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venerdì 20 ottobre 2017

Cosa accade quando siamo felici?



E’ strano come - cercando informazioni sulla felicità - si trovi solo ciò che la crea o la impedisce e non ciò che accade nel momento in cui la si conquista. Che cosa comporti realmente l’essere felici è assai difficile da sapere; perché non si sa come sia la felicità, ma una volta che si ottiene l’opportunità di provarla, si rischia di perdersi nel tentativo di trovarla ancora. La felicità è così effimera che tenerla stretta a noi diventa un’impresa non da poco, perciò  operiamo una costante ricerca, spesso senza accorgerci che tutto ciò di cui abbiamo bisogno è sotto i nostri occhi. Pochi, invece, la trovano di continuo, perché hanno smesso di cercarla, iniziando, così, a vederla dappertutto. Forse, allora, la felicità crea dipendenza, come una specie di droga psicologica: più se ne ha, più se ne desidera e non si è disposti a condividerla con alcuno. Troppo raramente accade il contrario; non ci accorgiamo che “condividere” ha un significato ben diverso da “dividere”. Se cominciassimo a cambiare punto di vista, potremmo renderci conto che donando felicità agli altri, non ne rimane meno per noi perché è un bene illimitato cui tutti, indistintamente, abbiamo diritto. Proprio per la scarsa diffusione di questa prospettiva si scatena l’invidia in chi sente di esserne sprovvisto, nei confronti di chi, invece, sembra averla trovata. Dunque, stando a questi presupposti, siamo in grado di identificare, con maggior chiarezza, le conseguenze che scaturiscono dalla felicità. Di sicuro può succedere che diventiamo invidiosi, così come può accadere  che ci trasformiamo in persone dall’animo generoso. I generosi, però, si suddividono in due sottocategorie: i veri generosi e i buonisti di comodo. Sui primi ben poco c’è da dire se non che desiderano realmente portare agli altri la gioia di vivere; sui secondi, invece, è necessario spendere qualche parola in più. Il buonista di comodo non è spinto da un sentimento nobile e puro come la generosità, bensì da un senso di vanità, di esibizionismo, sfruttato per trarne un tornaconto personale, un possibile beneficio futuro.
Talvolta la felicità porta semplicemente altra felicità, in noi e negli altri, in modo quasi automatico. E’ naturale che ciò avvenga se attraversiamo tutte le fasi di questo sentimento: siamo felici, ci rendiamo conto di esserlo, accettiamo la nostra condizione serenamente e ringraziamo per averla ottenuta. Solo così saremo in grado di innescare quel meccanismo di reazione a catena che ci permetterà di attrarre sempre più felicità. Nelle suddette fasi di transizione si intravedono altre due conseguenze dirette della felicità: la gratitudine e la paura. Mentre la gratitudine ci permette di godere appieno del dono che ci  è stato fatto, la paura limita il nostro piacere. Ma perché così tanti hanno paura di provare una sensazione così bella? Perché, come afferma il personaggio di Charlie Brown, pensano che “ogni volta che si diventa troppo felici, accade sempre qualcosa di brutto”.
