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giovedì 14 febbraio 2019

IL PROBLEMA DELLA MORTE: testi a confronto.


TESTI DI RIFERIMENTO:
-      “Essere una macchina”, Mark O’Connell. Adelphi.
-      “Zero K”, Don DeLillo. Einaudi.
-      “Metafisica dei tubi”, Amélie Nothomb. Voland.
-      “Le intermittenze della morte”, José Saramago. Feltrinelli.
-      “Frankenstein”, Mary Shelley. Feltrinelli.
-      “Homo Deus” Yuval Noah Harari. Bompiani.
ALTRI TESTI CITATI:
-      “Riparare i viventi”, Maylis De Kerangal. Feltrinelli.
-      “Un calcio in bocca fa miracoli”, Marco Presta. Einaudi.
-      “I tabù del mondo”, Massimo Recalcati. Einaudi.
-      “22.11.63” Stephen King. Pickwick.
FILM CITATO:
-      “Lucy”, film del 2014, diretto, scritto e co-prodotto da Luc Berson e interpretato da Scarlett Johansson, Morgan Freeman, Min-sik e Amr Waked.
MIEI VECCHI ARTICOLI CITATI:
-      “Riflessioni sulla Macchina del Tempo”.
-      “Riparare i viventi”.


“Non nasciamo per nostra scelta. Ma dobbiamo morire allo stesso modo?” (“Zero K”, Don DeLillo. Einaudi. P. 224)
“Ti ho chiesto forse io, Creatore, di farmi uomo dall’argilla? Ti ho forse chiesto io di trarmi fuori dall’oscurità?”
(J. Milton, “Paradise Lost”, X, 743-745)
“La vita è un lancio di monetina”. (“22.11.63”, Stephen King. Pickwick. P. 13)

“Al giorno d’oggi le persone vedono la morte come un problema tecnico che possiamo e dovremmo risolvere. […] L’impresa più importante che attende la scienza moderna è la sconfitta della morte e la promessa di essere eternamente giovani. […] Google ha lanciato una controllata chiamata Calico la cui missione era, secondo il suo statuto, «risolvere il problema della morte»”.[1]
A quanto pare ci troviamo in un periodo di “evoluzione autodiretta che porterà all’avvento di «specie postumane» dotate di superpoteri come i personaggi dei fumetti. Un giorno, anzi, saremo simili a dei”.[2] È ufficiale, dunque: l’uomo si sta muovendo concretamente verso l’immortalità del corpo e dell’anima. Una quantità sempre maggiore di persone sta abbracciando quel che prende il nome di “Transumanesimo”, ovvero un “movimento fondato sulla certezza” (o sulla speranza? N.d.r.) “che l’evoluzione futura della specie debba essere guidata dalla tecnologia”. [3]
Chiunque venga al mondo è dotato di una “data di scadenza” [4]ed è proprio questo limite che sembra non andare a genio ai transumanisti. Siamo creature fragili, vulnerabili, ma si sta sviluppando “l’idea che questa condizione possa non essere un destino ineluttabile; che, come accaduto per la miopia e il vaiolo, vi si possa porre rimedio con l’intervento dell’ingegno umano”.[5] Di fondo c’è “l’incapacità di accettarci per quello che siamo, o, se si preferisce, l‘attitudine a credere che la nostra natura sia redimibile”.[6] Questo, naturalmente, diventa valido soltanto se si arriva a giudicare “l’esistenza quale ci è stata data” come un qualcosa che ha “l’aspetto di un sistema perfettibile”[7], perfezionabile, se preferite.
E come si conquista l’immortalità, secondo gli appartenenti al Transumanesimo?
Estraendo “l’essenza dell’individuo dalla corruttibile forma corporea”[8] e trasferendola su supporti digitali. Semplice? Tutt’altro, perché per fare tutto questo bisognerebbe – in primo luogo – capire quale sia il principio vitale e – in secondo luogo – comprendere come tale principio funzioni.  Su questo punto il mondo dei transumanisti si spacca in due: da un lato, infatti, troviamo coloro che vedono l’uomo come un mero insieme di dati, impulsi elettrici e  informazioni computabili, mentre dall’altro ci sono coloro che ipotizzano l’esistenza di una coscienza, indipendente dal cervello.
“La questione filosofica è: in quella forma, continuerei a essere me stesso? […] In che senso quella riproduzione o simulazione coinciderebbe con «me»? […] Potrei veramente dire che quella cosa è ME e io sono quella cosa? Sarebbe sufficiente che la coscienza caricata su supporto credesse di essere me? (Ma anche, è sufficiente che io creda di essere me stesso, ora? E, anzi, ha davvero senso domandarselo?). Non so, ho la netta sensazione – dev’essere un’istintiva esplosione di segnali subcorticali – che non ci sia distinzione tra «me» e il mio corpo, e che non sia possibile per me esistere indipendentemente dal sostrato a partire dal quale agisco, perché l’io è il sostrato e il sostrato è l’io”.[9]
“Mi sento una versione artificiale di me stessa. Sono una persona che dovrebbe essere me”.[10] Inquietante, tuttavia particolarmente esplicativa, questa affermazione delinea i tratti di una mente oltre che di un cervello, una coscienza che – passatemi il gioco di parole - ha coscienza di sé.
Che cosa definisce chi siamo? La personalità, potreste rispondermi. Sì, ma - la personalità - da cosa è composta? “A dirci chi siamo sono le cose che dimentichiamo”.[11] Forse. O forse sono le cose che ricordiamo, la nostra memoria, unita alle cose che immaginiamo, legate – a loro volta - a quelle a cui pensiamo, senza tralasciare quelle su cui riflettiamo e quelle su cui ragioniamo. Ci sono cose a cui cerchiamo di non prestare attenzione, cose che cerchiamo di rimuovere dalla nostra mente e… beh, è possibile che siamo anche quelle. Molte sono le cose che contribuiscono alla creazione di un “IO”, ma sarebbe un’impresa impossibile elencarle tutte perché ogni personalità è in continua evoluzione, in perpetuo mutamento. Quello dell’individuo è un’instancabile passaggio da uno stato all’altro, senza soluzione di continuità. Probabilmente tale principio è applicabile anche a quelle due condizioni che siamo soliti chiamare “vita” e “morte”.
Impossibile - dunque - parlare di morte prescindendo dalla vita e, allo stesso tempo, “Al fine di studiare le cause della vita, prima è necessario far ricorso alla morte”.[12] La fine è nell’inizio e l’inizio è nella fine. Cioè: la nostra morte è scritta al momento della nostra nascita e ogni  vita scaturisce da una condizione precedente, da uno stato che chiamerei “non-vita”.  
