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LA BELLEZZA

giovedì 4 maggio 2017

"Lui era mio padre" di Joann Sfar. Edizioni Clichy.



Quanto, dei nostri genitori, c’è in noi?
Quanto influisce la loro vita sulla nostra?
Quanto influisce – invece – la loro morte sulla nostra esistenza?
Joann Sfar [1]ci racconta quella parte di vita vissuta con i suoi genitori e – soprattutto – quella parte di vita dalla morte della madre – prima – e del padre, dopo. Pensieri “a briglie sciolte”, ricordi alla rinfusa per sottolineare quella confusione che regna nella mente di un figlio alla scomparsa delle linee guida che hanno segnato la sua vita. Smarrimento. Una sensazione che percepiamo “palpabile” tra le righe. La scrittura come catarsi. Scrivere diventa un modo per rendere “visibili” le proprie considerazioni mettendole su carta, nella speranza di dar loro un ordine, di trovare un appiglio per andare avanti senza soffrire troppo. La scrittura usata per dar corpo e peso alle anime. Periodi brevi, incisivi. Termini secchi, asciutti, diretti. Capitoli altrettanto brevi mostrano al lettore un “album” di ricordi fatto di tante istantanee. Rivalutare la propria esistenza in funzione di quella dei propri genitori. Perché – in fondo – chi siamo noi, se non il prodotto dei nostri genitori? un libro per renderci conto di quanto un figlio somigli a un padre e di quanto – allo stesso tempo – se ne discosti. Un libro che ci fa capire l’importanza di trovare sia dei punti di contatto coi nostri genitori sia qualcosa per cui non possiamo confrontarci con loro; una materia in cui essi non siano ferrati, ma noi sì, per poter recidere quel cordone ombelicale che ci lega a loro e imparare a camminare con le nostre gambe.
“La mia singolarità è nata in montagna, quando è morta mia madre. Non credo che avrei disegnato se mia madre fosse rimasta in vita, sicuramente non avrei neanche consacrato la mia vita a raccontare storie. Mi è piaciuto molto essere orfano. Mi ha fatto confrontare col mondo molto presto. Mentre gli altri coglioni aspettavano ancora che Dio gli regalasse delle ruote per la bicicletta, io stavo in piedi come uno strano adulto di tre anni e mezzo. Al contrario, la morte di mio padre mi rende banale. Alla fine probabilmente verrò capito perché quest’opera racconta il conflitto più comune che esista: sopravvivere al proprio padre e accorgersi, talvolta con orrore, di somigliargli”.
“Ho avuto fortuna a trovare il disegno, perché è l’unico campo della mia esistenza in cui mio padre non aveva esperienza e su cui non aveva un’opinione. Non si è mai opposto. Mi ha incoraggiato quando serviva, perché vedeva che mi rendeva felice, ma non ne sapeva nulla”.
Un libro che ci mostra quanta umanità si possa celare dietro alla figura di un padre che è sempre stato considerato alla stregua di un invincibile “supereroe”. Assistere al crollo di un padre che rappresentava un mito e scorgere nei suoi occhi e nelle sue parole la paura; paura non tanto della morte in sé, quanto della sofferenza e del dolore che spesso le si celano dietro.
 Ecco – dunque – che questo libro nasce con l’intento di raccontare una vita, ma – alla fine – ne racconta ben tre: quella di una madre, quella di un padre e quella di un figlio che – raccontando i propri genitori – finisce per raccontare sé stesso e il proprio dolore per la perdita subita.
“Ecco cosa accade quando si perde il padre: non si ha più nessuno da sbalordire. […] Chi posso trovare da sbalordire, alla sua altezza?”
“Ecco cosa mi manca del decesso di mio padre: non riesco più ad aver paura di nessuno”.
Un libro per arrivare ad ammettere che dai “duelli” con suo padre imparava sempre qualcosa. Un libro per accorgersi che è un’impresa troppo dura – se non impossibile – quella di mettersi alla ricerca di un’altra figura di riferimento da cui apprendere nuove cose. Perché – nonostante le sregolatezze e la dissolutezza - André ha cresciuto Joann trasmettendogli “come regole di condotta il rispetto dei doveri e il culto dell’onore”. Perché un figlio inizia dove il proprio padre finisce e la libertà dell’uno dipende da quella dell’altro.
“E finisce tutto quando non trovi più nessuno in grado di sparare più veloce di te”.
“Non combatto più con nessuno, perché mio padre non c’è più”.
Quando i nostri genitori sono in vita, facciamo di tutto per renderli orgogliosi di noi, ma una volta scomparsi loro…
“Alla fine io e mio padre abbiamo combattuto molto poco. Credo che la guerra sia come il sesso, bisogna praticarla poco per poterne parlare con piacere”.
In tutto il libro traspaiono con insistenza le tematiche della religione e della Fede. Cosa significa essere un ebreo quando non hai deciso tu di esserlo? Cosa significa vivere nel mondo dell’ebraismo quando non sai neanche se possiedi la Fede? Dio è una superstizione o ci assiste realmente? La religione può rappresentare davvero un utile mezzo di conforto o è – invece – soltanto una magra consolazione? Può – la morte di coloro che amiamo – aprire i nostri cuori a Dio?
Un libro intenso. Un libro che si legge tutto d’un fiato. Un libro che – una volta terminato – non si dimentica tanto facilmente.




