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lunedì 2 marzo 2020

"SENZA PAROLE" di Massimo Arcangeli, Il Saggiatore.


Ogni lingua è figlia del proprio tempo, cioè della Storia del momento, ma poiché la Storia è fatta da noi, va da sé che anche la lingua è un nostro prodotto. Noi plasmiamo lei e lei plasma noi, lentamente ma con fermezza. Siamo soliti lasciarci alle spalle parole cui riserviamo un destino di esiliate e, al contempo, ne adottiamo di nuove; per farlo, le “rubiamo” ad altre lingue e/o le fondiamo insieme (dando vita a degli strani collage, a volte geniali, altre volte esilaranti, talvolta addirittura raccapriccianti) oppure ne coniamo di sana pianta. A quanto pare, però: “Parole nuove e parole desuete sono la stessa cosa; sono parole che non ci sono, e ad un tratto cominciano ad esistere. ‘Contrarmellino’ e ‘paninoteca’ sono parole psicologicamente analoghe; inesistenti pronte ad esistere”. [Giorgio Manganelli]. Il risultato è sempre uno specchio su cui si riflette la società col suo pensiero, la sua politica, nonché la sua cultura in tutte le forme possibili (musicale, filosofica, scientifica, di costume, e così via). Analizzando la lingua di un popolo in un determinato momento storico, si possono desumere molte informazioni interessanti riguardo a quel periodo e a quello stesso popolo. I modi di dire, i dialetti, i proverbi, sono anch’essi forieri di utili dettagli di una cultura.
Raccontato così, il quadro della situazione non sembra tanto brutto, ma – purtroppo – c’è il cosiddetto “rovescio della medaglia”. Per ogni parola che entra nel nostro uso quotidiano ne perdiamo molte altre. Ho notato che – in particolare – si sta sfoltendo inesorabilmente la tavolozza delle parole che riguardano il “sentire”. E con “sentire” – pur non avendolo fatto apposta – ho trovato un esempio calzante per illustrare meglio la questione: l’ho messo tra virgolette proprio perché può voler dire molte cose, troppe – in realtà – tra cui ‘udire’, ‘percepire’ (col cuore), ‘odorare’, ‘intuire’, ‘notare’, e via dicendo. Sentimenti o – meglio – emozioni e sensazioni, stanno pian piano uniformando le loro numerosissime sfumature (e, con esse, la nostra sfera emotiva), come se una donna partorisse dieci figli e decidesse di chiamarli tutti quanti ‘Giovanni’. Troppo spesso usiamo una sola parola per indicare cose che necessiterebbero – ognuna – di un vocabolo a sé, di un termine specifico. È il caso, ad esempio, della parola “afflizione”.
Afflizione, nome di origine latina (lat. afflictio ‘abbattimento’, ‘disgrazia’, ‘tormento’, derivato di affligĕre ‘abbattere’, ‘scoraggiare’, ‘rovinare’) fende una terra di mezzo, collocandosi fra i più lievi tristezza o mestizia e i più intensi sofferenza o dolore, tribolazione o travaglio, patema o cordoglio, patimento o struggimento; più forti ancora strazio, crepacuore, supplizio, tortura”. [Pag. 24]
Particolarmente deprimente, a tal proposito, è l’abitudine di adattare alcune parole affinché si sobbarchino il peso di significati che non hanno. Come nel caso di “indigente”, termine di cui abbiamo modificato, col tempo, la destinazione d’uso.
Il libro di Arcangeli rispolvera accuratamente, ponendo l’accento sulle origini (etimologia), sulle sfumature di significato e sui vari utilizzi specifici, cinquanta parole cadute in disuso, ma i cui sinonimi (sia quelli di “tonalità ascendente” – CLIMAX – sia quelli di “tonalità discendente” – ANTICLIMAX) hanno ancora molto lavoro da svolgere o ne avrebbero, se solo gliene dessimo l’opportunità. Ne emerge un piccolo - ma prezioso - dizionario che conta, dunque, ben  più di cinquanta termini; utilissimo per nutrire i nostri pensieri oltre che la nostra cultura, nonché la nostra eventuale curiosità. Il libro, infatti, oltre che di “estratti letterari” di prim’ordine, è anche corredato di foto, illustrazioni e immagini d’ogni sorta, per sottolineare il fatto che le parole non sono solamente bizzarri accostamenti di lettere (SIGNIFICANTI), ma anche e soprattutto SIGNIFICATI. Le parole – ricordiamolo – racchiudono l’essenza delle cose e – seppur limitate e limitanti – o, forse proprio per questo, ci portano ad aver bisogno del maggior numero di esse per sopperire a tale limitatezza.  Impresa impossibile sarebbe     - infatti - quella di racchiudere nella parola ‘rosa’ l’essenza stessa della rosa, col suo profumo, i suoi colori, la morbidezza dei suoi petali… Ogni parola, però, è come una sfumatura di colore e, se è vero che è impossibile avere una parola per ogni sfumatura di ogni colore, è pur vero che più parole abbiamo a disposizione, meglio riusciremo a descrivere il mondo; e – di conseguenza – saremo anche in grado di crearne di nuovi, più ricchi e più sontuosi.
Perciò, quando ho visto questo libro tra le pubblicazioni de Il Saggiatore – che ringrazio per avermelo prontamente inviato – ho capito subito che avrebbe rappresentato un’ottima occasione per puntare i riflettori su quella che – probabilmente – è una delle “malattie” più diffuse del nostro tempo, ma di cui pochi si occupano (o preoccupano), ovvero la perdita del cosiddetto “vocabolario attivo” (o “lessico produttivo”). Il “vocabolario attivo” è quel repertorio di parole che usiamo regolarmente, nella vita quotidiana. E, sebbene io sia favorevole all’introduzione e all’integrazione di parole “moderne” (cioè parole che descrivono più fedelmente la realtà in cui viviamo), mi rammarico di veder perire una lingua e un linguaggio fatto di termini che avrebbero ancora tanto da dare e… da dire. Per questo motivo ho creato lo hashtag #resuscitounaparola, per infondere nuova linfa vitale alla nostra lingua e renderla più ricca di quelle sfaccettature che ho nominato poc’anzi. Perché, “salvando” le parole, si mettono in salvo non soltanto la cultura e i ricordi personali, di ognuno di noi, ma anche la cultura e la memoria storica collettiva, quella del popolo. E, chi ha letto “1984” di George Orwell, può intuire meglio ciò che intendo dire.
Nella didascalia in cui la Casa Editrice presentava il libro di Arcangeli, si diceva: “sono molti gli aggettivi, i verbi e i sostantivi che rischiano di non essere più pronunciati, appiattendo, forse, non solo il nostro modo di esprimerci ma anche il nostro modo di concepire il mondo” e io concordo con quanto asserito poiché avere poche parole è spesso indice dell’avere pochi pensieri (o pensieri superficiali e confusi) e – dato che le parole, come abbiamo detto, creano i  mondi – l’avere pochi pensieri implica a sua volta il fatto di poter creare mondi scarni.
Troppe sono le parole  UTILI che abbiamo relegato in un angolo o chiuso nei cassetti di un Limbo linguistico-mentale, perciò “resuscitarle” vorrebbe dire sia “rispolverarle” (recuperarle) sia “ri-crearle” (vedi cit. Manganelli); ma qualunque sia il vostro punto di vista prediletto tra i due, ammesso che ne abbiate uno, resta il fatto che l’intento è uno solo: riappropriarci di un tesoro dal VALORE (e dal POTERE) INESTIMABILE.

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