Anche l’avidità può essere conseguenza di una gioia profonda.  L’avidità vista però come un circolo vizioso in cui, citando Zigmunt Bauman (sociologo polacco, classe 1925) “non ci si ferma soddisfatti, e felici, quando un nostro desiderio si realizza. Piuttosto, ci si spinge subito a desiderare qualcos’altro che ci possa soddisfare in maniera migliore. Desideriamo il desiderio più che la realizzazione di esso”. Anche il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, prima di lui, sosteneva che “la vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia”.  Entrambi ci trasmettono il messaggio che, nella vita, tutti abbiamo dei desideri che cerchiamo di realizzare. La frustrazione per il fatto di pensare che ci manca qualcosa, però, ci attanaglia e finche’  non otteniamo  ciò che stiamo cercando, saremo in preda al dolore. Una volta raggiunto il nostro obiettivo (se e quando  riusciamo a raggiungerlo) ci crogioleremo per un solo fugace attimo nella gioia, per poi cadere nella noia fino alla formulazione del successivo desiderio da rincorrere. Una specie di montagna russa, ecco cosa crea, a volte, la felicità. Fortunatamente, però, esistono anche persone “illuminate”, rese più sagge. Avendo fatto esperienza della felicità, questi individui divengono consapevoli che essa risiede nelle piccole cose, oltre che in quelle grandi; imparano ad amare la vita e, come se avessero una “meravigliosa malattia”, a “contagiare” inconsapevolmente anche chi sta attorno a loro, con questo sentimento positivo. Imparano che  non è così vero il luogo comune che domina la felicità e che la vede come una condizione pressoché irraggiungibile, sfuggente, ultraterrena, breve e inconsistente. Imparano che la felicità è un sentimento uguale per tutti (anche se ognuno la trova in cose diverse), ma che non tutti hanno il coraggio di accoglierla nelle loro vite. Certo, perché come afferma Holbrook  Jackson, scrittore del 1800, “la felicità è una forma di coraggio”. Chi trova la felicità, trova infatti un coraggio che non pensava di avere, uno status, una ricchezza interiore; perché non è la ricchezza che porta la felicità, ma la felicità che porta la ricchezza e per ricchezza – mi preme ribadirlo – non si intende espressamente quella in denaro, ma soprattutto quella interiore. La stessa cosa vale per il successo: Herman Cain, poliedrico personaggio statunitense, sostiene che “il successo non è la chiave della felicità. La felicità è la chiave del successo. Se ami quello che stai facendo, avrai successo”.
Il messaggio che tanti filosofi, tanti scrittori e tanti pensatori ci vogliono mandare è che non ci dobbiamo accanire nella ricerca della felicità perché tale ricerca “è una delle principali fonti di infelicità”, secondo Eric Hoffer (scrittore e filosofo dei primi del ‘900). Non dobbiamo nemmeno soffermarci a chiederci se siamo felici. John Stuart Mill ne è convinto e afferma: “Chiedetevi se siete felici e cesserete di esserlo”.
Sarebbe utile pensare alla felicità, guardare alla felicità come a qualcosa di meraviglioso che ci permette di crescere e di maturare quanto il dolore, ma senza tutti quegli “effetti collaterali” che esso comporta. E per corroborare questa teoria può essere emblematica l’affermazione di un aforista inglese vissuto a cavallo tra il 1800 e il 1900: “La felicità non porta la pace, ma una spada: ti scuote come un lancio di dadi sul quale hai puntato tutto, toglie la parola, annebbia la vista. La felicità è più forte di sé stessi e poggia il suo piede con fermezza sulla tua testa”.

mercoledì 18 ottobre 2017

"LE TEORIE FOLLI DELLA STORIA" di Philippe Delorme. Clichy



SOMMARIO
PREMESSA
-         IL MONDO FU CREATO SEIMILA ANNI FA
-         C’ERA UNA VOLTA LA GRANDE PIRAMIDE
-         QUEGLI ILLUMNATI CHE GOVERNANO IL MONDO
-         I COSACCCHI CONQUISTARONO L’AMERICA
-         GESU’ II, IL RITORNO
-         DEI VENUSIANI SULL’ISOLA DI PASQUA
-         GIOVANNA D’ARCO ERA UN UOMO
-         HITLER SI E’ NASCOSTO AL POLO SUD
-         L’UOMO NON E’ MAI ANDATO SULLA LUNA
-         NAPOLEONE DISCENDE DALLA MASCHERA DI FERRO
-         CRISTO SI ‘ FERMATO A SHINGŌ
-         CRO-MAGNON SAPEVA SCRIVERE
-         LA CINEPRESA PER VIAGGIARE NEL TEMPO
-         GLI EBREI VENGONO DALLO SPAZIO
-         GLI INGLESI RAPIRONO NAPOLEONE
-         LA FINE DEL MONDO ERA IERI
EPILOGO