[1] Joann Sfar: nato a Nizza nel 1971. Esplode come autore di fumetti già a 23 anni, e si impone come uno dei più grandi autori della bande dessinée con opere come Il gatto del rabbino, Professor Bell e Piccolo Vampiro. E’ autore anche del romanzo L’eterno (Rizzoli, 2014) e di romanzi illustrati come Se Dio esiste. In Italia i suoi fumetti sono stati pubblicati da Rizzoli Lizard, Bompiani, Coconino, Edizioni BD, 001 Edizioni, Orecchio Acerbo, Kappa Edizioni. Nel 2010 ha diretto il film Gainsbourg. Vie héroique, che si è aggiudicato il Prix César come miglior film.

martedì 18 aprile 2017

"L'altra figlia" di Annie Ernaux. L'Orma Editore.

Annie ha dieci anni quando  un giorno - per caso - sente la madre rivelare un pesante segreto ad una donna: lei non è figlia unica. E' così che Annie scopre di aver avuto una sorella o - meglio - scopre che i suoi genitori hanno avuto un'altra figlia (Ginette), deceduta due anni e mezzo prima della sua nascita. Una presenza ingombrante, un fantasma, un'ombra nella vita di Annie, le cui percezioni - da quel momento in avanti - non saranno più le stesse.

"Secondo l'anagrafe sei mia sorella. Porti anche il mio stesso cognome, [...]. Sul libretto di famiglia dei genitori, quasi a brandelli, nella sezione Nascite e Decessi dei Figli nati nel Matrimonio figuriamo una dopo l'altra. Tu per prima, [...] e sotto io, [...]. 
Ma tu non sei mia sorella, non lo sei mai stata. Non abbiamo giocato, mangiato, dormito insieme. Non ti ho mai toccata, abbracciata. Non conosco il colore dei tuoi occhi. Non ti ho mai vista. Sei senza corpo, senza voce, sei giusto un'immagine piatta su qualche foto in bianco e nero. Non ho alcun ricordo di te. Quando sono nata eri già morta da due anni e mezzo. Tu sei [...] la bambina invisibile di cui non si parlava mai, la grande assente da tutte le conversazioni. Il segreto. Sei sempre stata morta. Sei entrata morta nella mia vita nell'estate dei miei dieci anni. Nata e morta in un racconto, [...].

