Quanto, dei nostri
genitori, c’è in noi?
Quanto influisce la
loro vita sulla nostra?
Quanto influisce – invece
– la loro morte sulla nostra esistenza?
Joann Sfar [1]ci
racconta quella parte di vita vissuta con i suoi genitori e – soprattutto –
quella parte di vita dalla morte della madre – prima – e del padre, dopo.
Pensieri “a briglie sciolte”, ricordi alla rinfusa per sottolineare quella
confusione che regna nella mente di un figlio alla scomparsa delle linee guida
che hanno segnato la sua vita. Smarrimento. Una sensazione che percepiamo “palpabile”
tra le righe. La scrittura come catarsi. Scrivere diventa un modo per rendere “visibili”
le proprie considerazioni mettendole su carta, nella speranza di dar loro un
ordine, di trovare un appiglio per andare avanti senza soffrire troppo. La
scrittura usata per dar corpo e peso alle anime. Periodi brevi, incisivi.
Termini secchi, asciutti, diretti. Capitoli altrettanto brevi mostrano al
lettore un “album” di ricordi fatto di tante istantanee. Rivalutare la propria
esistenza in funzione di quella dei propri genitori. Perché – in fondo – chi siamo
noi, se non il prodotto dei nostri genitori? un libro per renderci conto di
quanto un figlio somigli a un padre e di quanto – allo stesso tempo – se ne
discosti. Un libro che ci fa capire l’importanza di trovare sia dei punti di
contatto coi nostri genitori sia qualcosa per cui non possiamo confrontarci con
loro; una materia in cui essi non siano ferrati, ma noi sì, per poter recidere
quel cordone ombelicale che ci lega a loro e imparare a camminare con le nostre
gambe.
“La mia
singolarità è nata in montagna, quando è morta mia madre. Non credo che avrei
disegnato se mia madre fosse rimasta in vita, sicuramente non avrei neanche
consacrato la mia vita a raccontare storie. Mi è piaciuto molto essere orfano.
Mi ha fatto confrontare col mondo molto presto. Mentre gli altri coglioni
aspettavano ancora che Dio gli regalasse delle ruote per la bicicletta, io
stavo in piedi come uno strano adulto di tre anni e mezzo. Al contrario, la morte
di mio padre mi rende banale. Alla fine probabilmente verrò capito perché quest’opera
racconta il conflitto più comune che esista: sopravvivere al proprio padre e
accorgersi, talvolta con orrore, di somigliargli”.
“Ho avuto
fortuna a trovare il disegno, perché è l’unico campo della mia esistenza in cui
mio padre non aveva esperienza e su cui non aveva un’opinione. Non si è mai
opposto. Mi ha incoraggiato quando serviva, perché vedeva che mi rendeva felice,
ma non ne sapeva nulla”.
Un libro che ci mostra quanta umanità si possa celare dietro
alla figura di un padre che è sempre stato considerato alla stregua di un
invincibile “supereroe”. Assistere al crollo di un padre che rappresentava un
mito e scorgere nei suoi occhi e nelle sue parole la paura; paura non tanto
della morte in sé, quanto della sofferenza e del dolore che spesso le si celano
dietro.
Ecco – dunque – che questo
libro nasce con l’intento di raccontare una vita, ma – alla fine – ne racconta
ben tre: quella di una madre, quella di un padre e quella di un figlio che –
raccontando i propri genitori – finisce per raccontare sé stesso e il proprio
dolore per la perdita subita.
“Ecco
cosa accade quando si perde il padre: non si ha più nessuno da sbalordire. […]
Chi posso trovare da sbalordire, alla sua altezza?”
“Ecco
cosa mi manca del decesso di mio padre: non riesco più ad aver paura di nessuno”.
Un libro per arrivare ad ammettere che dai “duelli” con suo
padre imparava sempre qualcosa. Un libro per accorgersi che è un’impresa troppo
dura – se non impossibile – quella di mettersi alla ricerca di un’altra figura
di riferimento da cui apprendere nuove cose. Perché – nonostante le
sregolatezze e la dissolutezza - André ha cresciuto Joann trasmettendogli “come regole di
condotta il rispetto dei doveri e il culto dell’onore”. Perché un
figlio inizia dove il proprio padre finisce e la libertà dell’uno dipende da
quella dell’altro.
“E
finisce tutto quando non trovi più nessuno in grado di sparare più veloce di te”.
“Non
combatto più con nessuno, perché mio padre non c’è più”.
Quando i nostri genitori sono in vita, facciamo di tutto per
renderli orgogliosi di noi, ma una volta scomparsi loro…
“Alla
fine io e mio padre abbiamo combattuto molto poco. Credo che la guerra sia come
il sesso, bisogna praticarla poco per poterne parlare con piacere”.
In tutto il libro traspaiono con insistenza le tematiche
della religione e della Fede. Cosa significa essere un ebreo quando non hai
deciso tu di esserlo? Cosa significa vivere nel mondo dell’ebraismo quando non
sai neanche se possiedi la Fede? Dio è una superstizione o ci assiste
realmente? La religione può rappresentare davvero un utile mezzo di conforto o
è – invece – soltanto una magra consolazione? Può – la morte di coloro che
amiamo – aprire i nostri cuori a Dio?
Un libro intenso. Un libro
che si legge tutto d’un fiato. Un libro che – una volta terminato – non si
dimentica tanto facilmente.
[1] Joann
Sfar: nato a Nizza nel 1971. Esplode come autore di fumetti già a 23 anni, e si
impone come uno dei più grandi autori della bande
dessinée con opere come Il gatto del
rabbino, Professor Bell e Piccolo Vampiro. E’ autore anche del romanzo L’eterno (Rizzoli, 2014) e di romanzi illustrati come Se Dio esiste. In Italia i suoi fumetti sono stati pubblicati da Rizzoli Lizard, Bompiani, Coconino, Edizioni
BD, 001 Edizioni, Orecchio Acerbo,
Kappa Edizioni. Nel 2010 ha diretto il film Gainsbourg. Vie héroique, che si è aggiudicato il Prix César come miglior film.
Nessun commento:
Posta un commento
Grazie per essere passato/a di qua. Cosa pensi di questo post? Lasciami un commento e ti risponderò al più presto!!!