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mercoledì 23 gennaio 2019

"LE ASSAGGIATRICI" per GIORNI SELVAGGI

Da sx: Elena Varvello, Marcella Filippa, Rosella Postorino
Da sx: E. Varvello, M. Filippa, R. Postorino e Marco Pautasso

Sabato 19 gennaio 2019 si è aperta la seconda edizione di Giorni Selvaggi, al Polo del ‘900 (a Torino) che ha visto protagonista Rosella Postorino col suo maggiore successo letterario intitolato Le assaggiatrici (Edizioni Feltrinelli). Il libro, vincitore della 56esima edizione del Premio Campiello, è stato al centro di un dialogo dai toni profondi e mai scontati tra l’autrice e la poetessa Elena Varvello, introdotto da Marcella Filippa (Direttrice della Fondazione Vera Nocentini) e da Marco Pautasso (Vicedirettore editoriale del Salone del Libro).
La prima suggestione emersa durante l’intervista/dialogo ha riguardato un confronto tra l’imponente lavoro di ricerca (storica, sociale, culturale, ecc.) compiuto da Postorino per scrivere Le assaggiatrici e le altrettanto accurate ricerche fatte da Truman Capote per la stesura di A sangue freddo. La scrittrice si è, infatti, dedicata a ricerche minuziose, concentrandosi anche sui minimi dettagli per garantire al proprio romanzo la verosimiglianza di cui necessitava. Si è avvalsa di studi personali, di consulenze tecniche specialistiche e – addirittura – di visite, dal vivo, ai luoghi di cui si parla nel libro.


