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venerdì 15 dicembre 2023

Contemporary Monogatari: nuove narrazioni giapponesi

 

Kazuko Miyamoto, "Kimono con corde e bastoni", 2004

 

Numerosi possono essere i motivi per i quali alcune persone tendono ad annoiarsi quando vanno a visitare un Museo; uno dei motivi è che il Museo in questione non ha saputo trovare il linguaggio adatto al pubblico. Ma questo non vale di certo per il MAO che – in occasione della consueta e periodica rotazione delle opere – ha saputo rappresentare in maniera esemplare l’antico e il moderno, rendendo entrambe le cose accessibili, fruibili e comprensibili. A tutti, da tutti e per tutti. Fino al 5 maggio 2024, infatti, il secondo piano della galleria giapponese del Museo d'Arte Orientale di Torino dialogherà[1] con le opere di Kazuko Miyamoto[2], grazie alla collaborazione del Direttore del MAO, Davide Quadrio (e del suo Staff) con la Direttrice del Museo Madre di Napoli, Eva Fabbris. Il tema principale preso in esame dall’esposizione è il vestito, l’abito, attorno al quale ruotano la Natura e il movimento. Per Miyamoto, infatti, il kimono – uno dei simboli più potenti e sentiti del Giappone – si spoglia (è proprio il caso di dirlo) di stoffe e decori e sfoggia la struttura nuda, lo scheletro, per veicolare i messaggi in purezza. Perché il kimono simboleggia apertura/chiusura, rappresenta il potere e – addentrandoci nella biografia dell’artista – scopriamo che identifica anche la figura paterna.

 Questa mostra è circolare: inizia con un kimono stilizzato e con un altro kimono stilizzato termina; il percorso tra le opere è circolare, come a ricordarci la ciclicità della Natura e l’eterno ritorno a cui ogni cosa è destinata; e nel mezzo – come in una sorta di mandala – sorgono le declinazioni dei temi fondamentali.

Kazuko Miyamoto, Kimono/Corde, 2003 ca.

Il primo kimono, quello con cui si apre il riallestimento, è fatto di corda e si affianca ad uno schermo che mostra un filmato – ovviamente in loop – in cui Miyamoto compie una danza con l’ombrello (altro elemento di forma circolare). Accanto a “Umbrella Dance” – questo il titolo del video – possiamo perderci nelle forme essenziali e minimaliste dei disegni di Miyamoto che ritraggono kimono, ombrelli e altre “geometrie” naturali e non. C’è persino il ritratto di un micio.

 

Kazuko Miyamoto, opere

Pochi passi e ci si trova di fronte a una teca che riprende i disegni appesi alla parete che ci si è lasciati alle spalle.

Proseguendo, ecco che si arriva a un’esposizione di magnifici kesa[3] - indumenti che hanno molto in comune con i kimono. La ricchezza dei primi, però, stranamente non contrasta con la povertà dei secondi, anzi, la riprende e la compensa. E anche qui la Natura si manifesta attraverso le proprie forme e le proprie “geometrie” astratte, ispirate soprattutto ai fiori e alle nuvole.

Kesa, dettaglio


La decisione di accostare i kesa ai kimono è dovuta ai metodi di produzione artigianali dei due indumenti: analogamente ai mantelli rituali buddhisti, infatti, anche i kimono sono tradizionalmente realizzati assemblando rettangoli di seta. La loro forma non è destinata ad assecondare le curve del corpo, ma ad avvolgerle, nascondendole. Velare e svelare, dunque, è questo il gioco creato dal MAO nell’area dedicata al Giappone.

 La sala scorpora  le due realtà, mostrandone significato e significante attraverso la stoffa e la sua struttura portante, come uno scheletro fa con la pelle che “indossa”. Entrambe le realtà sono bidimensionali, ma incredibilmente colme di potere simbolico. Nel centro della sala, a fare da spartiacque, troneggiano le sorprendenti armature dei samurai[4].

Le armature dei samurai

 Ed ecco l’antico – con le sue forme piene e tridimensionali – che ricorda le fondamenta su cui poggia il moderno, l’impalcatura che ci ricorda il passato e getta le basi per il presente.

Aggirato il “muro” trasparente che contiene le armature (tre, come il numero di kesa esposti e come quello delle strutture “cordate” appese) si arriva a una parete ricca di fotografie di fine ‘800 che raffigurano attori di teatro kabuki, beltà femminili (bijin) immerse in colorati giardini e fanciulle intente a comporre ikebana. E, proprio per riprendere questa immersione nelle bellezze naturali, accanto alla parete in questione è stato posto un altro schermo: “In the garden” è il titolo – già di per sé esplicativo – del video proiettato.

Kazuko Miyamoto, "Ladder and Branches", 2010
 “Ladder and Branches” – un’effimera struttura a forma di scala realizzata con corde fatte di carta arrotolata e pioli in legno – “chiude” la sala e, contemporaneamente, introduce il visitatore in un corridoio tappezzato di stampe[5]

Corridoio delle stampe giapponesi
Idealmente, è un mezzo per “ascendere”, per cambiare “stato”, per salire a un livello di coscienza superiore. È un chiaro riferimento alle shimenawa, le corde utilizzate nei rituali di purificazione shintoisti, ma rappresenta anche l’attitudine dell’artista a connettere, collegare, fornire passaggi tra l’arte e la vita e punti di unione tra il passato e il presente.


Utagawa Kunisada, "L'attore Onoe Kikugoro III nel ruolo di onnagata". Periodo Edo, 1828-1829. Xilografia su carta.

 

 

  Al termine del corridoio troverete la ricostruzione di una sala da tè con all’interno un altro kimono fatto di corda e un quadro raffigurante un ombrello rosso e nero.