Ma che cos’è la morte? E quando possiamo dire che una creatura è morta?
“Morte! Come se io non avessi saputo cos’era! Come se i miei due anni e mezzo me ne allontanassero, mentre invece mi ci avvicinavano! Morte! Chi poteva sapere meglio di me? Mi ero appena allontanata dal significato di quella parola! Lo conoscevo addirittura meglio degli altri bambini, io che l’avevo protratto al di là dei limiti umani. Non avevo forse vissuto due anni di coma per quanto sia possibile vivere il coma? Che cosa avevano dunque pensato che facessi nella mia culla, per tutto quel tempo, se non morire la vita, morire il tempo, morire la paura, morire il niente, morire il torpore? La morte: avevo esaminato la cosa da vicino. La morte era il soffitto. Quando si conosce il soffitto meglio di sé stessi, questo si chiama morte. Il soffitto è ciò che impedisce agli occhi di salire e al pensiero di elevarsi. Chi dice soffitto dice tomba: il soffitto è il coperchio del cervello. Quando arriva la morte, un coperchio gigante si posa sulla vostra pentola cranica”.[13]
Il breve estratto che avete appena letto rappresenta uno dei tanti tipi di morte con cui potreste avere a che fare nel corso della vostra vita: l’impedimento.
“Chiesi […] perché ù fosse appeso a una croce.
-È per ucciderlo – rispose.
-Essere su una croce uccide gli uomini?
-Sì, è perché è inchiodato al legno. I chiodi lo uccidono”.[14]
Tutte le volte che vi viene impedito o vi impedite di fare qualcosa di costruttivo, tutte le volte che siete costretti a mettere un velo al vostro sguardo, a fermare il vostro pensiero,  a bloccare il vostro slancio, la vostra ricerca o i vostri sentimenti correte il rischio di cadere in uno stato di morte intellettiva. Ne deriva una grande quantità di frustrazione e, successivamente, di rassegnazione. Sempre che ci si lascia soggiogare dall’accidia…
“Chi ha conosciuto, in un modo o nell’altro, la morte troppo da vicino e ne è tornato indietro, si porta dentro la sua propria Euridice: sa che in lui c’è qualcosa  che si ricorda troppo bene della morte, e che è meglio non guardarla in faccia. Il fatto è che la morte, come una tana, come una stanza con le tende chiuse, come la solitudine, è insieme orribile e allettante: si ha la sensazione di poterci stare bene. Basterebbe lasciarsi andare per raggiungere questa ibernazione interiore. Euridice è così seducente che quasi ci si dimentica perché si debba resisterle. Si deve farlo per l’unica ragione che, normalmente, il viaggio è di sola andata. Altrimenti non ce ne sarebbe bisogno”.[15]
Difficile non associare questa citazione con la seguente,  tratta da “I tabù del mondo” di Massimo Recalcati: “La vita è innanzitutto resistenza alla morte”.[16] E, visto che sono stati chiamati in causa i vari tipi di morte, non posso non aggiungere la dissertazione filosofica, su tale suddivisione,  presente ne  “Le intermittenze della morte” di José Saramago:
“Ti sei mai chiesto se la morte sarà la stessa per tutti gli esseri viventi, siano essi animali […] o vegetali […], sarà la stessa morte che ammazza un uomo che sa che morirà e un cavallo che non lo saprà mai. […] In che momento muore il baco da seta dopo essersi chiuso nel suo bozzolo e avere sprangato la porta, com’è possibile che la vita di una sia nata dalla morte dell’altra, la vita della farfalla dalla morte della crisalide, e che siano la stessa cosa in maniera differente, oppure il baco da seta non è morto perché è vivo nella farfalla. L’apprendista filosofo rispose, il baco da seta non è morto, è la farfalla che morirà dopo aver deposto le uova, Questo lo sapevo già prima che tu nascessi, disse lo spirito che aleggia sopra le acque dell’acquario, il baco da seta non è morto, nel bozzolo non c’è rimasto nessun cadavere dopo che la farfalla è uscita, l’hai detto tu, una è nata dalla morte dell’altro, Si chiama metamorfosi, lo sanno tutti di che si tratta, disse condiscendente l’apprendista filosofo, Ecco una parola che suona bene, piena di promesse e certezze, dici metamorfosi e vai avanti, sembra che tu non veda che le parole sono etichette che si appiccicano alle cose, non sono le cose, tu non saprai mai come sono le cose, e neppure quali sono i loro nomi nella realtà, perché i nomi che tu hai dato loro non sono altro che questo, i nomi che tu gli hai dato. […] Prima, al tempo in cui si moriva, rare volte che mi son trovato davanti qualcuno che era deceduto, non ho mai pensato che la sua morte fosse la stessa di cui un giorno sarei morto io, Perché ciascuno di voi ha una propria morte, la porta con sé in un luogo segreto sin da quando nasce, lei appartiene a te, tu appartieni a lei, E gli animali, e i vegetali, Suppongo che andrà nello stesso modo anche per loro, Ciascuno con la propria morte, Infatti, Allora le morti sono molte, tante quante gli esseri viventi che sono esistiti, esistono ed esisteranno, In un certo modo, sì, Ti stai contraddicendo, esclamò l’apprendista filosofo, Le morti di ciascuno sono morti per così dire dalla vita limitata, subalterne, muoiono con colui che hanno ammazzato, ma al di sopra di esse ci sarà una morte più profonda, quella che si occupa dell’insieme degli esseri umani sin dagli albori della specie, C’è dunque una gerarchia, Suppongo di sì, E per gli animali, […] Anche, E per i vegetali, […] A quanto credo di saperne, è lo stesso per tutti loro, Cioè, ciascuno con la morte propria, personale e intrasmissibile, Sì, E poi altre due morti generali, una per ogni regno della natura, Esatto, E finisce qui la distribuzione gerarchica delle competenze delegate da tanatos, domandò l’apprendista filosofo, Fin dove la mia immaginazione riesce ad arrivare, vedo ancora un’altra morte, l’ultima, la suprema, Quale, Quella che distruggerà l’universo, che realmente merita il nome di morte, anche se quando ciò succederà, non si troverà più nessuno per pronunciarlo”.[17]
Così come esistono due macro-tipi di vita e tanti micro-tipi quanti sono gli esseri viventi nell’universo, esistono – dunque – tanti tipi di morte. Già, due macro-tipi di vita: il primo, che deriva dal termine greco “bios”, che significa “vita” (quel tipo di vita che ha un inizio e una fine) e il secondo (“zoé”), anch’esso di origine greca, che indica “l’essenza della vita”. Anche la morte ha, però, due macro-categorie, secondo Saramago: una è rappresentata dalla morte e l’altra dalla Morte, con la “M” maiuscola. La prima è specifica, mentre la seconda è universale. Il relativo e l’assoluto.
