Morte.
Sul significato di questo termine (bello, tra l’altro vedere
la parola “morte” accanto alla parola “termine”) il genere umano si divide in
due macro-categorie: la prima è quella di coloro che vedono l’uomo come fosse
una macchina, costituita da un corpo, tenuta in vita da un motore (il cuore) e
guidata da un computer di bordo (il
cervello). Spentosi il motore, non c’è
più nulla da fare, secondo il loro punto di vista. Vorrei che queste persone mi
spiegassero l’origine della personalità, del carattere, dei sentimenti, dei
ricordi (magari di vite precedenti), delle percezioni extrasensoriali e –
perché no? – del pensiero, ma senza tirare in ballo ormoni, neuroni o sinapsi…
La seconda categoria, invece, crede che nel corpo ci sia
un’anima che continuerà a vivere anche dopo la morte del suddetto corpo.
Per i primi avrei un suggerimento non tanto perché cambino
idea, ma perché possano valutare anche un’altra prospettiva: perché non provate
a vedere la morte come un naturale passaggio di stato anziché come la
cessazione della vita? Il corpo potrebbe essere un vestito, in fin dei conti,
un utilissimo “abito” che traduce all’esterno ciò che abbiamo all’interno.
La morte non è soltanto lo smettere di battere da parte del
cuore; non avviene soltanto perché sangue e, di conseguenza, ossigeno non
arrivano più al cervello; non è solo lo spegnersi dei sensi. La morte è anche
il periodico ricambio cellulare (attenzione: delle cellule, non del
telefonino); morte vuol dire anche
cambiamento: moriamo ogni volta che subiamo una sconfitta, otteniamo una
vittoria o affrontiamo una perdita (che può essere anche di una parte di noi);
morte significa anche cessazione della ricerca, del desiderio di scoperta,
ovvero l’abbandono della volontà.
Pochi esempi, questi, che ci possono invitare a pensare che
la morte si verifica ogni giorno nelle nostre vite, anche se spesso non ce ne
accorgiamo perché è il frutto di passaggi graduali. Piccoli cambiamenti di
stato che mutano il nostro essere. Prendendo per vero questo semplice
presupposto per cui è naturale morire ogni giorno, va da sé che ognuno di noi è
anche in grado di rinascere ogni giorno o, comunque, ogni volta che lo
desidera.
Certo è che la morte fa paura. Abbiamo paura che sopraggiunga
troppo presto e ci impedisca di realizzare i nostri sogni; abbiamo paura di
soffrire o di creare sofferenza ai nostri cari; abbiamo paura di cosa ci
attende dall’altra parte, se qualcosa dall’altra parte c’è… Allora mi piace
pensare che si tratti davvero di un passaggio di stato, magari di un ritorno
alla nostra vera natura, al nostro stato originario. E mi chiedo: “Se fossimo
sempre noi?” Voglio dire: pensate se i sette miliardi di individui che abitano
il pianeta Terra fossero, in realtà, sempre le stesse persone che si
re-incarnano in corpi ogni volta differenti… Se così fosse, per quale motivo,
ad ogni re-incarnazione, dimentichiamo tutto? Forse per avere la possibilità e
l’opportunità di vivere ogni vita senza portarci dietro la zavorra di antichi
retaggi, errori commessi, sensi di colpa, rimorsi o rimpianti di qualsivoglia
natura? O forse, come nel mito di Er, al momento di “ritornare” beviamo l’acqua
del fiume Amelete?
Chissà… Forse tutti
gli spermatozoi con i quali, quando sono stata concepita, ho gareggiato per
venire al mondo erano tutti me e qualunque di loro avesse “vinto” la corsa per
la vita sarebbe diventato me. E’ inquietante, ma possibile.
Chissà se nasciamo liberi di fare davvero ciò che vogliamo o
se abbiamo una missione da compiere, un Destino già segnato. E chissà se quel
Destino lo abbiamo pianificato noi stessi, prima di venire “giù” o se lo ha
fatto Qualcun altro per conto nostro.
Chissà…
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