Troppo spesso diamo per scontato l’assunto che la Storia sia una serie di fatti incontrovertibili; che essa non possa – nel senso che non dovrebbe - in alcun modo vacillare: se lo facesse, cadrebbero tutte le certezze alle quali ci aggrappiamo ogni giorno per giustificare le nostre azioni. E se la Storia fosse,  invece – come dichiarava Napoleone – “una serie di menzogne su cui ci si è messi d’accordo”? Se scoprissimo (o ci rendessimo conto) d’un tratto che ciò che noi chiamiamo Storia è una realtà – sì – ma di quelle studiate a tavolino da chi – sfruttando la fantasia, propria e/o altrui vuole ottenere vantaggi personali? Sarebbe estremamente doloroso perché emergerebbero, di noi, due caratteristiche di cui andare poco fieri: l’ignoranza e la facilità a credere. Perciò il dubbio amletico risulta non tanto “essere o non essere”, bensì “credere o non credere”. La mia risposta? Nessuna delle due cose. Si tratta – piuttosto – di chiedere; si tratta di cercare, di non fermarsi mai, neppure davanti ad una risposta che – ai nostri occhi – appare plausibile (se non addirittura possibile o accettabile). “Chi si ferma è perduto”.  Ma il mestiere dello storico non prevede “la contestazione o il relativismo. Il mestiere dello storico è quindi costrittivo e lascia poco spazio all’immaginazione […] sebbene sia impossibile pervenire a una piena oggettività nell’analisi dei fatti”. “[Uno storico può] solo tendere a delle porzioni di verità, proporre dei modelli senza imporli”. Un’altra qualità dello storico “deve essere l’umiltà, perché il suo passato avrà sempre le sue zone d’ombra, e non si può trovare una risposta a tutto”. C’è sempre qualcuno che, però, prova a strumentalizzare i fatti, gli accadimenti – da quelli assodati a quelli più vacillanti – per il proprio tornaconto, portando come vessillo un argomento che Philippe Delorme riassume così: “Una proposizione è vera perché niente dimostra che è falsa”. Lo scopo di questo libro è allora quello di tentare di scandagliare il pensiero di coloro che – con teorie strampalate, illogiche, ipercritiche, negazioniste, “parastoriche” o “pseudostoriche” – non fanno altro se non corroborare e far radicare ulteriormente (e paradossalmente) il lavoro degli storici.
Se leggerete “Le teorie folli della storia” per avere delle risposte univoche e delle verità schiaccianti, probabilmente finirete coll’avere ancora più domande, più dubbi e più incertezze, ma – in fondo – il bello sembra essere rappresentato dalla ricerca. Il tragitto che compiamo per arrivare alla meta è, spesso, più edificante della meta stessa. Lodevole il lavoro di ricerca compiuto dall’autore – Philippe Delorme – per sgretolare le macchinazioni più contorte, i giochi illusionistici dei detrattori della Storia. Molti dati vengono posti sul piatto per sfatare leggende metropolitane o bufale ben congegnate. Accuratezza e ricchezza di particolari fanno di questo libro un valido strumento per la demistificazione di alcune teorie, ma è bene ricordare che nulla deve spegnere la curiosità, perché essa è ciò che ci aiuta a non fermarci di fronte alla prima risposta.

giovedì 12 ottobre 2017

"Lisbona ultima frontiera" di Antoine Volodine. Edizioni Clichy



Due amanti in procinto di separarsi si ritrovano a Lisbona per passare insieme gli ultimi momenti. Lei è una terrorista rossa, lui un agente della polizia tedesca che, per salvarla, le ha organizzato una fuga in Estremo Oriente. I due non potranno più avere contatti per molti anni, forse per sempre. Ingrid però non vuole sparire dal suo mondo senza lasciare nessuna traccia di sé. Progetta quindi di scrivere  un libro in cui racconterà, in un linguaggio criptato e incomprensibile ai suoi nemici, la sua esperienza della lotta armata. Così, all’interno di questa cornice, si inserisce un secondo libro che contiene a sua volta altri scritti, altri narratori e altri personaggi, “una sorta di antologia commentata di testi risalenti a un’epoca immaginaria, il Rinascimento”, segnata dalla guerra e dalla dittatura. L’identità del narratore si frammenta  in una pluralità di individui e di nomi, secondo quella pratica dell’eteronimia tanto cara a Volodine (non a caso il romanzo si apre nella Lisbona di Pessoa), che permette uno sguardo più ampio e profondo sulla storia, la politica e la letteratura. Con la sua scrittura poetica e visionaria, “Lisbona ultima frontiera” è al tempo stesso una storia d’amore e un’amara riflessione sull’uomo e sulla società, che tuttavia, pur delineando il più cupo degli orizzonti, riafferma ancora una volta la forza e la bellezza della libertà umana.