“Qualcosa continua a dirmi che il significato della vita – ammesso che ne abbia uno – è nel suo carattere animale, nella sua inseparabilità da fenomeni come nascita, riproduzione, morte”[18].
Che dire, invece, della “metamorfosi” menzionata nell’estratto? Qui viene il bello… vediamo perché. In un mio vecchio (ma non troppo) articolo, intitolato “Riflessioni sulla morte”, ipotizzai l’esistenza di tanti tipi di morte, uno fra tutti era quello che la vedeva come naturale passaggio di stato. “La morte non è solo lo smettere di battere da parte del cuore; non avviene soltanto perché sangue e, di conseguenza, ossigeno non arrivano più al cervello; non è solo lo spegnersi dei sensi. La morte è anche il periodico ricambio cellulare […]; morte vuol dire anche cambiamento: moriamo ogni volta che subiamo una sconfitta, otteniamo una vittoria o affrontiamo una perdita (che può essere anche di una parte di noi); morte significa anche cessazione della ricerca, del desiderio di scoperta, ovvero l’abbandono della volontà”. “Metamorfosi” è una parola (anch’essa derivante dal greco) che vuol dire giustappunto “cambiamento”, “trasformazione” e ben si adatta alla mia ipotesi. Parole. Parole che racchiudono concetti. Significati e significanti…
“Dunque parlare serviva a dare la vita? Non ne ero certa”.[19]
“Parlare poteva dunque servire anche per assassinare. L’analisi dell’edificante linguaggio altrui mi portò a questa conclusione: parlare era un atto di creazione ma anche di distruzione. Era meglio starci molto attenti, con questa invenzione”.[20]
“Sapevo cos’era la morte. Ma questo non mi bastava per capirla”.[21]
Saper identificare e indicare le cose col loro nome non significa, infatti, saperle controllare; è ciò che accade con la morte: le abbiamo dato un nome, sappiamo come chiamarla, ma non per questo possiamo controllarla!
Per tante persone la morte rappresenta una chiara violazione del “diritto alla vita”[22] sancito dalla “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, adottata dalle Nazioni Unite dopo la Seconda Guerra Mondiale. E – come se fosse, appunto, un crimine contro l’umanità – le hanno dichiarato guerra.
“È la vita che dovrebbe essere considerata un cattivo funzionamento”. [23]
A giudicare dalle suddette parole, tratte dal libro della Nothomb, (“Metafisica dei tubi”) però, forse c’è anche una fetta di mondo che vede la questione in maniera diametralmente opposta.
“L’altro concetto che non mi era chiaro era cosa costituisse la fine. Quand’è che una persona diventa un corpo? Ci sono vari livelli di resa, ho pensato. Il corpo interrompe una funzione e poi forse un’altra, o magari no – il cuore, il sistema nervoso, il cervello, dalle diverse parti del cervello fino al meccanismo di ogni singola cellula. Ho pensato che esiste più di una definizione ufficiale, nessuna caratterizzata da un consenso unanime. Venivano create di volta in volta a seconda delle situazioni. Da medici, avvocati, teologi, filosofi, professori di etica, giudici e giurati”.[24]
Ed ecco l’altro tasto dolente: QUANDO è possibile stabilire che una creatura è DAVVERO MORTA? È l’interrogativo su cui si regge anche tutto il libro di Maylis De Kerangal, “Riparare i viventi”, a cui ho dedicato un intero post: Qui, un breve estratto.
“[…] è davvero corretto pensare che, se il cuore batte, si è in presenza di un organismo vivente? […] «Non penso, dunque non sono», scrive l’autrice […] Quale ruolo giocano cuore e cervello nel mantenimento di ciò che chiamiamo “vita”? […] Ma l’autrice fa di più: svela ai suoi lettori l’inganno ordito dalla morte, inganno per il quale Simon (il donatore, n.d.r.) sembra vivo – pur essendo morto – mentre Claire (la ricevente) sembra morta, pur essendo viva Il confine tra la vita e la morte, in questo libro, è appeso al filo del trapianto e il lettore avverte in maniera tangibile la tensione creata dalla necessità dei protagonisti di preservare e consolidare questo filo tramite un continuum  tra donatore e ricevente”.
Tale continuum è rappresentato, sia nel saggio di O’Connell (“Essere una macchina”) sia nel romanzo di DeLillo (“Zero K”), dalla cosiddetta “sospensione criogenica”, una sorta di stato di morte non-morte o di vita non-vita, se vogliamo, in cui le persone – semplicemente – attendono di essere “risvegliate”, riportate allo stato vitale effettivo. Una forma di “resurrezione” o di “riattivazione”, per chi non se la sentisse di applicare una parola tanto legata alla religione quanto lo è “resurrezione”.
“Quelli che alla fine usciranno dalle capsule saranno esseri umani astorici. Saranno liberi dagli encefalogrammi del passato, dai minuti e dalle ore rarefatte. E parleranno una nuova lingua”.[25]
Ma, di religione, è doveroso parlare comunque, in questo caso. O di fede.
“Un giorno sarà possibile neutralizzare le circostanze che conducono alla fine. La mente e il corpo verranno risanati, riportati in vita”. È possibile che si venga a creare una “Tecnologia basata sulla fede. Ecco cos’è. Un altro dio. Non tanto diverso, alla fine, da alcune nostre divinità del passato. Solo che è un dio reale, questo è vero, mantiene le promesse. La vita dopo la morte”.[26] Solo fiction? Potrebbe esserlo, ma resta il fatto che le circostanze sono tali da portare a considerare anche questa eventualità, cioè che venga fondata una nuova religione: una religione che venera la scienza e, per estensione, il suo fautore, ovvero l’uomo. Niente più “Polvere sei e polvere ritornerai”, in poche parole. Ma cosa implicherebbe il fatto di “tornare a vivere”? Saremo ancora “noi”, una volta “riattivati”? Avremo ancora i nostri nomi e i nostri ruoli sociali o sarà tutto diverso? Le percezioni saranno le stesse che avevamo prima di essere messi “in sospensione”?
