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venerdì 15 dicembre 2023

Contemporary Monogatari: nuove narrazioni giapponesi

 

Kazuko Miyamoto, "Kimono con corde e bastoni", 2004

 

Numerosi possono essere i motivi per i quali alcune persone tendono ad annoiarsi quando vanno a visitare un Museo; uno dei motivi è che il Museo in questione non ha saputo trovare il linguaggio adatto al pubblico. Ma questo non vale di certo per il MAO che – in occasione della consueta e periodica rotazione delle opere – ha saputo rappresentare in maniera esemplare l’antico e il moderno, rendendo entrambe le cose accessibili, fruibili e comprensibili. A tutti, da tutti e per tutti. Fino al 5 maggio 2024, infatti, il secondo piano della galleria giapponese del Museo d'Arte Orientale di Torino dialogherà[1] con le opere di Kazuko Miyamoto[2], grazie alla collaborazione del Direttore del MAO, Davide Quadrio (e del suo Staff) con la Direttrice del Museo Madre di Napoli, Eva Fabbris. Il tema principale preso in esame dall’esposizione è il vestito, l’abito, attorno al quale ruotano la Natura e il movimento. Per Miyamoto, infatti, il kimono – uno dei simboli più potenti e sentiti del Giappone – si spoglia (è proprio il caso di dirlo) di stoffe e decori e sfoggia la struttura nuda, lo scheletro, per veicolare i messaggi in purezza. Perché il kimono simboleggia apertura/chiusura, rappresenta il potere e – addentrandoci nella biografia dell’artista – scopriamo che identifica anche la figura paterna.

 Questa mostra è circolare: inizia con un kimono stilizzato e con un altro kimono stilizzato termina; il percorso tra le opere è circolare, come a ricordarci la ciclicità della Natura e l’eterno ritorno a cui ogni cosa è destinata; e nel mezzo – come in una sorta di mandala – sorgono le declinazioni dei temi fondamentali.

Kazuko Miyamoto, Kimono/Corde, 2003 ca.

Il primo kimono, quello con cui si apre il riallestimento, è fatto di corda e si affianca ad uno schermo che mostra un filmato – ovviamente in loop – in cui Miyamoto compie una danza con l’ombrello (altro elemento di forma circolare). Accanto a “Umbrella Dance” – questo il titolo del video – possiamo perderci nelle forme essenziali e minimaliste dei disegni di Miyamoto che ritraggono kimono, ombrelli e altre “geometrie” naturali e non. C’è persino il ritratto di un micio.

 

Kazuko Miyamoto, opere

Pochi passi e ci si trova di fronte a una teca che riprende i disegni appesi alla parete che ci si è lasciati alle spalle.

Proseguendo, ecco che si arriva a un’esposizione di magnifici kesa[3] - indumenti che hanno molto in comune con i kimono. La ricchezza dei primi, però, stranamente non contrasta con la povertà dei secondi, anzi, la riprende e la compensa. E anche qui la Natura si manifesta attraverso le proprie forme e le proprie “geometrie” astratte, ispirate soprattutto ai fiori e alle nuvole.

Kesa, dettaglio


La decisione di accostare i kesa ai kimono è dovuta ai metodi di produzione artigianali dei due indumenti: analogamente ai mantelli rituali buddhisti, infatti, anche i kimono sono tradizionalmente realizzati assemblando rettangoli di seta. La loro forma non è destinata ad assecondare le curve del corpo, ma ad avvolgerle, nascondendole. Velare e svelare, dunque, è questo il gioco creato dal MAO nell’area dedicata al Giappone.

 La sala scorpora  le due realtà, mostrandone significato e significante attraverso la stoffa e la sua struttura portante, come uno scheletro fa con la pelle che “indossa”. Entrambe le realtà sono bidimensionali, ma incredibilmente colme di potere simbolico. Nel centro della sala, a fare da spartiacque, troneggiano le sorprendenti armature dei samurai[4].

Le armature dei samurai

 Ed ecco l’antico – con le sue forme piene e tridimensionali – che ricorda le fondamenta su cui poggia il moderno, l’impalcatura che ci ricorda il passato e getta le basi per il presente.