Come può, una persona che non c'è più, rappresentare una presenza tanto ingombrante nella vita di chi è ancora su questa Terra? Ce lo racconta Annie Ernaux in questo libro meraviglioso intitolato "L'altra figlia", dove  l'altra figlia non è Ginette, ma la stessa Annie.
Come può, una notizia, avere un tale impatto fisico su una persona pur non detenendo il "potere" di toccare?
La Ernaux "mette a nudo" tutti i suoi sentimenti, tutte le sue sensazioni e tutti i suoi pensieri più intimi in questa lettera indirizzata alla sorella Ginette, mai conosciuta. Una lettera che è funzionale affinché Annie possa compiere un'indagine e un  percorso dentro sè stessa; una lettera per rendere omaggio alla  sorella, per informarla di non serbare alcun rancore nei suoi confronti, per farla emergere dai frammenti dei propri ricordi e darle - finalmente - corpo, in modo da poterla lasciare andare e vivere il resto della propria vita senza quell'ombra di fianco a sè. "Forse ho voluto saldare un debito immaginario dandoti a mia volta l'esistenza che la tua morte mi ha dato. Oppure farti rivivere e rimorire per liberarmi di te, della tua ombra. Sfuggirti. Lottare contro la lunga vita dei morti. [...] Eppure un residuo di pensiero magico dentro di me vorrebbe che, in maniera inconcepibile, analogica, questa lettera ti raggiungesse come la notizia della tua esistenza mi ha raggiunta, una domenica d'estate". Scrivere diventa per la Ernaux un espediente per esorcizzare la morte, la paura della morte; scrivere rappresenta un'esperienza catartica per l'autrice di questo libro, che - così facendo - ha la possibilità di fare ordine e chiarezza nel proprio cuore e nella propria mente. "Io non scrivo perché tu sei morta. Tu sei morta perché io possa scrivere, fa una grande differenza". Grazie a questa lettera, il lettore compie un percorso insieme alla scrittrice di cui arriva a comprendere tutti i sentimenti; sentimenti che vanno dalla gioia di essere viva al senso di colpa per la stessa gioia, al senso di colpa per aver avuto il diritto di sopravvivere, alla consapevolezza di dover essere l'unica - tra le due - a poter sopravvivere. Scrivere è - per la Ernaux - una valvola di sfogo, ma anche un mezzo essenziale per comprendere sè stessa e fornire un nome adatto a ciò che prova. Talvolta è difficile dare un nome ai propri sentimenti e - ad un certo punto - anche la Ernaux crede di  aver bisogno di una lingua apposita, di un linguaggio plasmato ad hoc per parlare di Ginette. "Bisognava dunque che tu morissi a sei anni affinché io potessi venire al mondo ed essere salvata.
Orgoglio e senso di colpa nell'essere stata scelta per vivere, in un disegno indecifrabile".
"Orrore e senso di colpa nello scoprire in me il pensiero selvaggio che, evidentemente, tu non fossi fatta per la vita, [...]".
In questo libro capiamo cosa Ginette ha rappresentato per Annie e per i suoi genitori, ma anche cosa ha provato Annie per la figura materna. Annie ha vissuto nel costante paragone con la sorella, una sorella buona, troppo buona,  quasi Santa e questo ha scatenato un dolore indescrivibile nel suo cuore, dove sentiva di rappresentare - per la propria madre - un rimpiazzo indegno della perfetta sorella ormai defunta, ma sempre viva nel ricordo dei genitori. "Ti devono aver detto 'quando sarai grande', illustrato ciò che avresti potuto fare, insegnato a leggere, andare in bicicletta, fare da sola il tragitto fino a scuola, ti hanno detto 'l'anno prossimo', 'quest'estate', 'presto'. Una sera, al posto del futuro c'è stato soltanto il vuoto. Hanno ridetto le stesse parole anche per me. Ho avuto sei anni, poi sette, poi dieci, ti avevo superato. Per loro non c'erano più paragoni da fare".  Chi era - dunque - Annie per i propri genitori? La figlia meno buona? Il - già citato - rimpiazzo indegno? O - semmai - il futuro, la bambina che ce l'ha fatta, quella che è sopravvissuta e di cui potevano raccontare la vita e le vicende? Con Ginette han dovuto fermarsi ai sei anni, mentre con Annie han potuto andare avanti, han potuto riempire un enorme vuoto, un gigantesco buco nero di esperienze mai vissute.
Con questo libro la Ernaux  vorrebbe confessare ai propri genitori quanto il loro silenzio e il loro dolore per la perdita della prima figlia abbia inciso sulla vita della seconda. Da quella volta in cui Annie ha appreso - per caso - il grande segreto di aver avuto una sorella, nè la madre nè il padre hanno fatto più parola di Ginette. 
Per tutto questo Annie prova - o meglio, ha provato - sentimenti contrastanti anche nei confronti della madre, la quale inizialmente viene dipinta (dalla stessa autrice) come una "portatrice di morte", come creatrice di disagi, ma poi viene "scagionata" da tutte le accuse.