“Nel corso degli anni ci saranno dei progressi. Parti del corpo verranno sostituite  o ricostruite. […] Un riassemblaggio, atomo per atomo. Sono straconvinta che mi risveglierò con una nuova percezione del mondo”.[27]
“Ci pensi mai al futuro? A come sarà tornare? Il corpo sarà lo stesso, oppure potenziato; ma la mente? La coscienza rimarrà inalterata? Sarai la stessa persona? Tu muori in quanto quella determinata persona con quel dato nome e con la storia e i ricordi e i misteri raccolti in quella persona e quel nome. Ma ti risveglierai con tutte queste cose intatte? Sarà semplicemente come il mattino dopo una bella dormita?”[28]
“Cosa accade all’idea del continuum – passato, presente e futuro - in una cella criogenica? Si è in grado di concepire i giorni, gli anni, i minuti? O questa facoltà si affievolisce fino a venir meno? Quanto si è umani senza la nozione del tempo? Più umani che mai? O si ritorna a uno stato fetale, lo stato di un essere non nato?”[29]
Il tempo… anche quello rimarrà in sospensione…
“Il tempo è multiplo, il tempo è simultaneo. Questo momento succede, è successo, succederà”.[30]
“Il  tempo è un’invenzione del movimento. Chi non si muove non si accorge del tempo che passa”.[31]
“Filmi un’auto che sfreccia su una strada, velocizzi l’immagine all’infinito e… l’auto scompare. Quindi, che prova abbiamo della sua esistenza? Il tempo dà legittimità alla sua esistenza: il tempo è la sola vera unità di misura; è la prova dell’esistenza della materia. Senza tempo noi non esistiamo”.[32]
Ho sempre pensato che fossimo stati noi umani a dare vita al concetto di tempo (vedi articolo “Riflessioni sulla Macchina del Tempo”), mentre in questo frangente si propone l’idea che sia il tempo a fornire la prova della nostra esistenza e… devo ammettere che provo un senso di vertigine al ribaltamento  di pensiero, ma tant’è. Ancora una volta è bellissimo mettersi in gioco per arrivare a formulare nuove teorie!
Ora: passi l’idea che il fatto di avere più tempo da dedicare alla vita può rappresentare una positiva opportunità, ma da lì a voler vivere eternamente c’è un abisso; e non credo che tutti sarebbero disposti ad adattarsi a un’esistenza senza fine. Mi domando se, alla lunga, rischieremmo di perdere di vista il significato della vita (che – FORSE - risiede proprio nella sua durata limitata); va detto, infatti, che una buona parte delle cose che facciamo “trova il suo propellente nella paura di morire”.[33] A causa o – al contrario – grazie alla nostra mortalità ci comportiamo nel modo in cui ci comportiamo, pertanto eliminando quella che rappresenta la nostra spinta in avanti, la nostra propulsione, non è logico pensare che modificheremmo in maniera sostanziale anche la nostra essenza di umani?
“-È nella natura umana voler sapere di più, sempre di più, sempre di più – ho detto. –Ma è anche vero che quello che non sappiamo ci rende umani. E quello che non sappiamo non ha fine. […] –Mentre  il tempo in cui non siamo vivi è infinito. […] –Se qualcosa o qualcuno non ha inizio, allora posso credere che quest’uomo, questa donna, questa cosa non abbia nemmeno una fine. Ma se sei uscito da un utero o da un uovo o sei germogliato dalla terra, significa che fin dall’inizio hai i giorni contati”.[34] Quel che dicevamo qualche riga fa: la fine è nell’inizio e l’inizio è nella fine.
“Tutte le storie hanno inizio dalla nostra fine: le inventiamo perché siamo mortali”[35], sostiene O’Connell il quale prosegue asserendo che “Siamo una specie nevrotica proprio a causa della nostra mortalità, perché la morte ci sta sempre col fiato sul collo”.[36]
“-Io voglio morire e farla finita una volta per tutte - Lei no? – mi ha chiesto.
-Non lo so.
-Che senso ha vivere se alla fine non si muore?”[37]
È appurato, la morte può fare paura, può incutere un timore senza pari, ma saremmo davvero più felici se la eliminassimo dall’equazione dell’esistenza?
Nel suo “Le intermittenze della morte”, Saramago ha ipotizzato cosa accadrebbe se, di colpo, la morte cessasse di mietere vittime. Ne è nato un libro denso di eventualità più che verosimili, oserei dire tristemente realistiche.
“[…] nessuno muore più. La gioia è grande, la massima angoscia dell’umanità sembra sgominata per sempre. Ma non è tutto così semplice: chi sulla morte faceva affari per esempio perde la sua fonte di reddito. E cosa ne sarà della Chiesa, ora che non c’è più uno spauracchio e non serve più nessuna resurrezione? I problemi, come si vede, sono molti e complessi”.[38]
Non morire è un fatto “contrario alle norme della vita”[39] e potrebbe causare  “enorme turbamento” [40]in molti ambiti, dunque. Partiamo dalla Chiesa:
“[…] senza morte non c’è resurrezione, e senza resurrezione non c’è chiesa”.[41]
“[…] come le è venuto in mente che dio potrebbe volere la propria fine, affermarlo è un’idea assolutamente sacrilega, forse la peggiore delle bestemmie”.[42]
“[…] il vantaggio della chiesa è che, anche se a volte non sembra, nel gestire ciò che sta in alto, governa ciò che sta in basso. […] Che farà la chiesa se non morirà mai più nessuno […] che farà lo stato se non morirà mai più nessuno, Lo stato tenterà di sopravvivere, anche se dubito molti che ci riuscirà, ma la chiesa, La chiesa, signor primo ministro, si è talmente abituata alle risposte eterne che non riesco a immaginarmela darne delle altre”.[43]
“[…] l’altra nostra specialità […] è stata di neutralizzare, con la fede, lo spirito curioso”.[44] In realtà ritengo che qui la questione riguardi più che altro il fatto che l’uomo inizierebbe a riporre la propria fede in un dio che non ha nulla a che fare con l’Istituzione clericale… Verrebbero deposte le tutte le autorità religiose, fino a quel momento dette tali, e ne verrebbero probabilmente istituite altre. Il Dio della resurrezione verrebbe bellamente soppiantato dal dio dell’immortalità: in questo caso l’uomo arriverebbe a celebrare sé stesso in quanto “creatore” della vita eterna. Qualcuno, a questo punto, potrebbe sollevarsi asserendo che, se un Dio può essere soppiantato, allora non esiste. In fondo, nessuno l’ha mai visto; non direttamente, almeno. Ma la stessa cosa vale per la morte: chi l’ha mai vista in faccia, sempre che abbia una faccia? Si ipotizza l’esistenza di Dio perché esiste l’uomo e – allo stesso modo – si ipotizza l’esistenza della morte perché quando c’è lei non ci siamo più noi, o meglio, i nostri cari… Anche perché, se – effettivamente – non ci fossimo più noi , non potremmo avere coscienza i non essere più al mondo. Se non hai coscienza di essere vivo, forse non sei più vivo (o sei in una condizione - come il coma o l’anestesia totale - che non ti permette di avere coscienza di te stesso), ma come fai a sapere di non essere vivo se non ne hai coscienza. Non si può avere coscienza della morte, quando si è morti… È un discorso molto intricato, lo so, ma vi invito a riflettervi su ugualmente. Soprattutto sulla questione riguardante il coma e l’anestesia generale, perché fa riferimento alla domanda sollevata alcune pagine fa: quando possiamo dire che una persona è davvero morta?