Aggirato il “muro” trasparente che contiene le armature (tre, come il numero di kesa esposti e come quello delle strutture “cordate” appese) si arriva a una parete ricca di fotografie di fine ‘800 che raffigurano attori di teatro kabuki, beltà femminili (bijin) immerse in colorati giardini e fanciulle intente a comporre ikebana. E, proprio per riprendere questa immersione nelle bellezze naturali, accanto alla parete in questione è stato posto un altro schermo: “In the garden” è il titolo – già di per sé esplicativo – del video proiettato.

Kazuko Miyamoto, "Ladder and Branches", 2010
 “Ladder and Branches” – un’effimera struttura a forma di scala realizzata con corde fatte di carta arrotolata e pioli in legno – “chiude” la sala e, contemporaneamente, introduce il visitatore in un corridoio tappezzato di stampe[5]

Corridoio delle stampe giapponesi
Idealmente, è un mezzo per “ascendere”, per cambiare “stato”, per salire a un livello di coscienza superiore. È un chiaro riferimento alle shimenawa, le corde utilizzate nei rituali di purificazione shintoisti, ma rappresenta anche l’attitudine dell’artista a connettere, collegare, fornire passaggi tra l’arte e la vita e punti di unione tra il passato e il presente.


Utagawa Kunisada, "L'attore Onoe Kikugoro III nel ruolo di onnagata". Periodo Edo, 1828-1829. Xilografia su carta.

 

 

  Al termine del corridoio troverete la ricostruzione di una sala da tè con all’interno un altro kimono fatto di corda e un quadro raffigurante un ombrello rosso e nero.

Utagawa Kunisada, "Camminando sotto la neve". Periodo Edo (1828-1830)

Pieno/vuoto, apertura/chiusura, interno/esterno, punti/linee/masse, andata/ritorno, opulenza/minimalismo, semplicità/complessità, passato/presente… Una mostra che fa incontrare gli opposti, li fa dialogare tra loro e ci fa scoprire che – come nel Tao – dalla contrapposizione può nascere un amalgama anziché un conflitto, se solo si riesce a raggiungere  e ad instaurare la vera comunicazione tra le parti coinvolte… Ed ecco che anche questo articolo si chiude così come è iniziato, cioè con la menzione del linguaggio...

 

Il MAO ringrazia Eva Fabbris e il Museo Madre di Napoli.

Si ringraziano, inoltre, l’Estate dell’artista, la Cuomo Collection, la collezione Marilena Bonomo, la Galleria Alessandra Bonomo, EXILE Gallery e tutti i collezionisti coinvolti.



[1] La mostra prevede l’accostamento delle opere provenienti dalle collezioni permanenti del MAO e di quelle in prestito dal Museo Madre di Napoli.

[2] Kazuko Miyamoto è nata in Giappone (a Tokyo, nel 1942) ma vive e lavora a New York. Il suo nome  (insieme a quello di Yōko Ono), è noto soprattutto nell’ambito del movimento artistico “Fluxus” costituitosi nel 1962, ma già operante sul finire degli anni 1950, i cui aderenti, di varie nazionalità, si riconoscono nelle posizioni intellettuali di G. Maciunas (1931-1978), promotore della rivista ccV TRE pubblicata a New York tra il 1955 e il 1970.

[3] Il Kesa (dal sanscrito kashaya) è un mantello indossato dai monaci buddhisti come paramento rituale ed è comparabile a un mandala, simbolo dell’universo. La sua superficie èdivisa in un numero dispari di fasce verticali (da 5 a 25), talvolta intercalate da ritagli orizzontali: la fascia centrale rappresenta l’axis mundi e il Buddha; i quadrati di tessuto applicati agli angoli evocano i quattro Re Guardiani dello spazio (shi-tenno). Il kesa viene drappeggiato sulla spalla, oppure è posato sulle spalle. La confezione di un kesa è un atto di devozione e il dono della stoffa per la sua realizzazione è fonte di merito per i praticanti: essa può consistere in un tessuto nuovo o in un kimono prezioso appartenuto a un defunto, offerto in suffragio. Da questi manufatti pregiati i monaci ritagliano delle pezze che poi cuciono insieme, in modo da evocare l’uso di stracci e rispettare così, almeno idealmente, il precetto di povertà della Dottrina.