Un libro doloroso, toccante, fortemente intimo. 
Un romanzo breve, ma intenso, ricco di analisi e di scavi interiori. 
Una lettera in cui Annie dichiara di non avere nulla da condividere con la propria sorella, neppure i genitori, ma grazie alla quale - nello stesso tempo - sente di avere tutto in comune con lei. 
 Un libro bellissimo.

sabato 8 aprile 2017

"La signora col cagnolino e le nuove russe con il pitbull" di Antonio Armano. Edizioni Clichy, collana Bastille.



La mia natura è quella di cercare il lato positivo in tutte le letture che affronto, anche – e soprattutto – in quelle letture che non mi hanno fatto vibrare le corde dell’anima. Mi sono ritrovata ad agire in questo modo anche al termine dell’ultimo libro che ho letto. Il libro in questione è “La signora col cagnolino e le nuove russe con il pitbull” di Antonio Armano[1], edito dalla Clichy (Casa Editrice con la quale ho il piacere di collaborare). Sebbene –infatti – sia un libro interessante sotto certi punti di vista, ha anche – a parere mio – molti lati negativi. Partiamo dal titolo. Il titolo (e la collana in cui è inserito questo libro, ossia la Bastille[2]) aveva creato in me l’aspettativa di trovarmi di fronte ad un saggio in cui avrei potuto “assaporare” una sorta di confronto tra la figura femminile (in Russia) al tempo di Čechov[3] e la figura femminile (in Russia) ai giorni nostri. “La signora col cagnolino[4]” è – infatti – il titolo di un racconto dello stesso Čechov. Un saggio – d’altronde – nasce con l’intento di dimostrare o confutare una tesi, pertanto mi aspettavo di trovarmi davanti agli occhi un libro dalle caratteristiche evoluzionistiche in cui si desse prova del cambiamento avvenuto nelle donne dell’ Est (o – più in generale – nei Paesi dell’Est) dal 1900 ad oggi. Quel che ho trovato – invece – è una specie di diario di bordo dell’autore che ci accompagna in una serie di viaggi. Si parte dalla Crimea per arrivare in Bielorussia, per poi spostarsi in Ucraina e tornare in Crimea; slittare a Kaliningrad (Russia), rimettere piede in Ucraina, dirigersi in Lettonia e così via, arrivando a visitare la Repubblica Serba di Bosnia, la Repubblica Ceca e altri luoghi. L’originalità  di questo resoconto itinerante  è che tutti i luoghi toccati  e descritti dall’autore sono raccontati non solo dal suo punto di vista e attraverso la sua personale esperienza, ma anche attraverso i racconti, le vite, le vicende e le opere di scrittori, artisti e filosofi più o meno noti che hanno vissuto, scritto e avuto legami con tali luoghi. Da Čechov a Chagall, da von Rezzori a Kant, passando per molti altri nomi dalla grande rilevanza, Armano ci fornisce molti punti di vista (e questo è sicuramente un lato positivo). Il problema è che ho trovato tutto questo andirivieni piuttosto ricco e – forse proprio per questo – decisamente confusionario. Certo è che “La signora col cagnolino e le nuove russe con il pitbull” non è la solita guida turistica pre-impostata (e tale caratteristica è un altro lato positivo del libro che, in questo modo,  rispetta pienamente i canoni  della Collana Bastille), con i luoghi più belli da visitare messi in primo piano. Non è una guida turistica per turisti di massa fatta di tanti specchietti per le allodole, anche perché Armano ci porta con sé in alberghi senza alcuna dignità, in bettole e luoghi che si avvicinano pericolosamente al termine e alla definizione di “malfamato”. Ci parla di cibo e di bevande tipiche sconosciute ai più; ci fa compiere lunghi viaggi o brevi tragitti su mezzi di trasporto inusuali, ci parla di usanze e di modi di fare di autoctoni e non. Spesso ci narra le loro storie e ce li presenta per tutto ciò che essi sono: uomini e donne con le loro problematiche e i loro pensieri. Le vicende di viandanti e avventori si mescolano alle sue e a quelle dei grandi nomi della storia, della letteratura e dell’arte. Si parla di politica, e di conflitti tra persone e tra Stati. Si parla di Putin, di Ebrei e di lotte tra i popoli; si parla di governi e di Capi di Stato. Un libro ricco – come dicevo – troppo ricco; un libro arricchito ulteriormente da termini o intere frasi in lingua originale e da citazioni. Il fatto è che arricchire troppo significa appesantire!
Ne emerge una Russia spaccata ed ecco che – passatemi questa orrenda battuta – dalla vecchia Unione Sovietica sorge una nuova Divisione Sovietica… Una Russia che sembra quasi non si sia evoluta, ma che – piuttosto – sia rimasta ferma ad un’epoca lontana da noi nello spazio e nel tempo.  ( Da sottolineare, però, il fatto che anche questo aspetto risponde alle richieste della collana in cui è inserito “La signora col cagnolino e le nuove russe con il pitbull”).  Una Russia – sì – umana, ma strana e quasi inquietante, ai miei occhi. Una Russia il cui lato umano è particolarmente visibile nella descrizione che Armano ci fa delle badanti: esse ci vengono presentate come donne dure all’apparenza, ma pervase da un costante dolore interiore. Donne che – ancora oggi – sono vittime di pregiudizi.
Per fortuna – almeno – il linguaggio, lo stile di Armano è divertente e leggero…
Ecco “sfoderati”  i lati positivi e quelli negativi di questo saggio/resoconto. Se leggerete questo libro non dimenticate di farmi sapere la vostra. Vi aspetto!