Tornando al confronto che ha come protagonisti Dio e la morte, Saramago fa delle interessanti considerazioni dalle quali si evince che le due “entità” sopra citate sono molto simili tra di loro. Vediamo come:
“In pubblico, sì, la morte si rende invisibile, ma non in privato, come hanno potuto comprovare, nel momento critico, lo scrittore marcel proust (le minuscole e la punteggiatura sono usate volutamente in modo errato, nel testo, per esigenze del testo stesso; n.d.r.) e i moribondi dalla vista penetrante. Già il caso di dio è diverso. Per quanto  si sforzasse non riuscirebbe mai a rendersi visibile agli occhi umani, e non perché non ne sarebbe capace visto che per lui nulla è impossibile, ma semplicemente perché non saprebbe che faccia assumere per presentarsi agli esseri che si suppone abbia creato, e la cosa più probabile è che non li riconoscerebbe, oppure, forse ancora peggio, che loro non riconoscerebbero lui. C’è anche chi dice che, per noi, è una grande fortuna che dio non voglia apparirci, perché il terrore che abbiamo della morte sarebbe come un giochetto da ragazzi a paragone dello spavento che ci prenderemmo se capitasse una cosa del genere. Insomma, di dio e della morte non si sono raccontate altro che storie, e questa è soltanto una in più”.[45]
È chiaro, leggendo queste parole che “La morte assomiglia molto a dio”[46] pur essendo diametralmente opposta. Anche per quanto concerne il sesso. Dio è, infatti, rappresentato come un maschio (nella tradizione occidentale), pur avendo in sé sia la natura maschile sia quella femminile (anche se dubito che il principio vitale abbia un sesso); la Morte, invece, è spesso rappresentata come una femmina (anche se in alcuni casi si parla di “Tristo Mietitore”). Naturalmente questo tipo di rappresentazione non costituisce la regola, mi riferisco anche alla filmografia: un esempio fra tutti è quello di “Vi presento Joe Black”, in cui la persona incaricata di ricoprire il ruolo della morte è Brad Pitt, ovvero un maschio.
L’uomo sta provando a uccidere la morte e questo mi porta a domandarmi: la Morte può morire? Se potesse morire significherebbe che è dotata di un principio vitale, ma – dunque – la Morte è viva? Lo è mai stata? Oppure è immortale? E Dio, può morire? In fondo, “Dio è, ma non esiste”.[47] A quanto pare, queste domande non sono una mia prerogativa solamente mia: leggete la citazione seguente, tratta da “Metafisica dei tubi” e capirete che cosa intendo:
“Aver sfiorato la morte non intaccava la mia convinzione di essere una divinità. Perché gli dei dovrebbero essere immortali? In che modo l’immortalità renderebbe divini? La peonia è forse meno sublime perché appassirà?”[48]
Torniamo ai problemi di ordine pratico in cui si incorrerebbe se davvero sconfiggessimo quella che da molti è ritenuta una nemica senza pari, ma che, forse, a guardar bene, tanto nemica magari non è.
“Perché se gli esseri umani non morissero, allora tutto passerebbe a essere permesso, E questo sarebbe un male, domandò il filosofo vecchio, Tanto quanto il non permettere niente”.[49]
“-Una volta che avremo imparato a dominare il prolungamento della vita e ci saremo avvicinati alla possibilità di diventare eternamente rinnovabili, cosa sarà delle nostre energie, delle nostre aspirazioni?
-Delle nostre istituzioni sociali che abbiamo costruito.
-Stiamo progettando una cultura futura basata sul letargo e l’autocompiacimento?
-La morte non è forse una fortuna? Non definisce il valore della nostra esistenza, di minuto in minuto, di anno in anno?
-Tante altre domande.
-Non ci basta vivere un po’ più a lungo grazie ai progressi della tecnologia? Dobbiamo per forza andare avanti all’infinito?
-Perché sovvertire una scienza innovativa con abborracciati eccessi umani?
-L’immortalità letterale finisce per comprimere le mostre d’arte più durature e le meraviglie culturali riducendole a nulla?
-Di cosa scriveranno i poeti?
-Che cosa sarà della storia? Che sarà dei soldi? Che sarà di Dio?
[…]
-Non stiamo forse preparando la strada per raggiungere livelli incontrollabili di popolazione, e di stress ambientale?
-Troppi corpi che vivono in uno spazio insufficiente.
Non finiremmo per diventare un pianeta di persone vecchie e ingobbite, decine di miliardi di sorrisi sdentati?
-E quelli che muoiono. Gli altri. Ci saranno sempre gli altri. Perché alcuni continuerebbero a vivere e altri dovrebbero morire?
-Metà della popolazione mondiale impegnata a ristrutturare la cucina di casa, e l’altra metà che muore di fame.
-Siamo disposti a credere che tutte le malattie che affliggono la mente e il corpo saranno curabili nel contesto della nostra illimitata longevità?
[…]
-L’elemento fondamentale della vita è il fatto che essa ha una fine.
-La natura ci vuole sterminare per tornare alla sua forma intatta e incontaminata.  [Si può pensare ad un parallelismo di questa affermazione con il concetto di Morte con la “M” maiuscola ipotizzato da Saramago, n.d.r.].
-A cosa serviamo se viviamo per sempre?
-Quale ultima verità ci troveremo davanti?
-Non è in fondo lo stimolo del nostro essere mortali quello che ci rende preziosi per le persone che ci circondano?
[…]
-Cosa significa morire?
-Dove sono i morti?
-Quando smettiamo di essere quello che siamo? [Qui, invece, risulta ben evidente la questione – sollevata poco sopra – riguardante i canoni che renderebbero una persona un corpo morto, n.d.r.].
-Che cosa sarà della guerra?
-Questi sviluppi segneranno forse la fine delle guerre o determineranno un nuovo livello di conflitti generalizzati?
-Quando la morte individuale non sarà più un evento inevitabile [morte con la “m” minuscola, n.d.r.], che sarà dell’idea insidiosa di una distruzione nucleare?
-I limiti tradizionali cominceranno a scomparire?
-I missili scenderanno di propria volontà  dalle rampe di lancio?
