di Melania Fusco e Marta Magini).

 Fa poi crescere con un solo colore varie tipologie di opere, le ravviva, le rinnova, in una costante propagazione… I suoi dipinti sono dunque dei veri e propri diari che però non terminano col finire del giorno, ma si ricollegano al giorno successivo. Volpato le paragona ai cerchi che si formano sull’acqua quando vi si getta un sassolino, io le vedo più come quelli che ci permettono di sapere quanti anni ha un albero, perché si aggiungono man mano a quelli precedenti.

Maria Morganti, "Diari di viaggio", 2018-2023

Anche nelle opere di Morganti il colore è protagonista, ma ci sono differenze sostanziali tra il suo stile e quello di Heilmann. Innanzitutto Morganti si auto-definisce artista-archivista. Significa che c’è un ordine rigoroso nella catalogazione delle tele; il suo studio – attualmente in mostra alla GAM di Torino come se fosse esso stesso una delle opere – è precisione pura. E, siccome dove c’è un archivio è dominante la presenza del tempo, è naturale associare a Morganti l’appellativo di ‘ordinata’. Non è così per Heilmann, che anzi, scombina, stravolge e ricombina spesso l’ordine delle sue opere senza tenere conto del fattore ‘tempo’.

Il Luogogesto di Maria Morganti.

Per sottolineare la doppia natura di Maria Morganti, la GAM è stata inizialmente allestita esponendo solo una parte delle opere e lasciando molte  delle pareti nude e spoglie, dotate solamente di ganci per accogliere l’ “Ostensione”, ovvero la performance avvenuta la sera dell’inaugurazione della mostra. Per l’occasione, dallo spazio in cui erano archiviate, sono state sfilate le tele mancanti che lentamente sono state appese a quei piccoli supporti in attesa. Io non ho assistito all’atto dell’ “Ostensione”, ho invece visto il vuoto propedeutico, la bolla nel tempo, lo spazio bianco in attesa della ‘cerimonia’.

Morganti è quindi sia una pittrice che ama l’ordine e sull’ordine basa il proprio lavoro, ma è anche una pittrice che reagisce emotivamente al tempo, alle circostanze, alle atmosfere di ogni giorno. È un’artista razionale e oggettiva, ma nello stesso tempo emotiva e soggettiva. E c’è ancora una cosa che segnala in modo chiaro e inequivocabile questo suo dualismo interno: una frase, il personale manifesto artistico di Morganti…

“Ogni opera esposta in questo spazio è sia un’opera autonoma e compiuta in se stessa, sia parte dell’Archivio-Opera dell’artista, ‘Un archivio del tempo’”.

Un immenso, infinito, puzzle, o forse un mosaico, una sineddoche di un’unica grande opera in cui – come afferma l’artista – “il colore accade”, una frase che mi ricorda vividamente il libro “Attraversare i muri” in cui Marina Abramović scrisse: “Che cosa è successo? È successa l’arte”.

Mary Heilmann, "Driving at night", 2016, acrilico su tela.

Ecco, forse è tutto qui, nel quotidiano, forse l’Arte è qualcosa che non va fatta, ma va lasciata accadere; forse siamo noi a definire ‘Arte’ quello che accade, mentre è soltanto vita su tela.

 

La mostra su Maria Morganti è a cura di Elena Volpato ed è visitabile fino al 16/03/2025.

La mostra su Mary Heilmann è a cura di Chiara Bertola ed è visitabile fino al 16/03/2025.

P.S.: vi lascio qui altre quattro citazioni di Oscar Wilde che ben si adattano a questo articolo. Mi erano sfuggite, ma meritano considerazione.

"L'artista deve creare cose belle, ma senza infondere in loro nulla della sua vita. Viviamo in un'epoca in cui gli uomini trattano l'arte come se dovesse essere una forma di autobiografia. Abbiamo perduto il senso della bellezza astratta".  

"È un errore credere che la passione che si prova nell'atto di creare si rispecchi nel creato. L'arte è sempre estranea a quanto creiamo. La forma e il colore ci parlano di forma e di colore, e nient'altro".

"Si dice che la tragedia della vita dell'artista è l'impossibilità per lui di rendere il suo ideale". 

"Ma la vera tragedia che affligge il maggior numero degli artisti è che essi rendono il loro ideale con troppa fedeltà, e quando un ideale è reso, non ha più né meraviglia né mistero, diventa soltanto un nuovo punto di partenza per un ideale diverso".






[1] Rainer Maria Rilke, “Lettere a un giovane poeta”, Adelphi.

[2] “Itinerario nell’arte. Dall’Età dei Lumi ai giorni nostri”, vol. 3, Giorgio Cricco e Francesco P. Di Teodoro, Zanichelli.

[3] Oscar Wilde, “Aforismi”, Newton Compton.

[4] Oscar Wilde

[5] Oscar Wilde

[6] Oscar Wilde

[7] Rainer Maria Rilke

[8] Oscar Wilde

[9] Oscar Wilde

[10] Oscar Wilde

[11] Oscar Wilde

[12] Oscar Wilde

[13] Oscar Wilde

[14] Oscar Wilde

[15] Oscar Wilde

[16] Oscar Wilde

[17] Oscar Wilde

[18] Oscar Wilde

[19] Oscar Wilde

[20] Oscar Wilde

[21] Oscar Wilde

[22] Da “Itinerario nell’arte”