[1] Antonio Armano: ha iniziato a scrivere viaggiando in Est Europa e coltivando lo studio delle lingue slave (russo e ceco). Ha collaborato con diverse testate, in particolare su temi culturali. Per i venti anni del crollo del Muro ha realizzato un reportage lungo l’ex Cortina di Ferro da Travemünde a Trieste pubblicato dal settimanale polacco Polityka. E’ l’autore del libro-inchiesta Maledizioni. Processi, sequestri e censure a scrittori e editori in Italia dal dopoguerra a oggi, anzi domani, edito da Aragno e ristampato dalla Bur nel maggio 2014, finalista al premio Viareggio.
[2] Collana Bastille: alla Bastille si ispirano i saggi di Edizioni Clichy, scritti politici, teorici, sociali, che esplorano le forme espressive più anarchiche, originali e dirompenti, rivolgendosi a lettori fortemente interessati ai cambiamenti del nostro tempo e alle contraddizioni della modernità, con una particolare attenzione alle marginalità e alle emergenze meno esplorate dalla riflessione “ufficiale”.
[3] Anton Pavlovič Čechov (in russo: Антон Павлович Чехов  ascolta; Taganrog, 17 gennaio 1860 – Badenweiler, 15 luglio 1904) è stato uno scrittore, drammaturgo e medico russo.
[4]  “La signora col cagnolino”:pubblicato per la prima volta nel 1899, è uno dei più celebri racconti di Anton Čechov.

mercoledì 1 marzo 2017

"Lo schiavista" di Paul Beatty. Fazi Editore.



Il romanzo inizia in medias res: ci troviamo catapultati nell’aula della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America. L’imputato è un uomo di colore soprannominato Bonbon. Bonbon è un nero sui generis accusato nientemeno che di aver reintrodotto la schiavitù e la segregazione razziale nella sua cittadina, Dickens. E’ interessante analizzare come e perché sia arrivato a compiere un gesto all’apparenza tanto folle. Bonbon è figlio di un sociologo/psicologo soprannominato “L’uomo che sussurrava ai negri” per la sua straordinaria capacità di influenzare - con le proprie parole – le azioni dei propri concittadini di colore. Anche Bonbon è stato influenzato dalla figura paterna, che conduceva su di lui ogni genere di esperimento. Una volta venuto a mancargli il padre, Bonbon si trova pressato da una doppia eredità: portare avanti l’opera di "sussurrare ai negri", nonché il compito di presiedere alle riunioni dei Dum Dum Donut Intellectuals (un circolo di stampo sociologico fondato dal padre stesso). Bonbon sembra disattendere tutte le aspettative paterne fino a quando scopre che Dickens (cinque anni dopo la morte del padre) è stata cancellata dalle carte geografiche dalle autorità della Contea. “La scomparsa di Dickens colpì alcuni più duramente di altri, ma l’abitante più bisognoso dei miei servigi era il vecchio Hominy Jenkins”. Hominy è un uomo instabile, nonostante il glorioso passato da attore, e rappresenta forse “il primo negro a cui abbia mai sussurrato” Bonbon. Bonbon salva, infatti, Hominy da un tentato suicidio e quest’ultimo si autoproclama suo schiavo in segno di riconoscenza. Bonbon non è d’accordo e tenta più volte di liberarlo, senza avere successo. Ed ecco quindi spiegata a grandi linee la rinascita della schiavitù; ma ancora un nodo resta da sciogliere, ossia come e perché sia avvenuta la reintroduzione della segregazione razziale. Primario obiettivo di Bonbon è infatti quello di ridare vita alla ormai scomparsa cittadina di Dickens. Dal creare di suo pugno cartelli stradali al partorire l’idea di una scuola aperta solo ai neri, al fare dell’autobus di zona un vero e proprio “quartiere” con leggi e regolamenti ben precisi, Bonbon riporta in auge il razzismo. Il paradosso sta nel fatto che con la reintroduzione  di schiavitù e segregazione razziale la cittadina sembra migliorare…