[4] La storia dell’armatura giapponese ha inizio nel IV secolo, ma la sua struttura e la sua forma vengono definite nella seconda metà del periodo Heian (794-1185). Nel XVI secolo, con la comparsa dell’archibugio, compare l’armatura tosei-gusoku (equipaggiamento moderno) e la corazza viene rinforzata con piastre forgiate da più strati di acciaio di diversa durezza, come le spade. Alla corazza vengono aggiunte le spalliere, al casco un copri-nuca. Il casco stesso assume forme nuove e spettacolari che lo rendono adatto a essere identificato da lontano e a consentire di dirigere le truppe a distanza. Ben presto assumerà forme esuberanti, diventando occasione di vera crescita artistica. Come uno dei beni più preziosi del samurai, l’armatura rappresenta un’insegna di rango e di potere. Nella vetrina all’interno della sala sono collocate tre armature che risalgono rispettivamente alla fine del XVII secolo (armatura firmata Munemitsu della scuola Myochin; n. 1), al XVIII secolo (n. 2) e alla prima metà del XIX secolo (n. 3). L’armatura dei samurai venne usata per l’ultima volta in battaglia durante la ribellione di Satsuma, nel 1877, che pose fine per sempre alla storia di quella classe di guerrieri.

[5] STAMPA e STAMPE. La tecnica della xilografia era stata introdotta in Giappone dalla Cina nel periodo Heian (794-1185), ma il suo impiego era inizialmente limitato alla riproduzione di testi e immagini religiose. Alla fine del XVI secolo comparvero le prime stampe a carattere profano in bianco e nero, mentre le stampe a due colori (rosa e verde) risalgono al 1740 circa. La ricerca degli artigiani era stimolata dalla crescente domanda di opere che potessero essere nel contempo divulgative e raffinate – nonché economicamente accessibili – da parte della nuova borghesia urbana. Si aggiunsero in seguito altri colori, finché verso il 1765 Suzuki Harunobu perfezionò la stampa policroma. Cominciò così l’epoca d’oro delle ukiyo – e, le “immagini del mondo fluttuante” che diedero alla xilografia una dignità artistica senza  eguali in Asia orientale. Il termine fa riferimento alla transitorietà delle cose terrene e riflette l’atteggiamento di raffinato edonismo affermatosi tra i circoli di intellettuali, mercanti e artigiani delle grandi città. Le stampe raffigurano i loro soggetti più amati, quali le beltà femminili, il mondo del teatro kabuki, scene erotiche, paesaggi famosi e immagini della tradizione popolare. In questo clima fiorirono anche i surimono, letteralmente “cose impresse”, eleganti stampe utilizzate come biglietti augurali che circolavano in una cerchia limitata di persone. Peculiare dei surimono è la compresenza di immagini e di testi poetici, frutto della collaborazione tra pittori e scrittori, mediata dall’arte di esperti calligrafi e dall’abilità di intagliatori e stampatori.

mercoledì 22 novembre 2023

I POTERI DEGLI SPECCHI

 

 


“Interrogato se Narciso sarebbe giunto a vedere una lunga, tarda vecchiaia, l’indovino aveva risposto: «Se non conoscerà se stesso[1]»”.

Potrebbe sembrare una profezia in netto contrasto con la massima incisa nel Tempio di Apollo, a Delfi, che recitava: «Conosci te stesso», invece non lo è, anzi, le due affermazioni possono essere considerate l’una il completamento dell’altra. «Conosci te stesso» è una esortazione a cercare la propria vera natura, a non bastarsi mai, a crescere sempre. Perché arrivare a conoscersi definitivamente è tutt’altra cosa: si tratta di credere di essersi trovati, illudersi di non aver più bisogno di niente e di nessuno e precludersi, così, la possibilità di scoprire le altre innumerevoli caratteristiche che ci contraddistinguono. Quelle caratteristiche rappresentano il nostro essere in tutti i modi e in tutti i tempi. Narciso ha ceduto a una sorta di avarizia che lo ha fatto implodere; una brutta fine, la sua, avvenuta proprio perché ha conosciuto se stesso o, meglio, si è convinto di essersi trovato e, in un impeto di folle autostima, si è impedito di lasciar andare se stesso. In altre parole, ha impedito a se stesso di crescere e – per estensione – di vivere.