 La parola chiave, quella che - fin dai primi minuti di conversazione – ha conquistato la scena è stata “desiderio”.  A ben vedere, infatti, Le assaggiatrici nasce dal forte desiderio di Rosella Postorino di conoscere la donna da cui ha tratto l’ispirazione per il suo libro: Margot Wӧlk, una delle assaggiatrici di Hitler, l’ultima sopravvissuta, deceduta – però – poco prima che Postorino potesse avere l’opportunità di incontrarla.
È stata un’ardua impresa, per la scrittrice, parlare di Wӧlk, verso la quale si sentiva eticamente in difetto: come si può raccontare la storia di qualcuno che non si conosce personalmente? Come si può scrivere di cose che non sono state vissute sulla propria pelle? Paradossalmente è stato proprio questo mancato incontro tra le due donne a decretare la riuscita del romanzo perché Rosella Postorino – su consiglio della propria agente letteraria – ha preso in considerazione non tanto Margot Wӧlk quanto, piuttosto, ciò che la figura di Margot Wӧlk rappresenta: è per tale motivo che, nel romanzo di Postorino, la protagonista viene chiamata Rosa Sauer. Ed è più che comprensibile, poiché la cornice è – sì – storica, ma le vicende umane, quelle intime e personali dei protagonisti sono soltanto ISPIRATE a persone realmente esistite. Le assaggiatrici è un romanzo storico, ma unicamente per ciò che concerne l’ambientazione.
Allora perché Rosa Sauer è una figura tanto interessante? Per la sua umanità; perché è una vittima, ma una vittima particolare, “ambivalente” – come viene definita dalla stessa autrice – in quanto “scivolata nella colpa”, suo malgrado. Tutti i personaggi de Le assaggiatrici sono, in fondo, ambivalenti. Rosa Sauer, in particolare, vive la propria storia essendo vittima, ma sentendosi spesso colpevole, come se – con il suo comportamento – avesse contribuito ad alimentare, a tener vivo quello stesso Sistema che la rendeva vittima. E il periodo storico in cui si svolgono le vicende (quello della Germania di Hitler, per intenderci) ben si adatta ad ospitare questa ambivalenza, questo dualismo Bene/Male, dai confini tutt’altro che netti o definiti.
Durante il dialogo tra  Postorino e  Varvello emergono, a questo proposito, le due categorie in cui si scinde la colpa: la colpa volontaria e quella involontaria; ed ecco che il riferimento a I sommersi e i salvati di Primo Levi si fa evidente, soprattutto nel passaggio in cui lo stesso Levi dichiara che i salvati non erano – necessariamente – i migliori, ma più che altro coloro che meglio si erano adattati al Sistema. Rosa Sauer è costretta a convivere con il fatto di essere tedesca  – non nazista, è vero, ma pur sempre tedesca – e con il senso di colpa di chi sopravvive a grandi sventure.
  Varvello sostiene che conoscere la fine della storia impedisca allo scrittore di scrivere quella stessa storia e – sebbene il mancato incontro tra  Postorino e  Wӧlk sia stato decisivo per la stesura del romanzo – la  scrittrice ha, impigliate nella gola, delle domande per la donna che ha ispirato il suo libro: “Perché hai taciuto tanto a lungo? Perché non hai raccontato prima la tua storia? È per la vergogna di ciò che hai subito o di ciò che hai visto accadere?”
  Postorino ha dichiarato di non avere avuto alcun intento pedagogico tra le motivazioni che l’hanno spinta a scrivere Le assaggiatrici, ma solamente l’esigenza di raccontare una storia fatta di momenti quotidiani e – soprattutto – umani che non sarebbero (e – di fatto – non sono) mai entrati nei libri di storia. Le domande che Rosa si pone sono quelle che la stessa Rosella si  è posta e si pone ancora oggi. Sì, ancora oggi, perché un romanzo non ti dà mai le risposte (tantomeno quelle giuste in assoluto), semmai alimenta domande.
L’intervista si è chiusa con la stessa parola chiave con cui si era aperta, vale a dire con la parola “desiderio”, solo che – questa volta – il pensiero della Postorino è andato a Marguerite Duras (scrittrice di cui ha tradotto e curato alcune opere), la quale definiva il desiderio un “gesto politico”, una rivendicazione dell’esistenza.
Le due autrici hanno toccato molti altri argomenti, oltre quelli qui riportati, tra cui il modo in cui sono cambiati, nel corso di pochi anni, il clima politico e quello sociale dell’Europa. Si è parlato degli orrori compiuti in tempo di guerra e del tipo di relazioni umane che si instaurano, a volte, sotto un comune denominatore. Sotto il segno di uno stesso destino, ad esempio, può nascere un’amicizia… Anche se, nel caso specifico del romanzo in questione,  tutte le amicizie che nasceranno si troveranno in un luogo ostile (la “Tana del Lupo”), fondato sul sospetto; è chiaro, dunque, che presto le protagoniste saranno costrette a fare i conti con sentimenti agli antipodi: da una parte la solidarietà e dall’altra la rivalità.
Un incontro  davvero toccante, ricco di spunti di riflessione terminato – però – troppo presto. Ogni argomento trattato avrebbe avuto bisogno di molto più tempo; parlando a titolo personale, ho trovato il libro estremamente profondo e avrei volentieri posto delle domande all’autrice, domande che voglio condividere qui, sul mio blog:
1. Una delle numerose parole chiave del suo romanzo è “FAME”: oltre che di un bisogno di cibo può trattarsi di una metafora per indicare il bisogno di affetto, di contatto umano, di aria (e – per estensione - di libertà), di protezione, di condivisione, di fiducia e di considerazione? E, a proposito: è vero che parlare di fame in questo libro è più che appropriato (considerato il periodo storico cui fa riferimento), ma se dovesse parlare del periodo attuale, userebbe ancora “FAME” o propenderebbe – piuttosto – per “APPETITO”?
2. Nel suo libro c’è la netta distinzione tra “VIVERE” e “SOPRAVVIVERE”: cosa distingue queste due modalità di vita l’una dall’altra? La differenza può essere rappresentata dalla libertà?
3. “Ogni lavoro implica dei compromessi. Ogni lavoro è una schiavitù: il bisogno di avere un ruolo nel mondo, di essere incanalati in una direzione precisa, per sottrarsi al deragliamento, alla marginalità”. Ma davvero è il ruolo che svolgiamo a determinare chi siamo?
4. La protagonista del suo libro, Rosa Sauer, associa spesso le proprie funzioni corporali a quelle espletate dal Fürer, perché questo espediente glielo rende più “umano”: secondo lei, cosa occorre all’uomo di oggi perché veda nell’altro la stessa “umanità” presente in se stesso?
5. Come sono cambiati (se sono cambiati) i sentimenti delle persone, dal periodo della Seconda Guerra Mondiale ad oggi? La paura, il “terrore cosciente” – come lo chiama lei – è ancora la stessa paura/terrore o quando cambia l’oggetto della nostra paura cambia anche la paura stessa? L’affetto, la solidarietà, la fratellanza, l’amore e l’odio sono ancora gli stessi? Sono ancora radicati in noi allo stesso modo? Penso, ad esempio, alla crescente paura/odio per lo straniero che oggi vediamo allargarsi a macchia d’olio.
6. In certi punti del suo romanzo si evince l’importanza che assume – talvolta – la dipendenza tra gli individui: secondo lei, è necessario fare affidamento sugli altri, per poter sopravvivere, o – al contrario – la fiducia può rivelarsi una trappola da cui sarebbe meglio guardarsi?
7. È il desiderio di qualcosa a creare le condizioni perché quel qualcosa si verifichi o – al contrario – è il verificarsi di determinate circostanze a dare origine al desiderio?


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