“Lo schiavista” tenta di dimostrare quanto debole sia il concetto di uguaglianza tanto declamato a gran voce dagli americani. L’intento non è quello di “sputare” sul diritto alla libertà di ogni essere umano, conquistato col sangue e col dolore di gente innocente, ma – al contrario – quello di farci comprendere che il razzismo non è mai stato debellato. Tutti, in modi e quantità differenti sono razzisti. “Lo schiavista” non è un “inno” al “si stava meglio quando si stava peggio”, ma la chiarificazione che un tempo il razzismo e la paura del “diverso” erano dichiarati e “professati alla luce del sole”, mentre ora il cinismo e l’ipocrisia nascondono questi problemi che, purtroppo, non hanno mai smesso di esistere.
Ogni frase, una potente critica.
Ogni frase svela un tassello di quel gigantesco puzzle che è l’America.
Ogni frase è un riferimento ad un concetto più ampio e complesso.
Il linguaggio è ricco, denso e ricercato, ma - nonostante ciò – lo stile è scorrevole, fluente, veloce, dal dinamismo impressionante. Il ritmo è incalzante.
Il concetto di confine viene trattato come una metafora. Il desiderio di ripristino della cittadina equivale al desiderio di riconquistarsi un’identità, un posto nel mondo. E’ importante per chiunque sentirsi appartenente ad un gruppo sociale. Il senso di identità e quello di appartenenza sono essenziali nella vita di ogni uomo.
E’ un libro complesso e articolato. In 369 pagine, Paul Beatty[1] ci spiega cosa significhi essere una persona di colore, svelando cliché e stereotipi della vita “nera”. Beatty smonta pezzo per pezzo quella che è la società americana, ogni “altarino”, ogni “scheletro nell’armadio” con ironia, sfociando spesso nel più duro sarcasmo. Un umorismo pungente, quindi; un libro da gustarsi ridendo, diventando ad ogni pagina più consapevoli della realtà in cui viviamo.
Vi lascio con due citazioni – per me significative - tratte dal libro:

“E’ illegale gridare ‘al fuoco’ in un cinema pieno di gente, giusto?”
“Sì”.
“Be’, io ho sussurrato ‘razzismo’ in un mondo post razziale”.

“Nel tentativo di riportare in vita la propria comunità attraverso la reintroduzione di norme, come la segregazione razziale e la schiavitù, che, data la storia culturale dell’imputato stesso, hanno finito, nonostante la loro pretesa incostituzionalità e inesistenza, con il definire tale comunità, l’imputato ha fatto emergere una debolezza fondamentale nel modo in cui noi, in quanto americani, sosteniamo di considerare l’uguaglianza. ‘Non mi importa se sei nero, bianco, marrone, giallo, rosso, verde o viola’. L’abbiamo detto tutti. In teoria questa affermazione doveva dimostrare che la nostra visione delle cose era priva di pregiudizi, eppure chiunque di noi, se venisse dipinto di viola o di verde, sarebbe fuori di sé dalla rabbia. Ed è questo ciò che sta facendo l’imputato. Ci sta dipingendo tutti, sta dipingendo questa comunità di viola e di verde, per vedere chi ancora crede nell’uguaglianza”.


[1] Paul Beatty: nato nel 1962 a Los  Angeles, ha studiato Scrittura creativa al Brooklyn College e Psicolgia alla Boston University. Oltre a “Lo schiavista”, Fazi Editore ha pubblicato “Slumberland” nel 2010. Beatty ha tre figli, vive a New York e con “Lo schiavista” si è aggiudicato il prestigiosissimo Man Booker Prize.


venerdì 24 febbraio 2017

"Mio fratello rincorre i dinosauri" di Giacomo Mazzariol. Einaudi.

