L’idea di costruire un
racconto basato su una serie di quadri è ammirevole, soprattutto se si
considera il fatto che arrivare a
coniugare immagini/concetti estremamente vari e disparati (tra cui spiccano
HORUS, MANTIDE e SPIRITUALITÀ ) è molto difficile. Nonostante questa premessa
spezzi una lancia a favore dell’impegno profuso dall’autrice all’interno del
proprio racconto, sono presenti anche molti aspetti (negativi) che ne inficiano
il risultato finale.
La struttura ricorda
quella dei racconti per bambini, imperniata sulla semplicità. Una semplicità
che ha – purtroppo – una doppia valenza in quanto è in grado di trasformare lo
scritto in questione da “denso” (ovvero ricco di spunti di riflessione,
significati, interpretazioni, ecc.) a superficiale. In un mondo in cui si è
soliti parlare tanto (dicendo poco e comunicando ancora meno), questo racconto
avrebbe potuto rappresentare una bella eccezione, ma così non è. Manca, innanzitutto,
una descrizione precisa e dettagliata delle motivazioni che hanno portato il
protagonista a voler intraprendere il proprio viaggio. Tale omissione (voluta,
credo, per permettere a chiunque legga il racconto di identificarsi nel
personaggio principale), impedisce -
contrariamente alle aspettative – di sviluppare empatia nei confronti del
viaggiatore, pur essendo lo smarrimento di quest’ultimo potenzialmente simile a
quello di tante persone e pur essendo il suo desiderio di ritrovare se stesso analogo
a quello di molti individui. Chiunque decida di intraprendere un percorso
(interiore o fisico o che includa entrambe le tipologie), lo fa perché prova
delle sensazioni e delle emozioni che non sono in linea con i propri desideri,
ma – in questo caso – il lettore non è messo al corrente né del vissuto del
protagonista né dei suoi desideri più profondi (fatta eccezione per alcuni
accenni al termine del racconto). Ogni viaggiatore cerca qualcosa e, quasi
sempre, quel qualcosa è la Felicità, felicità che ognuno trova in cose diverse;
forse questa è un’altra delle motivazioni per cui l’autrice ha deciso di non
fornire molti dettagli in merito alla vita del protagonista. Possiamo soltanto
fare delle supposizioni, a questo proposito. Ad esempio: la donna sulla
spiaggia rappresenta un amore trascurato? Il protagonista è stato un
materialista, in passato? Ha svolto una professione che lo ha incanalato in un
tunnel sempre più soffocante fatto di obiettivi riguardanti il solo
raggiungimento del successo? Ha avuto a che fare con talmente tante persone da
poter dire di non averne conosciuta nemmeno una, veramente? Chissà…
I “pilastri” di questo
racconto (vale a dire: spiritualità, percezione dello spazio e del tempo, importanza
del desiderio, e concetto di “Io”) travolgono il lettore a cui, però, non
vengono forniti strumenti sufficienti per orientarsi verso un pensiero
chiaro. A questo proposito, anche la
terminologia e la sintassi utilizzate richiederebbero un’accurata revisione; spesso,
infatti, si sente la necessità di rileggere i periodi più volte per poterne
comprendere il significato.
Spiazza, inoltre,
l’ingenuità dell’autrice nei confronti dell’immaginazione o – meglio – della
facoltà di visualizzare immagini mentali: non basta, infatti, visualizzare al proprio
interno immagini di calma e serenità per cambiare la realtà intorno a noi!
Detto ciò, ritengo
doveroso proporre anche una scansione degli aspetti positivi di questo breve
racconto. Ci sono descrizioni di immagini meravigliose di confini che si perdono
stemperandosi gli uni negli altri; ci sono considerazioni sulla fragilità di
certi sogni, destinati a vacillare all’arrivo della prima “TEMPESTA”; ci sono
pensieri sulla bellezza dei colori della natura, sul valore del buio, sui
bisogni dell’Anima e sull’importanza delle scoperte. Ma, soprattutto, c’è un
appello – più o meno velato – a non vivere esclusivamente nel mondo dei sogni,
ma a ricorrervi in caso di necessità per poi fare ritorno alla vita vera e
reale. E poi – a voler essere onesta – leggendo le parole della Petinardi, non
ho potuto fare a meno di “covare” delle perplessità: la più pervasiva è
sicuramente quella che riguarda la figura di HORUS; occhio vigile su noi esseri
umani, pensiero che si libra in volo per osservarci da un punto prospettico più
alto. Perplessità anche per alcune affermazioni quali, ad esempio: “Se torni,
non dovresti ritornare”, spiegata sostenendo che “l’entrare in sé stessi si può
affrontare solo una volta nella vita”. Mi sono interrogata con grande fermezza
sul significato di tali parole e sono arrivata alla conclusione che chiunque,
una volta affrontato un viaggio interiore e scoperto le meraviglie che il
proprio “Io” contiene, non può (e non dovrebbe) tornare alla realtà con gli
stessi occhi e con lo stesso atteggiamento che aveva prima del viaggio…
E, ancora: “Così aveva
smesso di desiderare troppo, che poi non basta mai”. Per mia natura non amo
accontentarmi, soprattutto quando so che posso migliorare la mia situazione;
tendo ad aspirare a mete sempre più alte, non tanto per quell’ambizione
sfrenata di fronte alla quale io stessa inorridisco, quanto per un autentico e
sano desiderio di crescita, ben lontano dall’essere considerato egocentrismo o
egoismo o, peggio ancora, superbia. Ciò non toglie il fatto che so (o, perlomeno,
tento di) apprezzare appieno i doni che la vita mi offre.
È un libro davvero
strano, quello di Veronica Petinardi, costellato sia di pregi sia di difetti.
Nel mondo servono entrambi.
Mi rammarico di non
potermi pronunciare in merito ai quadri di Michela Bartaletti, ma la lettura su
dispositivo Kindle non ne consente una valutazione.
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