-La tecnologia è animata da un desiderio di morte?
Tante altre domande.
-Ma noi le rigettiamo, queste domande. Perché non centrano il punto cruciale della nostra impresa. Noi vogliamo ampliare i confini di ciò che significa essere umani -– ampliarli per poi superarli.
[…]
-I dormienti nelle loro capsule, nei loro gusci. Quelli attuali e quelli che verranno.
-Sono realmente morti? Possiamo definirli morti?
-La morte è una creazione culturale, non una rigida determinazione di ciò che è umanamente inevitabile.
-E sono gli stessi che erano prima di entrare nella camera?”[50]
DeLillo ha sollevato interrogativi più che leciti nel suo “Zero K”, portando il lettore a domandarsi quali svantaggi comporterebbe la vita eterna. Forse, dopotutto, la morte non esiste per rovinarci la vita, ma per consentirci di fare un’esperienza che ha proprio nella sua durata limitata il significato fondamentale. Senza contare la crisi demografica che deriverebbe da una sovrappopolazione incontrollabile, la quale porterebbe inevitabilmente a una crisi sociale, che – a sua volta – scatenerebbe una crisi politica e – com’è logico – una devastante crisi economica. Prima o poi ci troveremmo costretti a esercitare un controllo delle nascite drastico e definitivo, dovremmo riqualificare tutti coloro che svolgono professioni quali, ad esempio, gli impresari di pompe funebri, gli assicuratori che si occupano di polizze sulla vita, gli impiegati dell’Ente pensionistico e così via. Anche le Istituzioni sulle quali si basano, da secoli, i nostri Stati, perderebbero il loro significato. Immaginate cosa accadrebbe al matrimonio… Inizialmente, poi, dovremmo occuparci anche del numero esorbitante di vecchi… Ho detto “inizialmente” perché la scienza e la tecnologia stanno muovendo i loro passi anche nel campo del ringiovanimento.
“Manipolare il processo di invecchiamento, invertire il processo biologico delle malattie degenerative”.[51]
Anche perché – in caso contrario – si rischierebbe di incorrere nell’eventualità prospettata da Marco Presta nel suo libro intitolato “Un calcio in bocca fa miracoli”:
“Ho letto sul giornale che abbiamo la classe dirigente più stagionata di tutto l’Occidente. Il manager e il ministro sono sempre stravecchi, come il parmigiano. Le grandi riforme in questo Paese, vista la situazione, può farle solo la morte”.[52]
Non si prospetta, quindi, soltanto la “cura”  per  “guarire” dalla morte, ma anche quella per gabbare gli effetti del tempo sui nostri corpi, se mai – in futuro – vorremo mantenere i nostri “involucri” di carne e ossa. C’è da aspettarsi, infatti, che non tutti abbiano il desiderio di trasformarsi in un mucchio di ingranaggi e circuiti elettronici…
“I robot, in un modo o nell’altro, sono il nostro futuro. […] noi stessi finiremo per ESSERE robot, e le nostre menti verranno trasferite su macchine molto più potenti ed efficienti dei nostri corpi da primati”.[53]
Perché:
“Non c’è limite a quel che si può raggiungere se si affronta la questione umana come un problema di ingegneria. E l’ostacolo principale è costituito dalla biologia. Il problema della natura è la natura stessa”.[54]
“In fin dei conti, forse essere caricati su supporti digitali non sarà così scioccante. Viviamo già in questa relazione prostetica con il mondo fisico, viviamo già un sacco di cose come estensioni del corpo. […] Ogni nuova interazione digitale aggiunge un particolare al nostro ritratto di consumatori, l’unico che importi ai produttori di tecnologie. Se esistessimo soltanto come pura informazione, quanto peggiorerebbero le cose?”[55]
Il rapporto morboso che molti hanno con il loro telefonino, con il loro computer o con il televisore è sintomatico, in effetti, di una trasformazione già in corso: da esseri umani a cyborg e da cyborg a robot il passo è forse più breve di quel che pensiamo… E, forse, una volta che sulla Terra ci saranno solamente robot, questi non avranno gli stessi bisogni degli esseri umani e potranno godersi la loro eternità senza grossi intoppi, ma, fino a quando il Mondo sarà popolato da umani o ibridazioni umane, i rischi saranno tanti.
Una volta toccata con mano l’immortalità, infatti, potremmo stancarci di essa, potremmo cominciare a soffrire per la mancanza di stimoli che, in precedenza, erano dettati dai limiti del tempo; il fisico sarà sano, ma la mente potrebbe iniziare a risentire di una sorta di frustrazione mentale. Sarà previsto il ricorso all’eutanasia o ai suicidi assistiti, in simili casi? Verrà studiato un modo per rimpiazzare quella che un tempo veniva accolta come una liberazione dalle sofferenze terrene?
“La luce, i sentimenti e i sensi spariranno: solo in questa condizione troverò la mia felicità”.[56]
 Avrà termine, prima o poi, la spinta a superarsi, propria dell’essere umano?
“Continuiamo a superarci. È questo il nostro obiettivo”.[57]
“Senza saperlo stavo assistendo alla rivelazione di una delle leggi più sorprendenti dell’universo: ciò che non avanza regredisce. C’è la crescita e poi il declino; in mezzo, non c’è niente. L’apogeo? Non esiste. È un’illusione”.[58]
 È possibile che, col tempo, emerga “una religione della morte in relazione al nostro prolungamento della vita”?[59]
 “-Ridateci la morte. […] In una forma o nell’altra, le persone ritorneranno alla loro originaria ossessione per la morte per riaffermare lo schema dell’estinzione. –La morte è un’abitudine difficile da spezzare”.[60]
Nel suo capolavoro, Mary Shelley scrisse:
“Quanto sono mutevoli i nostri sentimenti, e quanto è strano l’amore irriducibile che abbiamo per la vita anche al culmine dell’infelicità!”[61]
Sarà vero anche nel caso di una vita senza fine? Oppure arriveremo a maledire noi stessi come creatori dell’eternità, proprio come la Creatura maledisse Frankenstein? Stiamo cercando il progresso animati, spero, da impulsi benevoli, venati – magari – da una folle ingenuità, ma non corriamo il rischio di trovarci in una situazione identica a quella in cui poi si trovò il personaggio creato dalla Shelley?