Tutto il romanzo è – in realtà – un unico inarrestabile flusso di coscienza in cui gli interrogativi sono molteplici. Tale flusso è sottolineato dalla totale mancanza – per lunghi tratti – di punti fermi (intesi come segni d’interpunzione). I due protagonisti – Kurt e Ingrid – sono come due aspetti di uno stesso individuo (anche la copertina del libro sembra sottolineare il tema del doppio) non meglio identificato o identificabile, vittima di un Sistema altamente corrotto. Tale individuo è combattuto tra due scelte: restare e sottomettersi alle regole, mettendo a tacere la propria identità sovversiva o fuggire e sovvertire il Sistema dall’esterno. In questo frangente il lettore arriva a chiedersi se la fuga possa realmente rappresentare la via per conquistare la libertà o – al contrario – la perdita dell’identità. Anche in questo caso – però – si prospettano due valide considerazioni: la perdita dell’identità è un bene o un male? E’ la salvezza o – piuttosto - la morte dell’IO? Ognuno – naturalmente – è libero di trarre le proprie conclusioni, ma non prima di aver compreso di cosa si parla quando si parla di IO. IO è davvero solo il nome e il cognome di un individuo?  Ovviamente no, ma il solo fatto di vedersi portare via queste due cose per sostituirle con altre due è equiparabile ad una forma di violenza:
“Non sapeva già più molto bene a quale nome, a quale cognome, avesse risposto fino ad allora”.
“Aveva osservato la foto senza dire una parola, mentre un fulmine lancinante, indecente, gli lacerava i nervi, faceva a pezzi la sua fedeltà al mondo, appiccava il fuoco a tutta la sua vita, dall’infanzia alla vecchiaia”.
“La violenza del distacco da se stessi non ha equivalenti nel novero delle torture”.
“ Talvolta […] penso che tu mi abbia afferrata con i denti, tenuta stretta tra le fauci e trascinata fuori […] dalla mia realtà da incubo di sangue, e che tu mi abbia condotta in una realtà parallela, una realtà da incubo di morte e di pseudonimi, in cui non esisto già più, in cui la mia identità viene frantumata e rifrantumata senza posa dalle tue zanne, e in cui devo prendere delle precauzioni per farti uscire dall’ombra, per invocare impunemente la tua presenza severa, la tua presenza tenera e feroce”.
“Lisbona ultima frontiera” ruota tutto intorno alla ricerca dell’IO, della vera identità personale e lo fa avvalendosi di argute considerazioni filosofiche – innanzitutto – e poi di velati (ma non troppo) riferimenti a grandi opere letterarie. Si possono scorgere collegamenti a Jung e alla sua idea di inconscio collettivo; anche Freud viene coinvolto con le sue idee dei complessi, in particolare quello di Edipo. Persino Platone trova posto nel romanzo di Volodine, con il suo Mito della Caverna. E’ facile – allo stesso modo – cogliere i riferimenti a Ray Bradbury e al suo romanzo di punta “Fahrenheit 451” e a R. L. Stevenson  con l’altrettanto celebre romanzo “Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hide”. Luigi Pirandello domina – con la sua teoria delle maschere – tutto il romanzo, mentre particolarmente accentuati sono i riferimenti a George Orwell e al suo “La fattoria degli animali”.
L’ansiosa ricerca di identità, l’indagine metafisica per trovare l’IO, il vero IO, crea sgomento, provoca stordimento e si può rischiare di smarrirsi lungo la strada perché “sottile è la linea di confine che separa l’equilibrio mentale dall’alienazione”.
L’individuo non esiste, è solo un’ombra che si muove nell’ombra. Un concetto – quello dell’ombra, appunto – che si insinua nel lettore come un senso di forte inquietudine.
Come si va alla ricerca dell’IO?
Volodine lo fa con una serie di espedienti letterari di grande effetto: mette in bocca ai suoi personaggi i cosiddetti TEMI, ovvero spunti di riflessione filosofica che hanno il compito e il potere di scandagliare l’animo umano. Alcuni dei temi più significativi sono sicuramente questi:
-         “Fingere attaccamento alla vita è segno di forza o di debolezza?”
-         “L’uomo ebbro di libertà è libero o è soltanto ebbro?”
-         “L’animale insito in noi determina la nostra doppiezza di fronte al destino?”
-         “L’idea di sopravvivere alla propria morte può avere un fondamento non religioso?”
