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venerdì 1 febbraio 2019

"L'amante di Wittgenstein": un commento libero.


“Il mondo è tutto ciò che accade”.
L’amante di Wittgenstein si fonda interamente sul Solipsismo, ovvero sul principio secondo il quale ogni individuo può essere certo soltanto della propria esistenza perché tutto il resto – esterno a lui e da lui indipendente – acquista consistenza nel momento in cui è l’individuo stesso a dargliene una. Allo stesso tempo, però, ognuno è in grado di dare consistenza a qualcosa soltanto dopo averla percepita/creata nella propria mente. Pertanto risulta sempre molto difficile distinguere cosa è reale da cosa non lo è, o meglio – cosa appartiene al Mondo Esterno e cosa, invece, fa parte di quel Mondo, interno ad ogni individuo, chiamato “Mente”.
“Forse non c’era nessun gatto al Colosseo, dopotutto. Se uno desidera fortemente vedere un gatto, probabilmente alla fine lo vede. E magari un gatto c’era”.
“Ed  ovviamente anche nella mia testa. Ma, del resto, cosa c’è che non sia anche nella mia testa? È come un maledetto museo, a volte. Come se fossi stata designata curatrice di tutto il mondo. Che è quello che ero e che, per così dire, indiscutibilmente sono”.
La protagonista di questo romanzo, una donna di nome Kate, induce il lettore – proprio attraverso questo contorto meccanismo – a pensare che lei sia l’ultimo essere vivente (esclusi i vegetali) rimasto sulla faccia della Terra. È una metafora, naturalmente. Un modo per raccontare sentimenti quali l’angoscia, la solitudine, il dolore per la perdita, inducendoli nel lettore; tanto che, ad un certo punto, quest’ultimo cade nella pazzia della protagonista.
“E ovviamente per un certo periodo non sono stata in me, all’epoca. Non saprei dire per quanto, ma per un certo periodo. Non essere in sé. Un’espressione che, ora che mi trovo a usarla, sospetto di non aver mai compreso fino in fondo. Non essere in sé nel senso di pazzo, o non essere in sé nel senso di estraniato? In ogni caso non c’è dubbio che fossi pazza”.
“Era davvero un’altra persona che ero così ansiosa di trovare, quando cercavo tanto, o quello che non riuscivo a sopportare era solo la mia stessa solitudine? Quanto vagare, attraverso questo infinito nulla”.
“Essendo l’angoscia uno stato emotivo fondamentale dell’esistenza, come ha detto una volta qualcuno, o come avrebbe dovuto dire. Anche se, per la verità, credevo di essermi disfatta di gran parte di tali sentimenti, ai tempi in cui mi sono disfatta di quell’altro tipo di bagaglio. L’inverno quando arriva, arriva. Sebbene a quanto pare non ci si possa sbarazzare del bagaglio che si ha in testa, d’altra parte”.
Quella di Kate è una narrazione frammentaria e prende la forma di una spirale: gli argomenti, le frasi e le parole si rincorrono, si ripetono ossessivamente, si distorcono; le affermazioni fatte vengono immancabilmente smentite poco dopo o a distanza di molte pagine, cosicché non si riesce mai a capire quale sia la realtà composta da fatti accaduti nel mondo esterno e quale sia quella scaturita dalle elucubrazioni mentali di Kate. Le sue congetture, i suoi collegamenti, i suoi pensieri, i suoi ricordi e le sue ipotesi si susseguono incessantemente fino a togliere il fiato al lettore.
È una spirale che va dall’esterno verso l’interno, a proposito; si parte, cioè, da ampi giri di pensieri che man mano si stringono, avvicinandosi al cuore della questione: Kate ha cominciato a provare la solitudine che ora – al momento della stesura del suo “diario”- la opprime circa dieci anni prima, quando ha perso suo figlio, morto presumibilmente di meningite. A questo vanno aggiunti gli effetti delle sue deludenti e traumatiche storie d’amore e il profondo senso di colpa nei confronti del figlio; senso di colpa per il quale la protagonista si riferisce spesso a Elena di Troia fino – addirittura – a sentirsi Elena.