Utagawa Kunisada, "Camminando sotto la neve". Periodo Edo (1828-1830)

Pieno/vuoto, apertura/chiusura, interno/esterno, punti/linee/masse, andata/ritorno, opulenza/minimalismo, semplicità/complessità, passato/presente… Una mostra che fa incontrare gli opposti, li fa dialogare tra loro e ci fa scoprire che – come nel Tao – dalla contrapposizione può nascere un amalgama anziché un conflitto, se solo si riesce a raggiungere  e ad instaurare la vera comunicazione tra le parti coinvolte… Ed ecco che anche questo articolo si chiude così come è iniziato, cioè con la menzione del linguaggio...

 

Il MAO ringrazia Eva Fabbris e il Museo Madre di Napoli.

Si ringraziano, inoltre, l’Estate dell’artista, la Cuomo Collection, la collezione Marilena Bonomo, la Galleria Alessandra Bonomo, EXILE Gallery e tutti i collezionisti coinvolti.



[1] La mostra prevede l’accostamento delle opere provenienti dalle collezioni permanenti del MAO e di quelle in prestito dal Museo Madre di Napoli.

[2] Kazuko Miyamoto è nata in Giappone (a Tokyo, nel 1942) ma vive e lavora a New York. Il suo nome  (insieme a quello di Yōko Ono), è noto soprattutto nell’ambito del movimento artistico “Fluxus” costituitosi nel 1962, ma già operante sul finire degli anni 1950, i cui aderenti, di varie nazionalità, si riconoscono nelle posizioni intellettuali di G. Maciunas (1931-1978), promotore della rivista ccV TRE pubblicata a New York tra il 1955 e il 1970.

[3] Il Kesa (dal sanscrito kashaya) è un mantello indossato dai monaci buddhisti come paramento rituale ed è comparabile a un mandala, simbolo dell’universo. La sua superficie èdivisa in un numero dispari di fasce verticali (da 5 a 25), talvolta intercalate da ritagli orizzontali: la fascia centrale rappresenta l’axis mundi e il Buddha; i quadrati di tessuto applicati agli angoli evocano i quattro Re Guardiani dello spazio (shi-tenno). Il kesa viene drappeggiato sulla spalla, oppure è posato sulle spalle. La confezione di un kesa è un atto di devozione e il dono della stoffa per la sua realizzazione è fonte di merito per i praticanti: essa può consistere in un tessuto nuovo o in un kimono prezioso appartenuto a un defunto, offerto in suffragio. Da questi manufatti pregiati i monaci ritagliano delle pezze che poi cuciono insieme, in modo da evocare l’uso di stracci e rispettare così, almeno idealmente, il precetto di povertà della Dottrina.

[4] La storia dell’armatura giapponese ha inizio nel IV secolo, ma la sua struttura e la sua forma vengono definite nella seconda metà del periodo Heian (794-1185). Nel XVI secolo, con la comparsa dell’archibugio, compare l’armatura tosei-gusoku (equipaggiamento moderno) e la corazza viene rinforzata con piastre forgiate da più strati di acciaio di diversa durezza, come le spade. Alla corazza vengono aggiunte le spalliere, al casco un copri-nuca. Il casco stesso assume forme nuove e spettacolari che lo rendono adatto a essere identificato da lontano e a consentire di dirigere le truppe a distanza. Ben presto assumerà forme esuberanti, diventando occasione di vera crescita artistica. Come uno dei beni più preziosi del samurai, l’armatura rappresenta un’insegna di rango e di potere. Nella vetrina all’interno della sala sono collocate tre armature che risalgono rispettivamente alla fine del XVII secolo (armatura firmata Munemitsu della scuola Myochin; n. 1), al XVIII secolo (n. 2) e alla prima metà del XIX secolo (n. 3). L’armatura dei samurai venne usata per l’ultima volta in battaglia durante la ribellione di Satsuma, nel 1877, che pose fine per sempre alla storia di quella classe di guerrieri.

[5] STAMPA e STAMPE. La tecnica della xilografia era stata introdotta in Giappone dalla Cina nel periodo Heian (794-1185), ma il suo impiego era inizialmente limitato alla riproduzione di testi e immagini religiose. Alla fine del XVI secolo comparvero le prime stampe a carattere profano in bianco e nero, mentre le stampe a due colori (rosa e verde) risalgono al 1740 circa. La ricerca degli artigiani era stimolata dalla crescente domanda di opere che potessero essere nel contempo divulgative e raffinate – nonché economicamente accessibili – da parte della nuova borghesia urbana. Si aggiunsero in seguito altri colori, finché verso il 1765 Suzuki Harunobu perfezionò la stampa policroma. Cominciò così l’epoca d’oro delle ukiyo – e, le “immagini del mondo fluttuante” che diedero alla xilografia una dignità artistica senza  eguali in Asia orientale. Il termine fa riferimento alla transitorietà delle cose terrene e riflette l’atteggiamento di raffinato edonismo affermatosi tra i circoli di intellettuali, mercanti e artigiani delle grandi città. Le stampe raffigurano i loro soggetti più amati, quali le beltà femminili, il mondo del teatro kabuki, scene erotiche, paesaggi famosi e immagini della tradizione popolare. In questo clima fiorirono anche i surimono, letteralmente “cose impresse”, eleganti stampe utilizzate come biglietti augurali che circolavano in una cerchia limitata di persone. Peculiare dei surimono è la compresenza di immagini e di testi poetici, frutto della collaborazione tra pittori e scrittori, mediata dall’arte di esperti calligrafi e dall’abilità di intagliatori e stampatori.

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