-         “La meticolosa elencazione degli esemplari di una determinata specie favorisce o ostacola l’identificazione di quella specie?”
-         “Se prima o poi dobbiamo morire, perché dormiamo?”
Naturalmente, questa ricerca è ostacolata con forza da un Sistema le cui basi sono marce e corrotte, ma che trova validi alleati in Istituzioni di potere e Società. La Società, con a capo le suddette Istituzioni, è – in tutto e per tutto – paragonabile a una creatura vivente, ad un organismo che ha il compito precipuo di mantenere il controllo sugli individui.
In che modo le Istituzioni esercitano il loro potere?
Sicuramente tramite la distrazione: discussioni inutili, idee preconfezionate ad hoc durante sedute a tavolino (che assomigliano in maniera impressionante al Concilio di Nicea), manipolazioni della realtà ad esclusivo beneficio dei soli membri detentori del potere e non di certo della massa. Infatti, se alla massa non si dà il tempo di pensare o – peggio ancora – le si fornisce il materiale preconfezionato sul quale pensare, è facile tenerla in pugno. Va da sé che chi tentasse di discostarsi da quelle che sono le idee imposte come verità assoluta e incontrovertibile dalle autorità verrebbe immediatamente messo a tacere, fatto a brandelli perché non scardini porte che dovrebbero rimanere chiuse e non smantelli fondamenta che dovrebbero continuare a sorreggere realtà virtuali e fittizie quasi quanto quella del film “Matrix”. E’ semplice obbedire a questo sistema: basta non farsi domande, non sollevare obiezioni, non controbattere. Anche i bambini vengono instradati – fin da subito – su questa forma di obbedienza perché se fossero lasciati liberi di pensare romperebbero le catene della schiavitù con cui è legato il mondo e darebbero vita ad un mondo in cui ognuno è libero. I bambini rappresentano il futuro, il collegamento all’innocenza e alla libertà (ormai perdute) degli adulti e questi ultimi manifestano diverse reazioni di fronte ad essi: paura, odio o – addirittura – indifferenza. Paura perché il futuro è ignoto e l’ignoto terrorizza. Odio perché i bambini hanno sicuramente molto più futuro di fronte a loro a differenza degli adulti, pertanto questi ultimi passano velocemente da questa pesante forma di invidia all’odio. Indifferenza in quanto molti ritengono i bambini nettamente inferiori rispetto a loro e indegni di considerazione.
A chi – in particolar modo – sono rivolte le critiche di Volodine?
Le critiche sono rivolte in special modo ai letterati, agli artisti, ai critici, alle comunità scientifiche, alla polizia e alla socialdemocrazia al potere, insomma a tutti gli ingranaggi della Società e a chi la fa esistere per quella che è:
“Una civiltà mostruosa, pensò Ingrid, una società distorta, oscurata in ogni campo da falsi valori, un’organizzazione i cui pilastri, continuava a rimuginare, sono la truffa istituzionalizzata, il culto del denaro, la disuguaglianza sociale, una disuguaglianza alimentata cinicamente di proposito, precisò, e i cui inconfessati punti di riferimento, si indignò, sono lo sciacallaggio, l’idiozia e la violenza. Spero che di tutto questo non resti altro che un mucchio di cenere!”
“L’odio contro i poteri costituiti, la paranoia antipoliziesca, l’idea che dietro le apparenze ufficiali agiscano delle forze manipolatrici, delle forze insospettabili agli occhi dei comuni mortali, ma determinanti, l’odio per la socialdemocrazia, per la mollezza e l’autocompiacimento della socialdemocrazia, la convinzione che la socialdemocrazia sia in realtà un totalitarismo peggiore degli altri perché privo di incrinature, l’opinione secondo la quale i socialdemocratici farebbero da paravento ai veri poteri, quelli del complesso militare-industriale (per riprendere la vostra terminologia demenziale), la paura provocata dai continui cambiamenti di identità a cui sei sottoposta, la sensazione di sbandamento di fronte all’identità che si sgretola, la paura provocata dall’annientamento, dietro di te, dei tuoi doppi, l’ossessione dei segreti che nessuno deve conoscere, l’ossessione delle costanti bugie che sei costretta a sostituire alla tua autobiografia, la paura della metamorfosi, la soddisfazione che suscitano in te le azioni violente, la paura di fronte agli anni che passano nell’isolamento della prigione o dell’esilio, l’assenza di relazioni pacifiche fra gli individui, l’assenza di sincerità, l’assenza di rimorsi, l’assenza di futuro”.