“A dire la verità, a un certo punto ho persino creduto di essere Elena”.
In realtà, il termine “diario” non è neppure il più adatto a definire il genere di appartenenza di questo romanzo che si fregia di tanti stili letterari, ma non si vincola completamente a nessuno di essi. È un po’ “diario” – sì – ma anche un po’ “messaggio in bottiglia” e ha qualcosa che ricorda una lettera di scuse o di giustificazioni, per l’esattezza.
“Mio Dio, le cose che facevano gli uomini. […] Mio Dio, le cose che facevano anche le donne, si sarebbe tentati di aggiungere. Che cosa ciascuno di noi può dire davvero di sapere, del resto?”
“Ho sempre nutrito sinceri dubbi che Elena sia stata la causa della guerra, ad ogni modo. Una singola donna di Sparta, del resto”.
Può essere anche un appello, una richiesta di aiuto (forse), o anche e soprattutto un grido – L’ULTIMO – per segnalare al mondo (interno ed esterno) la propria esistenza. Ognuno di noi ha bisogno di una valvola di sfogo, di qualcosa che faccia “sfiatare” la coscienza nei momenti di intenso dolore, perché non esploda; e forse è proprio la follia (reale o presenta che sia) ad aver permesso a Kate di andare avanti, nonostante il dolore. La follia usata come “velo di protezione”… perché in fondo “[…] non c’è miglior modo di essere sani e liberi dall’angoscia che essere pazzi”.
“È noto che le perplessità ininfluenti, di tanto in tanto, diventano lo stato emotivo fondamentale dell’esistenza”.
Nel suo saggio intitolato La pienezza vuota, David Foster Wallace ha coniato una definizione che calza a pennello, definendo LdW un romanzo di “fantascienza filosofica”. Difficile non concordare con tale definizione essendo, il libro di Markson, una sorta di saggio filosofico codificato, camuffato da flusso di coscienza, disordinato soltanto all’apparenza. Un flusso di coscienza in cui la filosofia dei più grandi pensatori, i miti greci e il mondo dei fatti si mescolano con i ricordi personali di Kate fino a schiacciare il tempo, a ripiegarlo su se stesso in modo da accostare e intrecciare eventi e personaggi  dei secoli passati alla vita della protagonista.
E la memoria muta funzione, nel corso della narrazione: da valvola di sfogo diventa motivo di frustrazione, per la stessa Kate.
“Mi riferisco a pensare cose che risalgono a prima che mi trovassi sola, ovviamente. Per quanto sia difficile esercitare sulla propria mente un grado di controllo tale da impedire che determinate cose accadute dieci anni prima vi penetrino”.
In fondo è vero: la memoria è in grado di incidere su di noi e di condizionarci anche se sono passati molti anni dal fatto in questione; il ricordo può continuare a tormentarci come se si trattasse di un evento attuale. E la cosa più bizzarra è che, spesso, nella vita si dà peso a certe cose (magari insignificanti) e se ne dimenticano altre. O si crede di averle dimenticate. O non ci si ricorda di non averle mai sapute...
A voler usare le parole di David Foster Wallace, Kate “trasforma la metafisica in angoscia” grazie anche alla tecnica, dal “sapore” sperimentale, adottata da Markson, il quale – proprio attraverso il personaggio di Kate – “si fa beffe dei normali vincoli del senso e grazie a questo sprezzo per i limiti del «senso» riesce in qualche modo a «mostrare» ciò che di norma non si può «esprimere».
“Kate fa propria la storia esterna. Ossia la riscrive come storia personale”.