“La ricchezza non era che un basso scopo, ma che gloria avrei conseguito se avessi scoperto il modo di bandire le malattie dal corpo umano, rendendo l’uomo immune da ogni tipo di morte che non fosse quella violenta!”[62]
“Se tanto è stato raggiunto – esclamò l’anima di Frankenstein – io mi spingerò molto più avanti; seguendo le orme dei passi già percorsi  sarò il pioniere di una nuova via, esplorerò poteri sconosciuti e svelerò al mondo i più profondi misteri della creazione”.[63]
“La vita o la morte non erano altro che un piccolo prezzo da pagare al fine di conseguire la conoscenza a cui aspiravo, per il dominio che avrei acquisito, e tramandato, sugli elementi nemici della razza umana”.[64]
Questi erano i pensieri di Frankenstein prima di comprendere le conseguenze delle proprie azioni, prima che la Creatura fosse “nata” si rivolgesse a lui nella maniera seguente:
“Ricordati che io sono la tua creatura: dovrei essere il tuo Adamo, ed invece sono piuttosto l’angelo caduto, che tu scacci ingiustamente dalla gioia. Ovunque vedo la felicità da cui io stesso sono irrevocabilmente escluso. Ero benevolo e buono: è stata l’infelicità a rendermi un demonio. Fammi felice e sarò di nuovo pieno di virtù”.[65]
Cosa diventeremo? In  cosa ci trasformeremo? Vivremo la nostra eternità in pace, gli uni con gli altri, o cercheremo vendetta per le azioni sconsiderate che abbiamo compiuto nei confronti dello stesso genere umano? Ci sentiremo gravati “dei doveri di un creatore nei confronti della propria creatura”[66]? A quel punto, cercheremo la morte? “Perché non morii allora? Più infelice di qualsiasi uomo prima di me, perché non mi fu concesso di sprofondare nell’oblio della quiete? La morte porta via con sé molti bambini pieni di vigore, le uniche speranze per i loro affettuosi genitori, quante spose e quanti giovani amanti un giorno sono nel fiore della salute e della speranza per essere preda, l’indomani, dei vermi e della corruzione sepolcrale! Di che fibra ero dunque fatto tanto da poter resistere a così tanti traumi, che, come il giro della ruota della tortura, di continuo rinnovavano il mio tormento?
Ma ero condannato a vivere […]”.[67]
“Tutte le mie ricerche e speranze non servono più a nulla, e come l’arcangelo che osò aspirare all’onnipotenza, mi ritrovo incatenato all’inferno per l’eternità”.[68]
Molte altre problematiche potrebbero sorgere nel momento in cui non ci fosse più l’amica/nemica con la falce a mettere fine alla nostra vita: non morendo, chi crede nell’Aldilà, sarebbe condannato a non vedere più i compianti defunti.
“La morte è l’unica porta per il paradiso celeste dove, si diceva, nessuno è mai entrato da vivo”.[69]
È pur vero che ci sono sempre i ricordi che, come ho scritto anche nell’articolo dedicato al Tempo, ci permettono di eludere (in parte) quell’alone di ineluttabilità che ci si appiccica addosso quando perdiamo qualcuno. Lo spiega molto bene anche la Nothomb in questo stralcio tratto da “Metafisica dei tubi”:
“Tua nonna è morta ma il ricordo di lei la fa vivere. Se riesci a scrivere le meraviglie del tuo paradiso nella materia del tuo cervello magari non trasporterai nella tua testa la loro realtà miracolosa, ma la loro forza, quella sì”.[70]
A qualcuno basta questo, ma tanti – com’è facile pensare – non si rassegnano, soprattutto se non si capacitano dei motivi per i quali si muore. Come nel seguente caso:
“-Perché si muore?
-Perché lo vuole Dio.
-Lo credi davvero?
-Non lo so. Ma ho visto morire tanta di quella gente: […] Non so se Dio ha voluto tutto questo.
-Allora perché si muore?
-È normale morire quando si è vecchi.
-Perché?
-Quando si è vissuto a lungo si è stanchi. Per una persona anziana, morire è come andare a letto È una cosa bella.
-E morire quando non si è vecchi?
-Questo non so come sia possibile”.[71]
Ancora una volta, come spesso accade quando non riesce a capire certe cose, l’uomo tira in ballo Dio; forse perché – come scriveva Emerson - “L’uomo è un Dio in rovina”[72]? O forse perché – davvero – esistono dei “parallelismi fra transumanesimo e cristianesimo […] specie per quanto riguarda il paragone fra l’estasi escatologica cristiana e l’idea della Singolarità”[73]? Nel senso che “Sono entrambe proiettate verso un momento futuro determinato; entrambe comporteranno, in definitiva, la sconfitta irrevocabile della morte”[74]?
“A me pare che il transumanesimo esprima un nostro profondo desiderio di trascendere la confusione e le pulsioni e l’impotenza e la vulnerabilità del corpo, tremante nell’ombra sempre più cupa della sua decadenza. Un anelito, storicamente appannaggio della religione, di cui oggi si sta impadronendo la tecnologia. Wesley J. Smith considerava il transumanesimo un abominio, una perversione, una vacua e grottesca parodia della religione. Io lo vedo come una nuova espressione di slanci e insoddisfazioni primordiali”.[75]
Anche nella stessa richiesta tecnica a Google “Google, per favore, risolvi il problema morte. Immortalità subito!”[76] c’era, in fondo, qualcosa che riguardava la religione:
“Più che una protesta era una supplica, una preghiera”. [Rivolta, sì, al tecno-capitalismo, ma pur sempre una preghiera. N.d.r.] Come a dire: “«Liberaci dal male»”.[77]
Anche perché “Se tradizionalmente la morte era materia per preti e teologi, adesso se ne stanno appropriando gli ingegneri e gli scienziati”.[78]
“[…] la scienza, o meglio la fede nel progresso scientifico” sta “ sostituendo la religione quale vettore di aspirazioni e illusioni culturali profonde”.[79]
“Ma provate solo a immaginare il cristianesimo, l’islam o l’induismo in un mondo senza morte – che è anche un mondo senza paradiso, inferno o reincarnazione”.[80]
E, in alternativa alla reincarnazione, “Cosa troveremo qui? Una promessa che gode di maggiori garanzie rispetto a tutti gli ineffabili aldilà delle religioni organizzate di questo mondo.