Siamo creature straordinarie ed è bene imparare ad amare noi stessi, è bene indagare su ciò che si cela nelle profondità della nostra mente e del nostro cuore, ma non dobbiamo dimenticare che, a volte, per capire chi siamo, chi siamo stati e chi vogliamo essere, abbiamo bisogno di staccarci dalle nostre certezze. Gli altri possono diventare i nostri specchi e noi possiamo esserlo per loro, come l’acqua lo è stata per Narciso. Per non incorrere nel suo stesso errore basterà non fossilizzarci sulle “immagini” che vedremo riflesse, ma farne tesoro per potere aggiungere – di volta in volta – un tassello all’immenso puzzle che ognuno di noi è. Luigi Pirandello lo aveva capito molto bene quando scrisse “Uno, nessuno e centomila”, romanzo nel quale il povero Vitangelo Moscarda si lascia condizionare da un commento della moglie a proposito del suo naso.

“«L’uomo più felice della terra riuscirebbe a usare lo Specchio delle Emarb come un normale specchio, vale a dire che, guardandoci dentro, vedrebbe se stesso esattamente com’è. Cominci a capire?»

Harry ci pensò su. Poi disse: «Ci vediamo dentro quel che desideriamo… le cose che vogliamo!»

«Sì e no» disse Silente tranquillo. «Ci mostra né più né meno quello che bramiamo più profondamente e più disperatamente nel nostro cuore. […] E tuttavia questo Specchio non ci dà né la conoscenza né la verità. Ci sono uomini che si sono smarriti a forza di guardarsi, rapiti da quel che avevano visto; e uomini che hanno perso il senno perché non sapevano se quello che mostrava fosse reale o anche solo possibile. […] Ricorda: non serve a niente rifugiarsi nei sogni e dimenticarsi di vivere[2]»”.

I sogni ci tengono in vita, i desideri ci fanno crescere, ma né gli uni né gli altri possono svolgere il loro compito se non li applichiamo nella quotidianità. Guardarsi dentro è fondamentale per capire cosa si vuole, ma solo se poi si trova il coraggio di realizzarlo. Sognare la vita per poi viverla come nel sogno.

Gli specchi sono potenti ma anche pericolosi, dunque, e bisogna prestare la massima attenzione quando vi si osservano le immagini riflesse e, ancor di più, quando li si attraversa. Lewis Carroll, per esempio, fa vivere grandi avventure ad Alice quando le fa attraversare lo Specchio, ma sono avventure non prive di vertigini e stordimenti. Innanzitutto le viene prospettata la possibilità di perdere il suo nome. Il nome è l’identità e perdere l’identità sicuramente non è piacevole, ma lo scopo di ogni viaggio non è forse uscire dalla routine quotidiana e scoprire cose nuove? Non si viaggia, forse, per trovare e per trovarsi? E se ci si trascina una zavorra, una certezza tanto pesante quanto lo è il nome, è ugualmente possibile godersi l’avventura della ricerca?

Poi c’è la questione della memoria.. Vivere a rovescio presenta uno strano vantaggio: “la memoria lavora in entrambi i sensi”. È possibile ricordare le cose prima che siano accadute? In realtà, se ci pensiamo bene, è una cosa che più o meno tutti, prima o poi, sperimentiamo. Nel mondo onirico coi sogni premonitori, da svegli con déjà vu e precognizioni, nello spazio sconfinato della nostra psiche con l’immaginazione siamo perfettamente in grado di sovvertire l’ordine del Tempo a cui siamo abituati, solo che di solito archiviamo quegli episodi di libertà mentale come inspiegabili follie momentanee e cerchiamo di ritornare in fretta alla “normalità”.

“Gli specchi hanno qualcosa di mostruoso”- secondo ciò che scrisse Jorge Luis Borges in “Finzioni” – e possono rappresentare un pericolo se vi si indulge in modo sconsiderato, ma – a saperli sfruttare in modo corretto – ci si guadagna sempre almeno un cambiamento di prospettiva, un punto di vista differente, ovvero meravigliose prove di rivoluzione esteriore e interiore.