Il 21 marzo ricorre la Giornata Mondiale della Sindrome di Down e -nel marzo del 2015 - Giacomo Mazzariol carica su YouTube un video sul fratello - Giovanni Mazzariol - che ne è affetto. Il video (dal titolo The Simple Interview) diventa immediatamente "virale" finché arriva a conquistare anche il cuore di numerosi giornalisti. La storia di Giovanni  commuove, diverte e insegna, tanto che Giacomo ne scrive un libro. Con "Mio fratello rincorre i dinosauri" Giacomo racconta non solo il fratello, ma anche sé stesso e il suo percorso. "Percorso verso quale meta?" - vi chiederete. Arriviamoci per gradi.
"Hai cinque anni, due sorelle e desidereresti tanto un fratellino per fare con lui giochi da maschio. Una sera i tuoi genitori ti annunciano che lo avrai, questo fratello, e che sarà speciale. Tu sei felicissimo: speciale, per te, vuol dire "supereroe". Gli scegli pure il nome: Giovanni. Poi lui nasce, e a poco a poco capisci che sì, è diverso dagli altri, ma i superpoteri non li ha. Alla fine scopri la parola Down, e il tuo entusiasmo si trasforma in rifiuto, addirittura in vergogna. Dovrai attraversare l'adolescenza per accorgerti che la tua idea iniziale non era così sbagliata. Lasciarti travolgere dalla vitalità di Giovanni per concludere che forse, un supereroe, lui lo è davvero. E che in ogni caso è il tuo migliore amico".
Come si evince dalla trama, "Mio fratello rincorre i dinosauri" è una storia vera, autentica, genuina; è un libro che - ancora una volta - ci fa riflettere sulla diversità e sui ruoli che essa ricopre. Diversità non è, infatti, sempre sinonimo di negatività, ma - al contrario - può rappresentare un punto di partenza per capire noi stessi e gli altri. Giovanni è diverso - è vero - ma è proprio questo che lo rende unico e speciale. La Sindrome di Down non è una debolezza per Giovanni, ma semmai un punto di forza. Paradossalmente è proprio Giovanni la forza di Giacomo che - finalmente - dopo dodici anni dalla nascita del fratello, arriverà a capire (e a trasmettere a noi) che la Sindrome di Down non va vista  soltanto come come un handicap. Dietro ogni disabilità si nasconde sempre un individuo con il suo carattere, la sua personalità, i suoi tratti distintivi. La Sindrome di Down è solo una delle caratteristiche che contraddistinguono Giovanni. Giovanni è divertente, gioioso e ricco di una "frizzante" e "contagiosa" vitalità.
In questo libro, Giacomo  ci mostra il lento percorso che lo ha portato ad amare il fratello; un percorso attraverso varie fasi: aspettativa ed entusiasmo, perplessità, antipatia e negazione/rifiuto/vergogna, scoperta/sorpresa, comprensione/accettazione, affetto e desiderio di proteggere e preservare. 
"Mio fratello rincorre i dinosauri" è la "storia di Giovanni. Giovanni che ha tredici anni e un sorriso più largo dei suoi occhiali. Che ruba il cappello a un barbone e scappa via; che ama i dinosauri e il rosso; che va al cinema con una compagna, torna a casa e annuncia: 'Mi sono sposato'. Giovanni che balla in mezzo alla piazza, da solo, al ritmo della musica di un artista di strada, e uno dopo l'altro i passanti si sciolgono e cominciano a imitarlo: Giovanni è uno che fa ballare le piazze. Giovanni che il tempo sono sempre venti minuti, mai più di venti minuti: se uno va in vacanza per un mese, è stato via venti minuti. Giovanni che sa essere estenuante, logorante, che ogni giorno va in giardino e porta un fiore alle sorelle. E se è inverno e non lo trova, porta loro delle foglie secche. Giovanni è mio fratello. E questa è anche la mia storia. Io che di anni ne ho diciannove, mi chiamo Giacomo".

Un libro divertente, delicato e istruttivo. 
Un libro commovente che racconta la quotidianità di una famiglia sospesa tra ordinario e straordinario.