I giornalisti hanno creato un sistema di non-informazione (“La stampa ha gettato alle ortiche le questioni essenziali”) , il mondo editoriale pubblica romanzi-non romanzi, gli esegeti hanno il compito di stanare i messaggi in codice celati dietro ogni libro e di mettere all’indice o distruggere – in collaborazione con i critici letterari e la polizia – qualsiasi pubblicazione  sia ritenuta non idonea ad essere letta dalla massa.
La cosa più sconvolgente è che,  sebbene la polizia scaturisca dalla mente dei cittadini, ha il potere di ingabbiare quelle stesse menti da cui è stata partorita. In poche parole: siamo noi stessi a creare le nostre prigioni! Questo accade perché, quando siamo in tensione, i nostri sensi si acuiscono o – al contrario – si intorpidiscono a tal punto da metterci in condizione di non capire più se una cosa viene da dentro di noi o da fuori. La paura e l’angoscia che scaturiscono da tale sgomento sono talmente elevate che arrivano ad assumere una forma e una dimensione al di fuori del solo pensiero; si materializzano, si concretizzano in entità corporee in grado di paralizzarci. Tanto è vero che Volodine stesso definisce la polizia “uno steccato”. In questo modo, automutilazioni e autocensure sono all’ordine del giorno. E anche la memoria diventa talmente labile che non si ha più neppure la percezione se certe cose siano accadute davvero oppure no.
Di che tipo è la paura descritta da Volodine?
La paura di cui Volodine ci parla non riguarda le sofferenze fisiche, ma qualcosa di molto più grande e spaventoso, ovvero la paura della paura. A rendere tanto palpabile questa sensazione di per sé astratta e incorporea sono il linguaggio e lo stile narrativo dello stesso Volodine. Questo scrittore è riuscito a creare non solo un romanzo “a scatole cinesi”, ma una struttura surrealistica che catapulta il lettore in un mondo di fantasia talmente plausibile da poter essere reale. Un universo parallelo, una costruzione onirica talmente vicina al mondo in cui viviamo da farci rispecchiare in essa. Si prova un fortissimo senso di stordimento e di vertigine nel leggere “Lisbona ultima frontiera” per la terminologia usata, per le figure retoriche che sostengono le immagini oniriche, per gli scenari sanguinari descritti ( che – nonostante siano spesso cruenti al limite del disgustoso – sembra non tocchino nessuno):
“Lo stridio di un’anima che viene strappata via dal corpo”.
“La casa sanguina, tutto sanguina”.
“Il luogo è deserto, le voci si sciolgono, il pensiero si scioglie nel sudore, nel silenzio della vegetazione rigogliosa […]”.
“Luccicanti gocce di liquirizia e sogni”.
Quali sono i fondamenti di questa eresia, di questa disobbedienza al potere?
Promuovere una nuova estetica, insinuare negli animi l’inquietudine, il dubbio, l’abitudine alla diffidenza nei confronti dei principi fondamentali del Rinascimento, instillare l’abitudine alla rivolta.
“Cospirare per una metamorfosi dello spirito”.
“[…] sì, continueremo, con lo stesso stile frammentario furbo e piratesco, a denunciare questa società frammentaria, furba e fasulla, fondata sulle ipocrisie, sulle bugie, sulle false bugie e sulle vere, infinitamente vere vigliaccherie”.
Un libro estremamente complesso e articolato i cui significati reconditi sono davvero numerosi. Un libro in cui la preda diventa cacciatore e il cacciatore diventa la preda, alternativamente e senza sosta. Il linguaggio è ricercato e lo stile incalzante e scorrevole sebbene la struttura non lo sia altrettanto. Specchio del nostro tempo, “Lisbona ultima frontiera” rappresenta un’attenta e accurata analisi dei difetti e dei bisogni dell’individuo a dispetto della società in cui è inserito.
Sorge una domanda: chi si accorgesse di essere un individuo dotato di una propria personalità e desiderasse emergere dalla massa per trovare sé stesso, quali e quante possibilità avrebbe di non essere schiacciato?