“Mi chiamo Hor.

Ma chi è questo: IO-Hor? Sono soltanto una persona? Oppure sono due persone contemporaneamente e possiedo le esperienze della seconda? Sono molte persone contemporaneamente? […] Qualcosa di mio arriva fino a voi là fuori, a quell’uno o a quei molti che siete tutt’uno con me come le api con la loro regina? Mi sentite, membra del mio corpo sparso? Sentite le mie impercettibili parole, ora o fuori del tempo? Per caso cerchi me, oh mio altro io? Cerchi Hor, che sei tu stesso? Cerchi il tuo ricordo che è presso di me? Forse che, come stelle, ci avviciniamo l’uno all’altro attraverso spazi infiniti, passo dopo passo, immagine dopo immagine?

E arriveremo mai a incontrarci, un giorno o fuori del tempo? E che cosa saremo allora? O non saremo più? Ci annulleremo a vicenda come il sì e il no?”

“O forse non facciamo altro che sognarci tutti a vicenda? Un intreccio di sogni, un groviglio senza confini, senza fondo? Siamo tutti un unico sogno che nessuno sta sognando?[3]

Siamo uno, ma in realtà siamo anche tanti e – forse – i tanti che siamo sono in collegamento con i tanti degli altri… E, quando sogniamo, chi è il sognatore e chi il sognato? E siamo più svegli nel sonno o nella veglia? E se la realtà fosse capovolta o rovesciata, da quale parte sarebbe la verità? Oppure la verità varia a seconda del punto di vista dell’osservatore? Se fosse così, non potrebbe esistere una verità assoluta, perciò tutti avremmo ragione, ma anche torto.

“Ho creato in me varie personalità. Creo costantemente personalità. Ogni mio sogno, appena lo comincio a sognare, è incarnato in un’altra persona che inizia a sognarlo, e non sono io. Per creare, mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi[4]”.

 I sogni, come si può notare, sono molto simili agli specchi perché ci mostrano la realtà, ma ci possono anche ingannare; ci fanno entrare in un'altra dimensione che è vicina quanto lontana dal mondo reale, una dimensione in cui il Tempo non esiste e non distinguiamo le ombre da chi le proietta. Come nel Mito della Caverna di Platone, narrato nel Libro VII de “La Repubblica”. Il Mito racconta la storia di uomini incatenati da tutta la vita all’interno di una caverna e costretti a vedere solo le ombre proiettate dalla realtà; per quegli uomini le ombre sono la realtà. Il loro è un mondo a due dimensioni, proprio come le immagini che vediamo riflesse negli specchi. Le ombre e i riflessi hanno in comune il fatto di essere proiezioni di un altro mondo, ma – allargando il concetto – potremmo dire che rappresentano entrambe dei “portali” per realtà alternative. E, quando immaginiamo altri mondi, siamo spinti a “riconsiderare la nostra posizione nel contesto del nostro stesso mondo. […] In pratica è proprio dalla percezione del sé che nasce la consapevolezza di tutto ciò che non è sé […]: quando immaginiamo il mondo che non abbracciamo con la nostra esperienza, stiamo scavando nelle profondità della nostra stessa psiche[5]”.

Specchi e caverne ci aiutano a tenere vivi dubbi atavici: è davvero tutto qui oppure esistono altre dimensioni? Qual è la realtà e qual è la proiezione? I mondi che creiamo con  l’immaginazione possono essere reali quanto quello in cui viviamo? Ammesso che quello in cui viviamo sia reale…

“L’immaginazione umana può creare interi universi, nei quali possiamo viaggiare servendoci degli abissi della disperazione o delle vette dell’estasi. […] Abbiamo tutti quanti un estremo bisogno di scoprire nuove realtà, di accedere a quanto è situato appena al di là della nostra capacità di percezione. […] Ciò non implica necessariamente che ogni aspetto di quei mondi che non sono accessibili alla nostra esperienza diretta sia pura immaginazione[6]”.

“Nel sogno dell’uomo che sognava, colui che era sognato si svegliò”. Borges scrisse questa frase in un racconto intitolato “Le rovine circolari”. Già di per sé si tratta di un’affermazione inquietante, ma ancor più inquietanti sono le parole con le quali il racconto si chiude, ovvero: “Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che anche lui era un’apparenza, che un altro lo stava sognando”.