-Ci serve davvero una promessa? Perché non morire e basta? Perché siamo umani e abbiamo bisogno di aggrapparci a qualcosa. In questo caso non alla tradizione religiosa, ma alla scienza del presente e del futuro”.[81]
Harari continua questo discorso sostenendo che gli esseri umani del futuro “saranno in effetti amortali, piuttosto che immortali. A differenza di Dio, i futuri superuomini potranno ancora morire in qualche guerra o incidente, e niente li riporterà indietro dagli inferi. Ad ogni modo, a differenza di noi mortali, la loro vita non avrà una data di scadenza”. E chiude dicendo una cosa che non so se sposare o meno, ma su cui, sicuramente, vale la pena riflettere:
“Per essere preciso, la medicina moderna non ha contribuito ad allungare la nostra aspettativa neppure di un singolo anno. Il suo più grande trionfo è stato di averci salvato dalla morte PREMATURA, e di permetterci di godere appieno dei nostri anni”.[82]
Insomma, la sconfitta della morte porterebbe forse molta felicità, almeno inizialmente, ma poi, col passare del tempo, provocherebbe di sicuro moltissimi danni:
“È questo, in sostanza, il principio della Singolarità e del suo lato oscuro, rappresentato dal rischio esistenziale catastrofico. Il termine « Singolarità» è stato mutuato in primo luogo dalla fisica, nel cui ambito denota l’esatto punto centrale di un buco nero, dove la densità della materia diventa infinita e le leggi dello spaziotempo cominciano a incrinarsi. […] Ecco cos’è la Singolarità: il punto oltre il quale si presume di non poter vedere”.[83]
Ma, poi: perché vivere in eterno? Mary Shelley lascia intendere che l’amicizia, l’amore e gli affetti possono recare tanta gioia, tanta felicità e serenità che non sarebbe necessario restare su questa terra per sempre. Se, nell’arco della nostra vita, ci circonderemo di affetti veri, sinceri e profondi, questi ci appagheranno a sufficienza da non bramare di protrarre la nostra esistenza per l’eternità. Magari non si potrà evitare il dispiacere di lasciare le persone che abbiamo amato e magari le persone che abbiamo amato soffriranno per un po’ la nostra mancanza, ma poi la serenità prenderà il posto della malinconia. Probabilmente ha più senso provare pietà per i vivi che per i morti…
Prima di chiudere questo articolo/confronto bibliografico sulla morte – in cui siamo passati per transumanisti e transrazionali (Don DeLillo), creature e creatori, religione e scienza/tecnologia - vorrei, però, rivolgere una domanda a tutti coloro che lo sono arrivati a leggere fin qui: cosa fareste se foste a conoscenza della data esatta della vostra dipartita? Ve lo domando anche perché so che “Pronti a morire non significa essere disposti a scomparire. Il corpo e la mente possono dirci che è ora di lasciarci il mondo alle spalle. Ma noi ci aggrappiamo lo stesso, con le unghie e con i denti”.[84]





[1]“Homo Deus”, Yuval Noah Harari. Bompiani. P. 38
[2] “Essere una macchina”, Mark O’Connell. Adelphi. P. 180
[3] “Essere una macchina” , Mark O’Connell. Adelphi. P. 14
[4] “Homo Deus”, p. 44
[5] “Essere una macchina”, p. 16
[6] “Essere una macchina”, P. 16
[7] “Essere una macchina”, P. 15
[8] “Essere una macchina”, P. 75
[9] “Essere una macchina”, P. 75
[10] “Zero K” Don DeLillo. Einaudi. P. 50
[11] “Zero K”, p. 156
[12] “Frankenstein”, Mary Shelley. Feltrinelli. P. 105
[13] “Metafisica dei tubi”, Amélie Nothomb Voland. P. 36-37
[14] “Metafisica dei tubi”, P. 55
[15] “Metafisica dei tubi”, P. 37
[16] “I tabù del mondo”, Massimo Recalcati. Einaudi. P. 151
[17] “Le intermittenze della morte”, José Saramago, Feltrinelli. P. 77-79
[18] “Essere una macchina”, P. 91
[19] “Metafisica dei tubi”, P. 35
[20] “Metafisica dei tubi”, P. 35
[21] “Metafisica dei tubi”, P. 38
[22] “Homo Deus”, P. 38
[23] “Metafisica dei tubi”, P. 18
[24] “Zero K”, P. 124
[25] “Zero K”, P. 117
[26] “Zero K”, P. 13
[27] “Zero K”, P. 45
[28] “Zero K”, P. 46
[29] “Zero K”, P. 62
[30] “Zero K”, P. 217
[31] “Metafisica dei tubi”, P. 15
[32] Dal film “Lucy” (2014), diretto, scritto e co-prodotto da Luc Berson e interpretato da Scarlett Johansson, Morgan Freeman, Min-sik e Amr Waked.
[33] “Homo Deus”, P. 50
[34] “Zero K”, P. 118
[35] “Essere una macchina”, P. 3
[36] “Essere una macchina”, P. 53
[37] “Zero K”, P. 39
[38] “Le intermittenze della morte”, Retro di copertina.
[39] “Le intermittenze della morte”, P. 13
[40] “Le intermittenze della morte”, P. 13
[41] “Le intermittenze della morte”, P. 21
[42] “Le intermittenze della morte”, P. 21
[43] “Le intermittenze della morte”, P. 22
[44] “Le intermittenze della morte”, P. 23
[45] “Le intermittenze della morte”, P. 151-153
[46] “Le intermittenze della morte”, P. 153
[47] “Zero K”, P. 190
[48] “Metafisica dei tubi”, P. 54
[49] “Le intermittenze della morte”, P. 39
[50] “Zero K”, P. 63-68
[51] “Zero K”, P. 113
[52] “Un calcio in bocca fa miracoli”, Marco Presta. Einaudi. P. 5
[53] “Essere una macchina”, P. 123
[54] “Essere una macchina£, P. 165
[55] “Essere una macchina”, P. 78
[56] “Frankenstein”, P. 310
[57] “Zero K”, P. 113
[58] “Metafisica dei tubi”, P. 100
[59] “Zero K”, P. 68
[60] “Zero K”, P. 68
[61] “Frankenstein”, P. 250
[62] “Frankenstein”, P. 91
[63] “Frankenstein”, P. 100-101
[64] “Frankenstein”, P. 75
[65] “Frankenstein”, P. 164
[66] “Frankenstein”, P. 166
[67] “Frankenstein”, P. 255
[68] “Frankenstein”, P. 296
[69] “Le intermittenze della morte”, P. 139
[70] “Metafisica dei tubi”, P. 36-37
[71] “Metafisica dei tubi”, P. 38-39
[72] “Essere una macchina”, P. 14
[73] “Essere una macchina”, P. 180
[74] “Essere una macchina”, P. 180
[75] “Essere una macchina”, P. 181
[76] “Essere una macchina”, P. 197
[77] “Essere una macchina”, P. 190
[78] “Homo Deus”, P. 41
[79] “Essere una macchina”, P. 75
[80] “Homo Deus”, P. 39
[81] “Essere una macchina”, P. 68
[82] “Homo Deus”, P. 48
[83] “Essere una macchina”, P. 105
[84] “Zero K”, P. 68

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