Molto oculata è stata la scelta dell’autore di rendere il vuoto interiore del suo personaggio attraverso il vuoto del mondo esterno. Cosa ci resta, infatti, quando perdiamo quei sentimenti essenziali che sono l’affetto, l’amore e la fiducia? Il mondo materiale, perde tutto il suo valore; e appigliarsi ai ricordi diventa impossibile: prima o poi sfuggiranno anch’essi al nostro controllo e ci ritroveremo ancor più in preda allo sconforto.
Forse abbiamo bisogno degli Altri per sentirci Qualcuno; abbiamo bisogno che gli Altri ci considerino Qualcuno perché iniziamo a percepire la nostra coscienza, ma se gli Altri – di colpo – sparissero, saremmo ancora Qualcuno?
“Case che restano case pur non essendo più case”.
“Una volta sognavo la gloria. In genere, anche allora, ero sola”.
In fondo, allo stesso modo in cui noi ci figuriamo il mondo e lo rappresentiamo nella nostra mente, anche gli Altri si figurano le cose e le persone che hanno attorno. C’è sempre una “relazione fra specchio e oggetto rispecchiato”. Ma quanto, le cose reali, differiscono dalle loro rappresentazioni?
Sento di poter azzardare un’ipotesi sulla quale mi piace pensare che si basi il libro di Markson: i fatti creati/accaduti/percepiti dalla nostra mente sono reali tanto quanto quelli esterni alla mente stessa. A tal proposito è utile citare un’altra delle affermazioni di D. F. Wallace: “Se il Mondo è in tutto e per tutto una funzione dei fatti che non solo risiedono ma hanno origine nella testa dell’individuo, tale individuo è tanto Responsabile di quel mondo quanto lo è una madre di suo figlio, o di se stessa”. Risulta di nuovo evidente quanto tutto LdW sia un ben riuscito esercizio di Solipsismo. Forse non troppo lontana dall’essere consapevole di trovarsi in balìa di questo complesso concetto filosofico, Kate si dedica, in alcuni stralci del suo “diario”, a declamare il ben noto paradosso di Zenone, quello che vede protagonisti Achille e una tartaruga. E nonostante la presenza massiccia di concetti filosofici tanto astrusi quali sono, appunto, il Solipsismo e i paradossi, il lettore non può non rimanere stregato e ipnotizzato dai continui balzelli tra “dentro” e “fuori”, tra “pieno” e “vuoto”, tra “follia” e “sanità mentale”.
A voler esagerare, si può considerare questo libro come una possibile evoluzione de La strada di Cormac McCarthy o come un Robinson Crusoe al femminile. E, a proposito di femminile, è doveroso pensare che non debba essere stato facile, per un autore di sesso maschile, calarsi – metaforicamente, è ovvio -  nei panni di una donna e descriverne i pensieri, oltretutto facendo ricorso alla filosofia. Forse non tutti/e apprezzeranno i continui rimandi alle mestruazioni di Kate, tuttavia ritengo – personalmente – che sia un buon espediente per sottolineare alcuni aspetti della protagonista: uno fra tutti, l’indifferenza pervasiva sviluppata nei confronti della propria personalità. Kate non si cura più del proprio ciclo; è donna, biologicamente parlando, ma è come se questa caratteristica avesse perso, per lei, ogni importanza. Preda dello sconforto oltre che della tristezza, della depressione oltre che dell’angoscia, Kate si sta abbandonando alla “stanchezza” che la sofferenza le provoca. Anche il fatto di andare in giro nuda può essere considerato una metafora. È una nudità che diventa quasi un manifesto, come a dire: a cosa serve restare attaccati alle cose materiali quando dentro hai il vuoto? Essere fuori di sé... dopotutto può davvero voler dire “estraniato” oltre che “pazzo”.


Un libro "disturbante", certamente non adatto a tutti i “palati”. L’amante di Wittgenstein ha uno stile unico che, se lo si apprezza, non lascia indifferenti.

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