E se la vita che viviamo (e di cui crediamo di avere le redini) fosse il sogno di qualcun altro? E se i nostri sogni fossero, in realtà, sogni nei sogni? Una specie di “Inception”, tanto per intenderci…

Nel libro più famoso di Michael Ende – “La Storia Infinita” – compaiono diversi specchi. La storia inizia, infatti, con una scritta al contrario. È un avvertimento, un’espediente usato per richiamare l’attenzione di Bastiano e dell’altro protagonista coinvolto nella narrazione, ovvero il lettore stesso. È un modo per dirci che stiamo per entrare in un altro mondo non meno reale di quello in cui viviamo. Ed è da lì che dovremo passare per trovare il “verso giusto” della vita.

C’è uno specchio nella soffitta in cui Bastiano si rifugia per leggere. È uno specchio tradizionale che riflette il corpo, l’esteriorità di Bastiano (e di ciascuno di noi), ed essendo un normalissimo specchio ci rimanda un’immagine satura di condizionamenti: ci dice solo quello che pensiamo di noi stessi. È un’immagine realistica, ma non per questo veritiera.

E poi c’è la Porta dello Specchio Magico…

Nessuno sa di quale materiale sia fatta; quando vi si sta davanti, non ci si vede riflessi come in un normale specchio, perché quello che si vede è il proprio Io interiore, quello vero, quello autentico. Chi ha intenzione di oltrepassare questa porta dovrà quindi entrare in se stesso e va da sé che ogni individuo vedrà qualcosa di diverso.

Nessuno di noi conosce realmente la propria natura, perciò vedere il proprio Io può rappresentare una magnifica scoperta o, al contrario, una rivelazione terrificante! È però necessario rammentare che, poiché abbiamo tante sfumature dentro di noi, sarebbe un grave errore identificarci con una di esse in via definitiva. Carl Gustav Jung, Robert Louis Stevenson e molti altri hanno raccontato i pericoli dell’immedesimazione assoluta.

Comunque sia, la porta/specchio di cui parla Ende non è solo uno strumento in grado di riflettere, ma anche un modo per proiettare al di fuori ciò che abbiamo dentro perché possiamo accorgerci delle nostre potenzialità. Non disponendo di Porte Magiche nei nostri salotti non ci resta che affidarci ai ritratti parziali che ci rimandano le persone intorno a noi. Guardando gli altri, infatti, non vediamo che noi stessi o, meglio, parti di noi. I pregi e i difetti che riscontriamo in coloro che ci circondano non sono altro che le nostre aspirazioni e le nostre paure; le cose che ci infastidiscono negli altri ci dicono più cose di noi che di quegli altri. Gli Specchi Esseni si basano proprio sul principio appena enunciato. Ma come si supera questa porta? Atreiu (che potremmo considerare come l’alter ego di Bastiano) si avvicina allo specchio con l’ingenuità tipica di ogni bambino, mosso da una curiosità sincera e privo di aspettative, paure, orgoglio, illusioni, certezze o preconcetti e ciò che vede lo sorprende e lo lascia perplesso. Con questa sensazione di meraviglia riuscirà a oltrepassare il secondo ostacolo e arrivare al successivo. In pratica, essere neutrali in partenza ci porta a meravigliarci all’arrivo.

“Gesù disse: «Colui che cerca non desista dal cercare fino a quando non avrà trovato; quando avrà trovato si stupirà. Quando si sarà stupito, si turberà e dominerà su tutto[7]»”.

Ma anche quando si “arriva” non ci si deve mai considerare arrivati del tutto.. «Conosci te stesso» - lo abbiamo detto – non significa pensare di conoscersi fino in fondo. È un buon modo per tendere sempre al miglioramento, per avere, in noi, qualcosa da cercare, come un talento, un potere, un mistero.

Guardarsi allo specchio è un po’ come vedersi da fuori: mentre tu guardi i tuoi occhi nello specchio, l’immagine nello specchio sembra fissare i tuoi occhi. L’effetto è amplificato se pensiamo che gli occhi stessi sono come specchi. Praticamente siamo specchi negli specchi, novelli Dante Alighieri in Paradiso riflessi negli occhi di un Dio che vediamo riflesso nei nostri.

Eppure siamo esseri fragili, rosi dalla paura del giudizio altrui, vittime delle incertezze, schiavi delle apparenze, come la matrigna di Biancaneve che domandava continuamente al suo specchio chi fosse la più bella del Regno. “E lo specchio rispondeva” che lei era la più bella. “Ed ella era contenta, perché sapeva che lo specchio diceva la verità[8]. Scoprire di avere una “rivale” che la superava in bellezza fu per la Regina un duro colpo, l’invidia prese il sopravvento su di lei e la indusse a compiere azioni terribili che, alla fine, le si ritorsero contro, come se avesse lanciato una maledizione… allo specchio. Ci sono varie spiegazioni all’ossessione della Regina per il proprio aspetto fisico, ma ritengo ce ne siano tre che calzano a pennello: la prima mi induce a pensare che la donna godesse inizialmente di una grande autostima (supportata dalle parole “lo specchio diceva la verità”) che, però – a un certo punto – rivela la propria fragilità; la seconda, invece, mi suggerisce che lo specchio potesse rappresentare il giudizio degli altri, talmente importante  per la Regina, da indurla a fidarsi di lui; la terza ipotesi, infine, mi porta a credere che l’invidia della matrigna nei confronti della figliastra fosse una paura che alcune madri provano e che le fa sentire più o meno inconsciamente in competizione con le figlie. È come se certe donne non accettassero l’idea di invecchiare e di lasciare lo scettro alla prole.

“In fondo al corridoio c’era lo specchio. Coraline poteva vedere se stessa camminare verso di esso, e il suo riflesso le sembrava un po’ più coraggioso di quanto lei non si sentisse. Nello specchio non c’era altro. Solo una bambina in corridoio[9]”.

Coraline è una moderna Alice nel Paese delle Meraviglie. Anche lei, come Alice, ha attraversato uno specchio e ha trovato un altro mondo, un mondo bello – all’apparenza – che però si scopre essere una realtà oscura e terrificante, se solo si ha il coraggio di indagare più a fondo.

Ma allora lo specchio non dice la verità? Sì e no. Lo specchio ci fornisce la nostra verità, quella a cui scegliamo di credere e che non è certamente la verità assoluta. L’immagine allo specchio, se vista in questi termini, è come una fotografia: è parziale, è bidimensionale e può ingannarci, se glielo permettiamo. “Degli specchi non bisogna mai fidarsi”, direbbe Coraline. Io, invece, direi: “Gli specchi non forniscono certezze assolute”, ma dobbiamo rassegnarci al fatto che sono ovunque. “Sicut in caelo et in terra”; tutto è una questione di rispecchiamento. Ci piace pensare di essere stati creati a immagine e somiglianza di Dio; molti genitori amano cercare i tratti in comune coi propri figli perché li percepiscono come estensioni delle loro vite, ma non comprendono che le radici forniscono sì un’identità, ma a volte defraudano del futuro; molti figli cercano di rifuggire le somiglianze coi loro genitori perché in quelle similitudini vedono degli obblighi e in quelle radici  dei lacci che li legano al passato. Ancora una volta, dunque, gli specchi hanno una doppia valenza: possono dare e possono togliere, possono confortare e possono terrorizzare, possono farci trovare ma possono anche farci perdere… Hanno tanti poteri, ma ogni potere dipende sempre da cosa noi – di volta in volta - decidiamo di farne.

 



[1] Ovidio, “Metamorfosi”, Libro III, Fabbri Centauria

[2] J.K.Rowling, “Harry Potter e la Pietra Filosofale”, Salani Editore

[3] Michael Ende, “Lo specchio nello specchio – Un labirinto”, Longanesi

[4] Fernando Pessoa, “Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares”, Feltrinelli

[5] Lawrence M. Krauss, “Dietro lo specchio”, Codice Edizioni

[6] Lawrence M. Krauss, “Dietro lo specchio”, Codice Edizioni

[7] Vangelo di Tomaso

[8] Jacob e Wilhelm Grimm, “Biancaneve”

[9] Neil Gaiman, “Coraline” Oscar Mondadori